I CANTI DI LEOPARDI: La radice animale e animica delle Illusioni si evolve come in un romanzo, attraverso la Poesia
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Anteprima del libro
I CANTI DI LEOPARDI - Mario Salvatore Antonio Grasso
Recanati significa abitudine, e l’abitudinarietà è diventata col tempo la più nociva nemica, demolitrice delle illusioni e delle speranze vitali.
Così Giacomo aveva l’abitudine, durante le sue passeggiate adolescenziali, di arrivare ad una siepe, vicino casa, posta alla soglia del monte Tabor, sopra la quale si vedeva l’immensa distesa del mare fino al confine estremo ed immoto dell’orizzonte; la linea misteriosa ed evanescente, quasi assonnata, che unisce il manto celeste e l’intermittenza placida e opalina dell’onda di mare.
Un’abitudine!
Ma un giorno, questa graveolente pesantezza viene spezzata dall’improvvisa e magica rivelazione di un viaggio, d’un lungo cammino alla ricerca dell’infinito, del miraggio consolatore.
Il piccole colle, dove intrecciati s’agitavano alla brezza i rami fraterni della siepe; il piccolo colle fu da sempre per Giacomo un rifugio elettivo, profondamente e beneficamente affettivo: un luogo privilegiato, un sentimento primario e incontaminato dell’Anima.
Il verbo essere al passato remoto, ci riporta alla confidenza perpetua tra il corpo e aspetti miracolosi di sopravvivenza della Natura, e ci fa intravedere le lontanissime ombre d’un passato che sempre ritorna, secondo il meccanismo psichico che ciò che vede la luce e poi cade nell’oblio ritornerà a rivedere la stessa identica luce innumerevoli volte; fino a quando, almeno, non s’estinguerà l’ansiosa potenza del desiderio.
L’avverbio sempre
con cui si schiude come un fiore la poesia, è sinonimo d’appartenenza, sicurezza ontologica che col sopraggiungere graduale della verità
che si muove e ci viene incontro dal tempo futuro, va a morire, come dice Sant’Agostino, nell’immenso deposito del passato, nella perenne nostalgia che sempre ritorna.
La lettura ci deve fare percepire i momenti culminanti che dal futuro approderanno alla fatalità della quiete; come quando togliendo a uno a uno i petali alla rosa, si snoda un viaggio immaginario e decrescente della vita verso la morte, dall’illusione al sonno eterno.
Assieme al colle, anche la siepe è un topos affettivo, un bisogno inestinguibile per sfuggire nel breve atto mitopoietico, alla continua, perpetua malattia dell’Anima.
Perché, anche l’Anima misteriosamente si ammala!
Mentre il colle è romito, eremitico, la siepe costituisce un fattore inibente, una barriera visiva, una forzata interiorizzazione, una rimozione feconda, come se il poeta si fosse accoccolato, accucciato ai piedi della siepe in modo che il suo sguardo è ormai sopraffatto dall’ombra che gli impedisce la visione catartica e ambivalente del mare.
Giacomo sta quasi per assopirsi quando improvvisamente vengono verso di lui spazi interminati
, infiniti, accompagnati da silenzi soprannaturali, assoluti, totalmente privi del sia pur infinitesimale residuo di contingenza, di terrestrità, di oscura tetraggine; e, infine, viene invaso e invasato da una profondissima quiete
.
Giacomo dice che queste tre dimensioni metafisiche e affettive che si trovano al di là o al di qua della natura umana, che la capacità sensibile non può afferrare e ascoltare, sono una creazione del suo pensiero immaginativo, o forse immaginale; ed è vero se pensiamo a quel luogo remoto del
1818 – 19, all’età del poeta, e alla sua vibratile ipersensibilità resa precaria e folle
dal precedente studio matto e disperatissimo
.
E, siccome il suo cuore rimane spaurito
da queste visioni, chissà che non siano state esse a venire a trovarlo, ospiti inaspettate, e a trasportarlo in un tempo
dove il suo Io
si sta indebolendo, frantumando, spezzettando in innumerevoli reliquie, in quell’abbassamento di tensione emotiva, che come si è detto, ricordando Sant’Agostino, si disperde e de materializza in quel viaggio creativo che dal tempo futuro si avvia a riposare nell’eternità del passato.
Il viaggio poetico attende le ombre immaginali del futuro che si dipartono e arrivano all’Anima per andare a depositarsi nello scrigno immenso e misterioso dei ricordi, fratelli immortali della morte.
C’è una finzione, una deformazione del pensiero accompagnata, come nei sogni, da ospiti apparentemente sconosciuti che decidono di venirci a trovare, nell’eterno ritorno del mito.
Dalla presenza corposa del colle e della siepe, figure abitudinarie e affettive, siamo arrivati all’oblio e al silenzio assoluti, secondo una traiettoria temporale che dalla condizione della deformità
ci sta trasportando all’ uni-formità
della quiete eterna, e della morte.
Il cuore del poeta era stato sul punto fatale della disintegrazione, quando quasi inavvertita s’inizia a sentire la voce del vento.
Nel mezzo simmetrico della poesia la cesura del punto fermo unisce però le due esperienze fondamentali, e il vento accelera la corsa verso la regressione finale, verso Finisterre , l’ultimo confine.
La simbiosi del cuore
e del vento
, della reclusione e dell’apertura, è sottolineata dalla cesura che divide in due sia il verso che la poesia.
Giacomo è a Recanati e, sta pensando alla nuova fuga, dopo che la prima era fallita per l’intervento del padre e dello zio materno che successivamente lo ospiterà a Roma.
Uno dei periodi più deprimenti della sua vita, incompreso dai figli viziati dello zio, e dove l’unica cosa che commuoverà intensamente il suo cuore sarà la visita alla tomba di Torquato Tasso, nella chiesa di Sant’Onofrio, sulla salita al Gianicolo: vidi la tomba di quell’infelice, e ci piansi
.
Stavamo dicendo che il cuore del poeta coperto dalla siepe era precipitato in un silenzio sovrannaturale, astrale, divino, al punto che stava per esplodere sommerso da una paura angosciosa, indefinita, nullificante.
A un tratto, un segnale salvifico lo desta da quel pesante torpore, fisico e spirituale; è l’alitare di un soffio di vento che stormisce tra le piante
, e il poeta accosta quel silenzio pre-umano o oltre umano, prerogativa privilegiata della più pura animalità e vegetabilità, al sentimento dell’eternità.
Accosta quel silenzio siderale, stellare, alla voce del vento, e dall’unione simbolica degli estremi nasce il sentimento percettivamente inafferrabile dell’Eternità e dello scorrere informe del tempo, con le sue stagioni scomparse; e, consapevolmente prende coscienza anche della propria vita presente, con i suoi echi indefinibili e inesprimibili.
Così, nel sentimento ineffabile e immateriale dell’eternità, nella vorticosa sensazione del Nulla sprofonda il suo pensiero, inghiottito dai flutti marini, o da una ninfa del mare consapevole dell’infelice condizione corporale del poeta.
E, nel momento in cui la ninfa magnanima lo sta trasportando con sé in una