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Forse non tutti sanno che a Napoli...
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E-book579 pagine7 ore

Forse non tutti sanno che a Napoli...

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti della città partenopea

Il volto sorprendente di una città dalle mille anime, geniale, misteriosa, inaspettata

Spaccati inediti, storie sconosciute o alternative, focus meno noti su argomenti famosi, aneddoti, avvenimenti tratti dalle cronache dei secoli passati, misteri sepolti tra manoscritti, pietre, guglie e pareti, curiosità ed episodi legati a personaggi celebri e poi del tutto dimenticati: questo libro racconta ciò che spesso è stato tralasciato dalla storiografia ufficiale o è rimasto nascosto tra le pieghe della storia “autorizzata”. In Forse non tutti sanno che a Napoli…, oltre la linea dei luoghi comuni, i duemilaseicento anni circa delle avventure napoletane sono presentati sotto una luce nuova e rivelano aspetti insoliti, a volte oscuri o occultati, ma sempre affascinanti. Grazie a questi preziosi tasselli prende vita sotto i nostri occhi una rappresentazione originale, viva e sorprendente della città partenopea. Una città resa grande dalle storie minime e che ha saputo, da sempre, rendere grandi anche le storie minime.

Forse non tutti sanno che a Napoli…

…il simbolo che tiene unita (e salva) la città è un uovo
...re Ladislao fu ucciso dal sesso di una donna
…i “mangiafoglie” mangiavano carne (prolegomeni a una cultura gastronomica del Sud)
…si praticava l’imbalsamazione: le mummie aragonesi
...Raimondo di Sangro curò malattie mortali: il Principe guaritore
…ci fu l’incredibile caso della “donna albero”
…non esistono prove dell’esistenza di san Gennaro
…nel Settecento i Borbone elessero la città come capitale dei primati europei
Maurizio Ponticello
è stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de «Il Mattino». È autore di Napoli, la città velata; I misteri di Piedigrotta; I Pilastri dell’anno. Il significato occulto del Calendario e del thriller La nona ora. Per la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che a Napoli..., e  con Agnese Palumbo, Misteri, segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi. Ha scritto racconti per varie antologie tra cui Apocalisse 2012 e Sbirri di Regime. Ha avuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio Domenico Rea. È vicepresidente della storica associazione Napolinoir.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2015
ISBN9788854187924
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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che a Napoli... - Maurizio Ponticello

    INTRODUZIONE. LA MEMORIA HA RADICI ANTICHE

    Per lui, come per tutti gli Americani, Napoli era stata una rivelazione inattesa e sconvolgente.

    Aveva creduto di mettere piede in un mondo dominato dalla ragione e governato dalla coscienza umana, e s’era ritrovato senza preavviso in un paese misterioso, dove gli uomini e le circostanze che fanno la loro vita, sembravano governati non dalla ragione e dalla coscienza, ma da oscure forze sotterranee.

    Curzio Malaparte, La pelle

    Il duca di Olivares, Enrique de Guzmán y Ribera, in carica alla fine del Cinquecento come vicereale per la corona di Spagna, lanciò un detto spesso rievocato dagli altri governanti: «Nessuno dovrebbe desiderare di essere viceré di Napoli per evitare il dolore che proverebbe nel lasciarla». Dopo un secolo e poco più, oltre che per le eccezionali bellezze architettoniche e paesaggistiche decantate da sempre, la città diventò con Londra e Parigi una delle tre capitali europee, e cominciò a intascare una serie impressionante di primati positivi, molti dei quali mantennero la vetta della classifica fino al 1860, il limen ad quem , come avrebbero detto i latini, la data di confine al di là dalla quale iniziò lo scivolamento nel dirupo: il declassamento.

