Incroci obbligati: Milano, le investigatrici per caso Bonetti e Valli indagano
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PAOLA VARALLI, nata a Somma Lombardo in provincia di Varese. Vive e lavora come architetto a Milano, è specializzata nel settore allestimenti: progetta stand per le fiere e le mostre. Ama la vela, i cavalli, la montagna, le passeggiate nei boschi, l’orto e il cioccolato. Odia i nervetti, le cozze, la trippa e gli intercalari ossessivi. Legge parecchio, soprattutto gialli e narrativa. Tra gli autori preferiti: Simenon, Carofiglio, Amado, Izzo, Camilleri, Marquez, Baricco, Bartezzaghi, Mankell, Grossi, Hemingway. Ha partecipato a questi concorsi letterari. Con il romanzo giallo “INCROCI OBBLIGATI” ha vinto il concorso DELITTO D’AUTORE (2° edizione, 2005) indetto dall’associazione sportiva ACSI di Lucca. Con il racconto CRISI D’IDENTITÀ ha vinto, pari merito, il concorso CORPI indetto dalla rivista MAREA di Genova, nel 2006 (pubblicato sulla rivista n. 4/2006). Con il racconto “Bar Wiliam” ha partecipato al concorso letterario “il caffè” indetto da caffè letterario Moak, comune di Modica, Sicilia e non ha vinto niente. Con il racconto “THE BIG FRECC” è pubblicata sull’antologia “Milano noir e giald” edito da COX18- Milano. Con il racconto “CHI VA ALL’ORTO È UN UOMO MORTO” è arrivata seconda alla gara “giallomilanese” indetta da Excogita edizioni (di Luciana Bianciardi) ed è pubblicata sull’antologia “Giallomilanese 2010”. Con il racconto “PAURA DELLA PERQUISA” è pubblicata sulla antologia “Giallomilanese 2012” in quanto finalista. Con Lulu ha pubblicato “IN GIRO” raccolta di spassosi diari di viaggio e trekking.
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Anteprima del libro
Incroci obbligati - Paola Varalli
Milano, palazzo del Comune, sportello concessioni edilizie. Ore 9.30 di un piovigginoso mattino. Coda di una decina di persone
Che strazio!
, pensò l’architetto Mirella Bonetti che si trovava circa a metà della coda ed era già bell’e stufa. Intanto ammazzava il tempo ragionando tra sé sulla ristrutturazione Marzocchi:
... potrei anche creare un paio di terrazzini sul tetto, la vista non è male, se sposto quel tavolato che impedisce...
‒ Mirella Bonetti! Architetto Bonetti!
Si risvegliò dai suoi pensieri.
– Sì? Sono io!
– Venga, lasci a me la sua pratica, la consegno io.
– Grazie! A cosa devo tanta cortesia signor…
Il badge, attaccato con una spilla da balia alla giacca del tizio, riportava: B. Costa.
– Signor Costa?
– È per la domanda di concessione che ha presentato qualche tempo fa, mi scusi ma sa… lei non è una che si dimentica tanto facilmente – disse l’impiegato, lanciandole un’occhiatina più da Tinto Brass che da impiegato comunale.
– La ringrazio, lo prendo per un complimento, ma cosa mi diceva? Ah sì, la domanda di concessione per la villa dei Galimberti. Qual è il problema?
– Ecco, non so, ma ho sentito ieri che le volevano telefonare per certe irregolarità di progetto, dovrebbe parlare con il geometra Diotaiuti dell’Ufficio Urbanistico. Quando l’ho vista lì in coda, ho pensato: già che è qui...
Mirella sorrise con aria serafica, quasi volesse nascondere l’agitazione nervosa che, latente, si faceva viva ogni volta che varcava la malefica soglia di quegli uffici. Una sensazione che se ne restava sopita, ma vigile, fino a che la burocrazia, con una qualsiasi delle sue sciocche argomentazioni la risvegliava, la alimentava e le faceva venire voglia di cambiare mestiere.
– Va bene, signor Costa – tagliò corto Mirella – Dove è quest’ufficio?
– All’ottavo piano, stanza 35.
– Grazie.
– Di nulla e... mi raccomando… torni a trovarmi!
L’usciere fece scivolare lo sguardo oltre il cappotto blu e lo lasciò appiccicato alle gambe dell’architetto Bonetti fino a quando non le vide sparire, insieme alla proprietaria, dietro all’angolo del corridoio. Allora tirò un sospiro e se ne andò a consegnare i documenti, riprendendo la sua aria di persona svogliata.
Mirella salì sull’ascensore e pigiò sul numero 8.
Gli uffici del Comune si trovavano in un palazzo abbastanza moderno, composto da un grattacielo di 25 piani, detto Corpo Alto
e da un edificio più basso fatto a ponte
, in modo che sotto ci passasse una strada.
