Mirari
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Giulia incontra nella cabina altre cinque persone. Paolo, un giovane medico siciliano che come lei abita a Roma, e che la guarda con simpatia. Giovanni, un imprenditore agricolo del Cilento che ama profondamente il suo lavoro. Francesco, un ingegnere toscano che si sposta da un cantiere all’altro in giro per l’Italia. Maria, una cuoca di Sapri troppo affezionata alla sua terra per andarsene. E poi c’è lui: uno stravagante e burbero anziano che se ne resta tutto il tempo in disparte.
Nell’ultima tratta, quella cilentana, i tempi di percorrenza si dilatano, e dal finestrino si affacciano paesaggi che Giulia osserva con ammirato stupore. Le chiacchiere si sommano e tra i cinque, ad eccezione del misterioso anziano, si crea un rapporto amichevole fatto di battute e di rivelazioni.
Ma arriva per la ragazza il momento di scendere. Salutare Paolo però per Giulia non è così semplice, perché in quella manciata di ore trascorse insieme nel vagone di un treno qualcosa è scoccato. Tuttavia Giulia non può permettersi di soffrire ancora per un ragazzo, dunque scende dal treno senza voltarsi indietro. Ma il destino ha altri piani per la ragazza e per tutti gli altri…
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Anteprima del libro
Mirari - Antonella Casaburi
Antonella Casaburi
Mirari
© Lastarìa Edizioni srls, 2021
Tutti i diritti riservati
Lastarìa Edizioni
Viale Libia 167 - 00199 Roma
info@lastaria.it
www.lastaria.it
I Edizione: maggio 2021
Isbn: 978-88-99706-94-4
Finito di stampare nel mese di maggio 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti e persone della vita reale è puramente casuale.
Mirari
A mio padre
Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta a ogni albero che si incontra.
UMBERTO ECO, Sei passeggiate nei boschi narrativi
I
Al fischio del capotreno, Giulia avvertì il respiro affannato e una certa stretta in fondo allo stomaco. Riuscì a salire un attimo prima della chiusura delle porte; poi, esausta, scivolò lentamente sulla valigia e rimase lì seduta a osservare la Stazione Termini.
Una luce cinerea ricopriva ogni cosa, mentre il treno avanzava lungo i binari ghiaiati, tortuosi, cigolanti, che conducevano fuori Roma. La ragazza posò lo sguardo sull’acquedotto romano e, quando le macchie verdi dell’agro si fecero più fitte, s’incamminò in cerca del proprio vagone.
Carrozza 5, posto 12 B, riportava il biglietto ferroviario.
Giulia percorse oltre metà del convoglio trascinandosi dietro la sua piccola valigia rosso fuoco che non ne voleva sapere più di camminare e che si lamentava sbatacchiando per ogni dove.
Che fosse quello lo scompartimento, in coda a un vecchio Intercity con corridoi laterali e cabine sul lato opposto, Giulia lo capì quando lesse un 5 sbiadito sulla porta d’ingresso dell’ennesimo vagone. Percorsi alcuni metri, individuò l’antro che avrebbe dovuto ospitarla per le successive quattro ore. Le tendine, luride e piuttosto spesse, erano accostate dall’interno e come un muro le impedivano la visione. Giulia batté due volte le nocche sulla porta di vetro per avvertire della sua presenza ma dall’interno qualcuno, già accortosi di lei, stava goffamente scostando la stoffa grigia; allora Giulia bussò di nuovo, aprì, ed entrando vide cinque passeggeri.
«Buonasera».
«Buonasera», le risposero coralmente tranne uno.
«Ho il 12 B».
Un ragazzo alto, magro e riccioluto abbozzò una smorfia.
«È questo», disse con voce assonnata, e pigramente si spostò sul sedile accanto, lasciando alla nuova arrivata il posto lato finestrino.
Giulia si fece largo fra le gambe dei passeggeri ed era in procinto di sollevare la valigia per riporla sul portapacchi, quando il ragazzo si alzò offrendosi di aiutarla.
«Lascia fare a me».
«Grazie».
Lui arrossì e abbassando lo sguardo afferrò con finta disinvoltura il bagaglio di Giulia, ma non sapendo che contenesse una dozzina di libri barcollò per alcuni secondi, rischiando di precipitare a terra insieme alla piccola valigia rosso fuoco. Giulia questo non l’aveva notato perché un rumore improvviso e sordo l’aveva spinta a voltarsi: un anziano dall’aria distinta, seduto al lato corridoio, in rigoroso completo blu e camicia immacolata, allarmato dal chiacchiericcio proveniente dall’esterno, aveva frettolosamente spostato e poi riaccostato le tendine.