    Alla fine del Settecento, chiunque avesse una curiosità intellettuale, un minimo di formazione colta e brama di emozioni forti, veniva in città, e certamente non per farsi iniziare dagli accoliti di Raimondo di Sangro alla massoneria, come qualche visionario esaltato ha rimarcato. Napoli era uno dei centri del mondo e, per quanto fosse assai lontana e impervia la via, era impensabile non andarci in pellegrinaggio: rappresentava un’attrazione selvaggia, bella, a volte scostumata, traboccante di vita e di passioni, viziosa quanto basta per rapire col suo canto qualsiasi integerrimo visitatore austero del Nord. Nondimeno, la città fu (ed è) un terreno di scontro, l’arena su cui inchiostri famosi si confrontarono con giudizi contrapposti. Lo scrittore londinese John Ruskin la definì «il più nauseante nido di bruchi umani in cui io sia mai stato costretto a stare, un inferno con tutti i diavoli imbecilli dentro» (1874); il filosofo Friedrich Nietzsche, invece, ebbe un’impressione totalmente differente, eppure arrivò nel Mezzogiorno solamente due anni dopo Ruskin (soggiornò tra Napoli e dintorni dall’autunno del 1876): «Quando per la prima volta vidi la sera scendere su Napoli con il suo cielo di raso grigio e rosso, improvvisamente mi sopraffece questo pensiero: avresti potuto morire senza vedere tutto ciò. Un brivido, pietà per me che cominciavo a vivere da vecchio, e lacrime, e il sentimento d’essermi salvato all’ultimo momento. Ho abbastanza spirito per il Sud» (1876). È probabile, allora, che il bello e il brutto siano sempre negli occhi di chi guarda, o nella testa di chi vuol dimostrare una tesi, come capitò con la scarica di veleni di Émile Zola, puro crudismo ideologico e polemismo sociale in cerca del marcio a tutti i costi.

    Di aneddoti e di frasi così discordi, Napoli ne è piena: amore e odio hanno sempre attraversato la terra della Sirena. Ancora oggi attrae su di sé encomi lusinghieri e inusitato disprezzo, forse per il motivo identificato dallo scrittore Curzio Malaparte, che la dipinse l’unica città al mondo a non essere naufragata nel gigantesco tracollo delle civiltà antiche, una Pompei che declina la sepoltura, un universo precristiano immutato che il razionalismo non potrà mai comprendere pienamente: «Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli» (La pelle). Lo spirito e i costumi dei partenopei continuano a vestirsi di due tempi, uno arcaico e un altro all’avanguardia, mondi che viaggiano insieme e paralleli in tutti gli aspetti. A Napoli convivono la prima metropolitana d’Italia con passaggio sotterraneo (1925) e l’ultimo metrò, quello dei record, con le stazioni d’arte più belle e famose: una metafora, e una realtà, che dovrebbero parlare da sé. E, se non bastasse, si pensi al singolare rapporto che i partenopei vivi mantengono con la morte, tuttora, nonostante i divieti della Curia; oppure alla relazione che i napoletani hanno con il portento e con la trascendenza, con i sogni, con la propria lingua, con gli spiriti che per tradizione abitano le case, salutati con rispetto ogni volta che si entra e si esce da una dimora. È possibile etichettare tutto ciò con una semplice parola di cui non si conosce più nemmeno il significato: superstizione? Oppure, c’è dell’altro?