E adesso cosa avevano ancora da dire su quella villa? Erano stati così pignoli che sembrava che il suo progetto prevedesse di demolire il Duomo di Milano e rifarlo in stile neo-razionalista.
Mirella pensò che ci fosse un virus del raro ceppo precisetti
che aveva scatenato un’epidemia in tutto il Comune. Non poteva credere che quel cavilloso trattamento fosse riservato solo a lei.
Adoro la burocrazia
, si disse mentre l’ascensore stava aprendo le porte, sbarcandola senza fallo davanti ad un cartello che diceva 8° piano - Servizio Programmazione e Procedure Urbanistiche
.
Dunque, vediamo... stanza 35, giro a destra... eccola qui.
La porta era socchiusa, la targhetta indicava Geom. Aldo Diotaiuti stanza 35
. In attesa, sulle sedie fuori dall’ufficio, non c’era nessuno, quindi toccava a lei e questo era già un bel conforto, vista la sua propensione per le code.
– … è permesso? Si può?
Spinse la porta, con quell’aria imbarazzata che, di solito, caratterizza chi sta entrando in un ufficio comunale.
Il geometra Aldo Diotaiuti era un uomo sulla cinquantina, calvo, con indosso una giacca di velluto a coste, camicia a righine, cravatta sobria. Complessivamente un’aria da persona per bene.
Ed era morto.
Mirella si appiattì contro la parete per il terrore. Non le usciva alcun suono di bocca. Riusciva a vedere il tagliacarte piantato nella schiena del povero geometra, ma le si annebbiava un pochino la vista.
Il morto era adagiato sulla scrivania, come se si fosse addormentato. Il viso girato da un lato, la testa appoggiata sulle braccia. Sotto, a far da cuscino, un certo numero di carte e disegni. Alcuni con grosse macchie rosso sangue. E poi c’era quel coso
nella schiena.
Mirella era atterrita. Tutto ciò non aveva senso! Mica eravamo nel Bronx o a Chicago ai tempi dei gangster! Questa era Milano, la Milano da bere
, un ufficio del Comune, carte, archivi, pausa caffè, impiegati che spettegolano... non coltelli e morti assassinati!
Cercò il fazzoletto nella tasca del cappotto, ma non c’era, vide un pacchetto di kleenex sulla scrivania e lo prese, doveva soffiarsi il naso perché, anche senza volerlo, aveva iniziato a piangere, un pianto nervoso che però la fece tornare in sé, tanto da farla uscire di scatto a gridare:
– Aiuto! C’è un morto qui dentro! Chiamate la polizia!
Il commissario Santini era un quarantenne di poche parole, vestiva sportivo e portava certi buffi occhiali che gli davano un’aria più da professore che da poliziotto.
– Dunque architetto, la porta era socchiusa, dice?
– Sì.
– E lei ha bussato per entrare?
– No, ho chiesto Si può? Permesso?
e, non ricevendo risposta, ho spinto piano e sono entrata.
– Bene, adesso mi ripeta esattamente cosa ha visto.
– Come le ho già detto, mi sono presa un accidente, quell’uomo stava lì seduto, appoggiato alla scrivania come se controllasse dei disegni da vicino, insomma il suo mestiere… ma aveva la testa piegata, se non fosse stato per quel… quel coso piantato nella schiena si sarebbe potuto pensare che si fosse addormentato sulle sue carte… io… mi è venuto come un pianto nervoso, sono uscita e ho urlato, sono arrivati alcuni impiegati dagli uffici vicini e hanno chiamato il 113. Poi siete arrivati voi.
– Ha notato niente di particolare? Un profumo, un oggetto, qualcosa che l’ha colpita o che le è sembrato strano?
– Mm... no, non mi pare, così sui due piedi… sulla scrivania del geometra c’erano cartellette, pratiche, cioè, cose di lavoro – Mirella fece una pausa per pensare.
– L’ufficio, ha visto, è abbastanza piccolo, alle pareti c’erano disegni appesi, forse progetti che il poverino stava esaminando… non so… mi sembra… senta, io ho bisogno di un caffè.
– Oh, certo, mi scusi, a volte l’abitudine a questo lavoro fa dimenticare quanto sia scioccante l’incontro ravvicinato con un cadavere, mi rendo conto che lei è un po’ impressionata, venga, laggiù c’è una macchinetta automatica.
Mirella si diresse in fondo al corridoio e Santini, seguendola, non poté evitare di notare i capelli biondi sciolti sulle spalle e le gambe lunghe e ben fatte.
– Lei è il primo architetto senza baffi con cui io ho a che fare – disse timidamente, forse per mettere Mirella a suo agio o per evitare di parlare del morto almeno per un momento.
Mirella sorrise pensando: Ossignur, adesso non attaccherà con la solita manfrina architetto o architetta? Non mi sembrava il tipo…
– Zucchero? – chiese guardandole gli occhi scuri con una certa attenzione.
– No grazie, lo prendo amaro.