La ragazza si abbandonò esausta su quella che nel momento le parve essere la più accogliente delle poltrone, fece un respiro profondo, e quando riprese fiato estrasse un libro dalla borsa, lo sfogliò a cercare la pagina in cui giorni prima aveva posto come segnalibro un bocciolo colto a Villa Mirafiori, e si accinse a leggere la storia, così coinvolgente eppure tanto dolorosa, di un emigrato italiano di nome Giuseppe. Lesse e rilesse più volte l’ultimo capoverso del capitolo secondo: Ancora sedicenne stava per lasciare la sua terra, un paesino soleggiato quanto arido dell’entroterra calabrese; suo padre, un contadino che si spaccava la schiena per qualche sacco di grano, non riusciva più a sostenere la famiglia, così lui, Giuseppe, il più grande di cinque fratelli, era partito con una speranza nel cuore. Non sapeva ancora degli stenti e delle sofferenze che la ricca terra d’Oltralpe aveva in serbo per lui.
Giulia chiuse il libro con un colpo secco e fissò un punto indistinto fuori dal finestrino. Non sarebbe mai andata via da casa, lei.
Il passeggero si era schiarito la voce, distogliendola dai suoi pensieri. Prima indugiò, poi: «So… sono Paolo», balbettò il ragazzo dai ricci scompigliati che le sedeva accanto; infine si mordicchiò le labbra e deglutì a fatica, in attesa di una risposta.
Lei lo guardò incuriosita.
«Giulia», disse, e gli tese la mano.
«Sei salita a Roma, vero?», le domandò lui, mentre ancora stringeva le sue dita candide e affusolate.
Giulia annuì abbozzando un sorriso.
E lui chiarì: «Anch’io abito a Roma».
«Ah!», si limitò a commentare la ragazza.
«Ma sono siciliano, di Agrigento», precisò Paolo.
«Stai tornando a casa per le vacanze di Pasqua?».
Gli occhi incollati su di lei. «Sì. Anche tu?».
Giulia si strinse nelle spalle. «Non esattamente».
«In quale quartiere abiti?».
«Castro Pretorio».
«È una bella zona, centrale e ben servita; la frequento spesso». Paolo attese un istante, poi aggiunse: «Invece io sto a Piazza Bologna».
Giulia alzò un sopracciglio. «Il posto più ambito dagli universitari!».
«Hai ragione; la vicinanza all’università è il motivo che ha spinto i miei genitori ad acquistare casa in quel quartiere». Paolo infilò una mano nel labirinto dei suoi ricci. «Ci dividono solo pochi chilometri, Giulia. Abitiamo vicini».
Silenzio.
«Molto vicini», ripeté quasi sussurrando.
Un sorriso velato. «Infatti», rispose lei, frettolosa, per poi tornare ad affondare gli occhi sulle pagine sgualcite del piccolo tomo.
Paolo, dopo un rapido sguardo all’orologio, si rivolse ancora alla sua compagna di viaggio: «Di cosa parla il tuo libro?».
Un sospiro nostalgico, e carezzando la quarta di copertina lei rispose: «È un romanzo triste. Un regalo di mio padre». Giulia non aggiunse altro, ma il suo tono aveva un qualcosa di malinconico che attecchì su Paolo.
Attraverso il vetro infestato dalla polvere il ragazzo osservava la campagna e il rincorrersi infinito degli alberi. «Stamattina avrei dovuto prendere un aereo da Fiumicino ma non ho fatto in tempo. Sarei atterrato proprio adesso, a quest’ora».
«Da quanto tempo non torni a casa?».
«Da Natale».
Giulia rifletté rapidamente: era il 24 marzo, e quel ragazzo non andava a trovare i genitori da tre mesi. Tanto, tantissimo, pensò; ma non disse nulla.
Rimasero entrambi in silenzio a guardare le querce che scorrevano veloci: un’indistinta continua macchia verde.
Il controllore passò a vidimare i biglietti e ad avvisare che erano prossimi alla stazione di Latina. Il primo fu l’anziano; era scarno, canuto, con lunghe dita innervate e gli occhi vitrei sempre fissi su quelle tendine. A turno fu la volta degli altri passeggeri, infine dei due ragazzi.