    La città capitale del Regno borbonico salì sul podio moltissime volte, in tantissimi settori differenti: per la cultura, per la scienza, per la ricerca, per l’innovazione, per la sperimentazione, per le arti, per alcuni modelli sociali sperimentali, per il proprio patrimonio e per le ricchezze generate. «Napoli è la principale fonte della musica», scrisse Joseph-Jérôme de Lalande (1769 ca.), direttore dell’Osservatorio astronomico di Parigi, amico e confidente del principe di Sansevero: l’opera, con il teatro San Carlo, infatti, fu uno dei campi in cui fu protagonista indiscussa. Tra gli altri, lo confermò il medico scozzese John Moore («Napoli è celebre per la sua opera, considerata la migliore d’Europa», 1782), il quale valorizzò, mettendolo nero su bianco, anche un’altra peculiarità fino a quel momento trascurata, stavolta un requisito della costa partenopea: il solo viaggio via mare verso il meridione era di per sé utile per combattere la tisi, però era nulla a confronto con la permanenza sulle coste della «Campagna Felice», come scrisse testualmente. L’aria della città fu ritenuta salubre al punto che molti stranieri giunsero dall’estero per curarsi malattie polmonari. La maggior parte arrivò dall’Inghilterra, dalla Scozia, dalla Germania, dall’Irlanda, dalla Francia e, ovviamente, dalla Spagna: ci fu un passaparola che finì anche nelle pagine di alcune pubblicazioni scientifiche, oltre che nei diari di bordo dei viaggiatori. Poi, venne a curarsi il chirurgo anatomista inglese di origini giamaicane Samuel Sharp; il clinico sostò in Italia all’incirca otto mesi durante l’inverno 1765-1766, dei quali a Napoli ne trascorse soltanto, forse, tre. Sharp tracciò una mappa della salute della città, suggerì ai deboli di polmoni di dimorare a Foria e a largo del Castello, e sconsigliò Santa Lucia – troppo vicina al mare –, alla quale gli sembrava preferibile Chiaia. L’anatomista, con una mano scrisse frasi encomiastiche come questa: «Se un uomo asmatico potesse fare un salto da Londra in questo mio felice alloggio, anche con il rischio di rompersi il collo, farebbe bene a tentarlo» (Lettere da Napoli, 1765); e con l’altra mano, invece, graffiò con unghie aguzze e taglienti come bisturi, in questo modo: «I lazzaroni sono i più squallidi miserabili che si possano immaginare; in nessun altro paese d’Europa se ne vedono di somiglianti. Tra’ facchini, forse, delle vetrerie londinesi si troverebbero due o tre straccioni come questi. E sono a Napoli seimila di questi lazzaroni e non uno di essi dorme mai in un letto: tutti si coricano su’ gradini che son davanti a’ palazzi, o sulle panche delle strade. Ne vedete alcuni – e ciò che è davvero scandaloso – sdraiarsi sotto i muri di palazzo Reale e lì starsene per tutta la giornata a riscaldarsi al sole come tanti maiali: lo spettacolo è dei più disgustosi. Quasi tutti sono presso che nudi: soffrono molto il freddo, e se il clima fosse loro meno propizio, morrebbero tutti certamente».

    Le epistole napoletane di Sharp non si limitarono alla descrizione folcloristica dei lazzari locali, il medico spesso si sperticò in commenti contro la politica del governo e l’illuminatissimo re Carlo iii di Borbone («Ahimè, ve l’ho già detto: qui il Governo non è buono», gennaio 1766), o in osservazioni assai discutibili (se non altro, per le accuse che arrivarono, il secolo dopo, al regime carcerario borbonico) come questa: «Mentre i poveri gemevano sotto il flagello, la peggiore razza di canaglia del mondo, voglio dire i galeotti a bordo delle navi e i prigionieri nelle varie carceri di Napoli, erano serviti sempre della loro solita razione regolamentare e godevano la più florida salute!» (13 dicembre 1765); oppure quest’altra: «Il numero dei malfattori supera qui di molto quello della nostra Londra delinquente, in proporzione della grandezza delle due città: ciò accade io credo, a causa della poca certezza che s’ha qui d’un castigo» (gennaio 1766).

    Vale la pena soffermarsi, anche se di passaggio, su queste parole. La pseudo-cronaca di Sharp sollevò un polverone acido, indignò gli umanisti della penisola, e in particolare il piemontese Giuseppe Baretti si prodigò a pubblicare direttamente in Inghilterra (e in inglese) una risposta aspra e ampia (circa quaranta capitoli), esacerbata dalla moltitudine di sciocchezze dettate dalla superficialità di un turista che non imparò una sola parola di italiano, un gitante che aveva soggiornato nel paese a stento pochi mesi, e aveva sputato sentenze come vere, riempiendo il libro «di racconti ingiuriosi, di pretese assurdità, miste di oltraggiose novelle sopra delitti immaginari […], un ammasso di sconci errori» (G. Baretti, Gli Italiani, o sia relazione degli usi e costumi d’Italia, 1767). Il medico anatomista diventò assai famoso, più come letterato improvvisato che nella sua qualifica originaria di chirurgo al Guy’s Hospital di Londra. Le fandonie del dottor Sharp, costituiscono il primo anello (quello mancante?) dei corposi e sistematici attacchi anglosassoni al Regno, la cui punta di diamante fu quel tremendo atto di accusa bugiardo (e sbugiardato) che partì dalla penna della spia massonica inglese lord William Ewart Gladstone (1850), e incendiò la miccia dell’Annessione. Le calunnie a raffica lanciate dalla sputacchiera del fango dell’oltre Manica furono inverosimili, per lo più false e fuorvianti, a maggior ragione se comparate con le memorie di tanti altri personaggi illustri che visitarono il Sud in quel periodo. Negli stessi anni del medico inglese, per esempio, ben altra impressione ebbe Johann Wolfgang Goethe, appena un ventennio dopo Sharp, il quale scrisse nel suo diario: «Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno!» (27 febbraio 1787).