La bevanda, calda e forte, scivolò come un balsamo sopra al suo scombussolamento e la fece sentire subito meglio.
– Bene architetto, facciamo così: vada a casa e si rilassi, la aspetto domani pomeriggio in commissariato per la sua deposizione, se nel frattempo si ricorda qualcosa, qualsiasi cosa non esiti a chiamarmi, ecco, questo qui è il mio numero di cellulare... tornando a domani… le va bene alle quattro e mezzo?
– Sì, mi va bene.
Santini le porse un biglietto da visita, la salutò con un sorriso e se ne andò a continuare il suo lavoro.
Mirella abitava con un’amica in via Gallarate. Avevano trovato un vecchio capannone industriale non molto grande, qualche anno addietro, e lo avevano trasformato nelle loro due residenze. Rispetto all’idea che si ha generalmente di una fabbrica, il capannone era più piccolo, ma per abitarci c’era un sacco di spazio.
Aveva i soffitti alti e le finestre grandi, a riquadri ed era molto luminoso, nonostante si trovasse al piano rialzato. Mirella aveva progettato una ristrutturazione piuttosto funzionale, creando due appartamenti distinti con alcune parti comuni. Ognuna delle due abitazioni era fornita di cucina, soggiorno e tutto il resto, ma la lavanderia era in comune e c’era anche una grande stanza in cui, tutte e due, avevano messo libri e cd, attrezzata con divani, tavolo da pranzo e dotata anche di uno spazio per cucinare. Questa era chiamata la stanza delle feste
, perché quando ricevevano gli amici quello era il posto in cui stavano.
E spesso anche quando erano da sole.
Inoltre c’era un piccolo cortile interno, che Anita, l’amica con cui Mirella divideva lo spazio, aveva trasformato in una specie di giardino con vasi e vasetti di ogni genere, perché, come Mirella sosteneva, era un po’ fissata con le piante. Riusciva a coltivare insalata e pomodori nel bel mezzo di Milano.
Quella sera Mirella entrò in casa un po’ prima del solito, era abbastanza agitata a causa degli eventi della giornata e voleva calmarsi e riflettere. Lanciò la borsa sulla cassapanca dell’ingresso, si versò un calice di bianco da una bottiglia che era già aperta in frigorifero e, con una sigaretta in bocca, si adagiò sul divano della stanza delle feste. Era un locale grande, con due divani rossi, una zona per la musica con lo stereo e, appesa al muro, la chitarra di Anita. Su uno scaffale di legno bianco c’era una coppia di tamburi bongo, una serie di armoniche blues e una discreta collezione di cd. Nell’angolo opposto una cucina un po’ di recupero ma abbastanza attrezzata era semicelata da un basso muretto di mattoni. Accanto a questo muro c’era un grande tavolo con il piano di marmo chiaro e la struttura in rovere, uno di quei tavoli con il mattarello infilato in un fianco che doveva essere appartenuto a qualche vecchia zia o nonna che viveva in campagna. Le sedie erano spaiate ma ci stavano bene.
Mirella se ne stava lì, elaborando pensieri sconnessi, quando Anita scivolò come un tornado dentro la stanza.
– Uella ciao! Che fai già a casa? Ti va una pizza? Ho comprato il lievito biologico e la farina super, mi sa che viene un impasto fighengi
.
– Anita! Ha ragione il Rizzi a dire che sei gergale e gesticolante!
– Oh quello! Al diavolo! Tu dovresti essere contenta, quando parlo con te sono me stessa e non ho bisogno di utilizzare un linguaggio costruito. Allora ti va la pizza?
– Vieni qua un momento e siediti, oggi mi è successa una cosa… insomma… ecco, ho trovato un morto negli uffici del Comune.
Anita strabuzzò gli occhi e sedette in bilico sul bracciolo del divano.
– Dai! Un morto ammazzato o uno che ha avuto... un colpo, tipo un infarto?
– No no, morto ammazzato con tanto di sangue, coltello e tutto il resto, si tratta di un geometra dell’ufficio urbanistico, su all’ottavo piano.
– E perché lo hanno ammazzato?
– Gran bella domanda. Chi lo sa? La polizia sta indagando, quando me ne sono andata, la Scientifica rilevava le impronte e c’era anche un medico, sai un anatomopatologo...
– Medico legale!
– Sì ecco, gli faranno di sicuro l’autopsia. È la prassi.
– Urchis! Che storia! Ma secondo te cosa può essere successo? Ti sei fatta un’idea?
– Ma che ne so? Guarda, un morto ammazzato è proprio l’ultima cosa che mi sarei aspettata di trovare in un ufficio del Comune! Per quel poco che ho visto il geometra aveva un’aria per bene…
Si fermò un istante a pensare e poi riprese con una certa foga, arrotolandosi i capelli.
– Dai, onestamente, ammetti che è una storia strana. L’unico reato che riesco a collegare a quel posto è di