Ricci biondi e carnagione chiara, qualche lentiggine e grandi occhi azzurri; se non fosse stato per l’accento, Paolo non avrebbe avuto nulla dei tipici tratti mediterranei.
«Che fai nella vita?», gli domandò Giulia con finta noncuranza, mentre il bigliettaio si allontanava e il treno rallentava in prossimità di una curva.
«Sono un medico», le rispose con tono dolce.
«Davvero?», si sorprese Giulia, sgranando due occhi chiari, giganteschi e interrogativi. «Sembri ancora uno studente!».
«Ma ho già ventotto anni», sostenne lui, tentando di nascondere il proprio disappunto dietro a un sorriso di melassa.
E lei, radiosa, gli bisbigliò all’orecchio: «Ne dimostri molti di meno».
Paolo abbassò la testa, annuì, e mordicchiandosi il labbro inferiore disse: «Immagino tu stia studiando».
«Infatti».
«Che facoltà frequenti?».
«Lettere. Alla Sapienza». Mentre lo diceva, le venne in mente quel macigno bianco e cavo a cui si accede da una ripida scalinata di travertino: una montagna insormontabile su cui avrebbe provato a inerpicarsi negli anni a venire. Ecco cos’era; visto dall’ingresso principale che percorreva ogni mattina a piedi, dieci minuti di buona lena tra viali alberati, se lo trovava lì fermo, imponente stagliato sulla destra. Al lato opposto, identico, c’era l’altro, quello che sfornava avvocati. Li paragonava spesso a due giganteschi mattoni di cemento regolari, tanto regolari, e rigorosi, troppo rigorosi: ecco cosa pensava ogni volta quando sentendosi inappropriata, disarmata e sola, entrava nella fabbrica degli intellettuali di domani.
Mentre Giulia era assorta a riflettere, Paolo la osservava silenzioso, cercando di cogliere i suoi pensieri; il foulard verde, il vestito accollato, le calze nere e le décolleté basse non riuscivano a nascondere la sua età, che la pelle soda del viso, la bocca rosea e lo sguardo vivo rivelavano con candore.
«Quanti anni hai?», le domandò con voce tenerissima.
«Ventuno».
Paolo socchiuse gli occhi e sorrise pensando a quanto fosse bella.
Intanto, il treno procedeva imperturbabile.
***
L’anziano seduto al lato corridoio non si era premurato di nascondere una risata sarcastica. Si rivolse al ragazzo, lanciandogli uno sguardo perfido, e urlò: «Giovanotto!». E solo quando ebbe richiamato l’attenzione di tutti i passeggeri aggiunse: «Mai chiedere l’età a una donna».
Paolo rimase interdetto: terreo in volto, la bocca socchiusa, le mani sulle ginocchia con le dita intrecciate, rigide come tutto il corpo; solo il pollice destro s’agitava mosso da un tic nervoso, mentre la voce gli si era congelata in gola.
Giulia invece non tergiversò.
«Signore», si rivolse con tono severo all’anziano, «sappia che non ho alcun problema a rivelare la mia età». Sostenne il suo sguardo, finché lui non prese a lisciarsi la cravatta a righe.
«Se lo dice lei, bella signorina, sarà senz’altro così!», concluse l’anziano con fare sornione, e sollevando le spalle arroganti riprese a guardare le tendine da lui riaccostate e alle quali riservava gran parte della propria attenzione.
Iniziò a piovere gocce pesanti come schiaffi sui vetri del treno, che intanto aveva fatto sosta nella stazione di Latina.
Con tono basso e risentito Paolo informò Giulia che per un po’ avrebbe provato a dormire. Chiuse gli occhi e girò la testa dall’altro lato, nella direzione di un signore robusto che sedeva accanto a lui.
Mezz’ora più tardi Giulia decise di uscire a sgranchirsi le gambe nel corridoio. Paolo dormiva, o così voleva far pensare. Gli altri viaggiatori se ne stavano con la testa china sul cellulare, mentre l’anziano passava metà del tempo a guardare la parete di tende che si era creato e l’altra metà a fissare lei. Le sue gambe o la sua faccia. Nient’altro.
La infastidiva quel vecchiaccio. Fortuna che non l’avrebbe rivisto mai più, si disse.