    Circa centocinquanta anni più tardi, le bordate gratuite di Sharp fecero scendere in campo anche Salvatore Di Giacomo, che curò la prefazione e le note alla ripubblicazione delle sue Lettere dall’Italia (1911). Facendo di tutto per non addebitare espressamente al chirurgo anglosassone la malafede, la prima cosa che il poeta osservò è che la sua cronistoria fu falsata dagli avvenimenti accaduti nel lungo inverno del 1764, cosa che il visitatore non tenne in minimo conto: fu un anno, infatti, funestato dalla carestia e dall’epidemia che fino a luglio «aveva fatto centinaia di migliaia di vittime. La miseria, natural conseguenza di que’ disastri, spandeva, per tutta la città, gente affamata che, talvolta, scambio di chiedere elemosina, assaliva e uccideva perfino» (S. Di Giacomo, Cronaca del teatro San Carlino, 1895). Sembra chiaro, Di Giacomo patì di un senso di colpa, cercò una giustificazione ai rilievi del medico inglese, e mise le mani avanti come per dire: Anche se fosse stato così, bisogna tener conto di…. Qual era, invece, la verità? Indubbiamente, leggendo soltanto le missive denigratorie di Sharp, non si possono non avere informazioni distorte.

    La sentenza scagliata alla fine dell’estate 2015 dal presidente della Commissione parlamentare antimafia, «la camorra è un dato costitutivo di questa società, di questa città, di questa regione» (Ansa, 14 settembre 2015), è della medesima gravità di ciò che affermarono i vari Sharp e Gladstone nei secoli precedenti. La frase non è soltanto infelice e gratuita, ma mendace e pericolosa, definitiva e senza speranze, ancora di più poiché è pervenuta da un organo ufficiale interno al nostro Stato che procede alle indagini con gli stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria. È l’ennesima bollatura a fuoco che fa tornare a galla il «nido di bruchi umani» descritto da John Ruskin nel xviii secolo, che non salva nessuno giacché il dna non si può cambiare: gli si può solamente soccombere. Lo sdegno di risposta non è stato della stessa portata della diffamazione. Proteste, alzate di scudi, timide richieste di scuse e di dimissioni dall’incarico, benché abbiano sollevato un tiepido fortunale, si sono consumate in pochi giorni: in definitiva, è mancato il profondo scatto d’orgoglio che l’ingiuria avrebbe meritato poiché a molti napoletani manca la consapevolezza di sé, che è la conoscenza delle proprie origini, e senza di quelle veramente non ci sono dignità e speranza. L’identità spezzata dalla politica patriottico-risorgimentale ha generato rigurgiti neoborbonici. Come se il casus belli fosse tutto nell’invasione che ha condotto all’Unità, gli unici tentativi che si portano avanti sono di recupero della governance borbonica, ma un tempo passato è tale se è andato via, e non può coniugarsi né al presente né al futuro. L’identità è qualcosa di più, lega la terra alla gente che la vive e gli uomini alla terra. È cognizione che parte dalle radici, quelle profonde e lontane che sopravvivono al gelo, ma che bisogna rintracciare e recuperare, prima di ogni altra cosa, dentro se stessi, e farne un’idea-forza. E, per di più, non ha scadenza temporale.