Si alzò, ma un brusco movimento del treno durante una curva la fece barcollare. Stava per perdere l’equilibrio ma Paolo, troppo vigile per uno che stava riposando, la sostenne cingendola per la vita. Le sue mani erano grandi, nonostante l’aspetto gracilino, e quando furono vicini, troppo vicini, i loro sguardi azzurri si incontrarono per un timido istante.
Giulia provò una strana sensazione: una tachicardia incontrollabile che le bloccò il fiato, eppure piacevole, ma su cui si rifiutò di indagare. Non era abituata a guardare un’altra persona con gli occhi del colore dei suoi, volle convincersi. Punto. Era questa la ragione. Doveva essere questa l’unica ragione.
Sentendosi turbata, Giulia non ringraziò Paolo, piuttosto si sottrasse al contatto dei loro corpi, allontanandosi.
Non c’era nessun altro nel corridoio, e Giulia ne approfittò per distendere le braccia dietro alla schiena e fare un lungo, disinibito sbadiglio. Notò come l’anziano non avesse perso tempo a chiuderle alle spalle porta e tendine, così lei, stizzita, nel rientrare tirò via con forza, sfrontatamente, sia vetro che stoffe. Ma a trasalire, e non di poco, fu soltanto l’omone seduto accanto a Paolo.
Giulia rivolse un sorriso a quell’uomo. «Non volevo spaventare lei», disse, sottolineando quell’ultima parola.
Le gote vermiglie di quel gigante esplosero in una grassa risata. Mentre tirava indietro le gambe per consentire alla ragazza di raggiungere il suo posto: «Ti capisco perfettamente», le rispose fra i denti.
Infilandosi nella sua poltrona: «Abbiamo superato Latina!», sottolineò a gran voce Giulia.
«Capirai!», ridacchiò Paolo. «Mi mancano ancora… no, non voglio pensarci. Tu fra quante fermate scendi?».
«Fra sette fermate».
«Fortunata!», la canzonò lui.
Giulia raccolse i folti capelli rossi in una coda improvvisata. «Eh, ma sono tragitti lunghi, sai?». Rise, e fece un secondo giro con l’elastico.
Paolo, cercando di non fissare l’acconciatura disordinata della ragazza, trattenne una risata. «Dillo a me!», replicò serafico.
L’omone si protese col busto verso i due ragazzi. «Se ho fatto bene i conti, scendi alla fermata di Vallo Scalo, vero?», si rivolse a Giulia.
Lei annuì. «Sì».
«Anche io», affermò lui.
«Dove si trova? In Calabria?», domandò interessato Paolo.
«No, in Campania. A sud di Salerno», spiegò Giulia.
«Con esattezza, nel Cilento», tenne a precisare il signore robusto. Si carezzò la mandibola con la grossa mano callosa, e tronfio aggiunse: «Il paradiso nascosto d’Italia».
«Lei è di quelle zone?», gli chiese Paolo.
Gli occhi grandi e neri, resi ancora più espressivi dai capelli corvini, riflettevano la luce come due diamanti grezzi. «Sì, sono un cilentano. Sono stato da mio fratello, a Udine. È stato in ospedale; solo per questo motivo mi sono allontanato», ritenne di dover precisare. E proseguì: «Ma non vedevo l’ora di tornare, dopo cinque lunghi giorni!».
«Dopotutto cinque giorni non sono molti, nemmeno una settimana», considerò Giulia.
Paolo la guardò severo, aggrottando le sopracciglia.
L’uomo le rispose scuotendo la testa: «Non è così per me. Ho tanto lavoro da fare: ho la mia casa, la mia campagna, i miei animali». Il pomo d’Adamo parve sobbalzare quando deglutì, poi lo sguardo divenne cupo. «Scusate se vi ho interrotto coi miei discorsi. Stavate parlando».
«No, anzi, è un piacere fare la sua conoscenza», s’affrettò a rispondere la ragazza, con un tono squillante e gioviale. «Giulia», si presentò, allungandosi per stringergli la mano.
«Giovanni. E dammi del tu».
«E io sono Paolo», disse il giovane medico all’uomo robusto che sedeva alla sua sinistra.
«Sei un imprenditore agricolo?», volle sapere Giulia.
«Ho la campagna, sì».
«Produci anche biologico?».
«Certificati non ne ho, ma ti assicuro che il mio cibo è tutto genuino», chiarì Giovanni, col suo vocione roco