    Il lungo esempio del caso Sharp, è anche per ricordare che la verità non è mai da una sola parte, è sempre difficile da appurarsi, soprattutto quando si tratta di periodi storici in cui si muovono ingombranti interessi in conflitto; o quando si percorrono sentieri militarmente occupati da letterati di parte che si adoperano per nutrire i propri teoremi; e in maggior misura se la vicenda è particolarmente antica. Nonostante il titolo, questo libro non è soltanto una raccolta di mere curiosità: attingendo a diverse fonti storiografiche, scava nelle memorie più differenti e cerca – ove possibile – di rimettere le idee a posto, o di segnalare input per intraprendere nuovi studi e approfondimenti che potrebbero riaprire pagine importanti delle vicende napoletane. E così, le storie antiche di Virgilio; la ri-scoperta dell’epigrafe a Cominia Plutogenia, sacerdotessa di Demetra, a pochi passi dalla ritrovata Canefora a San Gregorio; l’osservazione di una divinità antica dimenticata da tutti, Ebone, ma non per questo meno importante; le origini controverse della lingua napoletana; i capitoli sul culto di san Gennaro in tutte le sue forme; sui sangui che irrigano la città; sulla follia benedetta del lotto; sui segni ermetici rintracciati a San Domenico Maggiore; sugli enigmi del dio-fiume Sebeto, e su quelli delle mummie aragonesi; sul misterioso assassinio di re Ladislao di Durazzo, ucciso dal sesso dell’amante; sulla Colonna della Vicaria e sull’istituzione della zitabona; sulle novità interpretative delle Macchine anatomiche e sulle notizie di un inedito Raimondo di Sangro guaritore; sugli approfondimenti del periodo aureo del regno borbonico e sulla conquista del Sud; sulla fioritura della camorra, autorizzata dal nascente stato italiano; sulle macabre storie di Efisio Marini detto il Pietrificatore; sull’ultimo taumaturgo, Antonio Cardarelli; sul singolare caso della donna-albero; sui documenti sulla spinosa faccenda della sfida Lombroso-Eusapia Palladino; sugli insulti tratti dalla gastronomia; sulle imbarazzanti circostanze della permanenza del circo di Buffalo Bill a Napoli; sul dietro le quinte di alcune musiche famosissime e di celebri autori napoletani, insieme a tante altre ricerche, formano una miscellanea antologica dalle mille e più sfaccettature che presta attenzione sia ai dettagli perduti sia alle grandi epopee, di cui la storia ufficiale ha fortuitamente o intenzionalmente offuscato le tracce.

    Napoli, città doppia per eccellenza, ha sempre un volto che occulta tra le pieghe delle proprie vicende. E ciò non solo per la sua ibrida natura: la tendenza dominante della storiografia (o meglio, il mainstream storiografico) è quasi sempre lineare, raramente osserva la storia dalla prospettiva dei vinti, spesso non ha spazio per approfondire alcuni intrecci e perciò preferisce accomodarsi sui cliché. I duemilaseicento anni circa delle vicissitudini napoletane non sono da meno, molti eventi del passato di Napoli andrebbero completamente riscritti: la riemersione di episodi o di aneddoti sconosciuti ai più, contribuirebbe a scalciare i luoghi comuni e a mettere in piedi una visione molto differente da quella nota, ribaltandone alcuni risvolti e significati. Forse non tutti sanno che a Napoli… vuole offrire spaccati e interpretazioni inedite, storie sconosciute o alternative; reindirizzare con un deciso colpo di timone la confusione generata dai saccheggi banalizzati in onda sul web; esporre focus meno palesi su argomenti famosi, episodi e avvenimenti tratti dalle cronache dei secoli andati, misteri sepolti tra manoscritti, pietre, guglie e pareti, curiosità ed episodi legati a personaggi sotto le luci della ribalta, e poi del tutto trascurati. Insomma, la storia minima che fece grande Napoli, e Napoli che fece grandi anche le storie minime. Perché la memoria è fatta anche di piccole cose.

    Maurizio Ponticello

    1. …SIRENE, MUSE E SIBILLE ERANO SORELLE

    Quel che prima ti chieggio è che i tuoi carmi

    s’odan per la tua lingua, e non che in foglie

    sian da te scritti, onde ludibrio poi

    sian di rapidi vènti.

    Virgilio, Eneide, vi, 74-77

    Aoriente, il mare e il vento si placarono; il sole di mezzogiorno parve fermarsi e si udì distinto il dolce canto di vaticinio della Sirena provenire da un isolotto irrorato dai flutti; i démoni alati col viso di vergine aggrappavano gli artigli alle ossa pallide e insepolte dei nocchieri che avevano ceduto alla lusinga. Dall’altra parte, a occidente, il fiato del dio tuonava nell’oscurità, soffiava per bocca della Sibilla millenaria posseduta dal furore divino; la voce echeggiò nei penetrali dell’antro, le pareti di pietra viva la rilanciarono specchiandola nei cento anditi laterali e nelle cento porte che conducevano dal labirinto sotterraneo fino all’Ade.

    Una Sirena e una Sibilla, un canto e un carme, la conoscenza e la divinazione: le temute protagoniste dell’antichità rappresentano due mondi che appaiono lontani anni luce tra loro, eppure, a considerarle meglio, possono anche sembrare volti di una stessa medaglia. Hanno qualcosa in comune, quindi? In che modo la Sirena Parthenope che fondò la città di Napoli e la Sibilla Cumana dei Campi Flegrei sono assimilabili o comparabili? Ma, prima di ogni altra cosa, chi è l’una, e chi è l’altra? Entrambe le enigmatiche figure affondano le proprie radici nell’archetipo femminino, e perciò è assai difficile determinare il loro tempo di origine che si perde nella notte del Kàos, nella mitologia, il baratro dell’indifferenziato che ha tutto in sé. Quindi, osserviamole e confrontiamole insieme, a piccoli passi, poiché alcuni aspetti potrebbero, legittimamente, costituire un argomento spinoso. Con un avvertimento: negare ogni possibile appartenenza e paragone tra loro – dal momento che la Sibilla è un personaggio storico, e la Sirena rientra nella sfera del mito –, allontanerebbe di molto dalla verità, giacché anche della Sirena si sono ravvisate ampie tracce che ne storicizzano la presenza – in particolare a Napoli – e, viceversa, nei racconti mitologici non manca la Sibilla.

    La città di Napoli nacque dal corpo e sul corpo di una Sirena che le assegnò il proprio nome, Partenope, la Vergine, detta anche la Nera. Vinta – e metaforicamente deflorata – dalla tenacia di Odisseo che si legò all’albero maestro dell’imbarcazione (ovvero, al proprio centro), spiaggiò su un’isoletta nel cuore del golfo campano a forma di omega, su un piccolo promontorio appena staccato dalla terra che forma un’ideale spina dorsale tra l’arcata della costa di levante verso il Vesuvio e quella di ponente in direzione della collina di Posillipo, Megaride. Mentre nell’insediamento di Partenope si consumava il rito cosmogonico di fondazione con il sacrificio della Sirena eponima, tra il ix e l’viii secolo a.C. calcidesi, eretriensi, eubei e attici colonizzavano l’intera area approdando alle coste di Phitecusa (Ischia) e di Cuma guidati dal volo di una colomba, una messaggera del dio Apollo.

    Le Sirene furono generate dall’incontro tra il nume fluviale Acheloo e una Musa (Melpomene, Mnemosine, Tersicore o Calliope, a seconda della tradizione), e sono dirette discendenti di Apollo, poiché le Muse sono le figlie del dio del Sole. Nei testi dell’età più antica (Omero, Platone, Licofrone), la rappresentazione delle Sirene nel Mediterraneo non lascia adito a dubbi. Apollonio Rodio (Argonautiche, iv, 890-912, iii secolo a.C.), quando raccontò l’incontro con Giasone e i suoi compagni di ventura, gli Argonauti, per esempio, le descrisse così: «Un tempo erano ancelle della potente figlia di Deò, quando ancora era vergine, e cantavano insieme con lei: ma ora apparivano in parte simili a fanciulle nel corpo e in parte ad uccelli». Pseudo-Apollodoro, confutando altri racconti che riportavano due o quattro Sirene, ne fissò il numero a tre e le collegò alla musica, come prima di lui avevano fatto Pitagora e Platone ponendole alla guida dell’armonia del Cosmo: «Di queste l’una suonava la cetra, l’altra cantava e l’altra suonava l’aulos: e con questi mezzi persuadevano i naviganti a fermarsi. Dalle cosce in giù esse avevano aspetto di uccelli» (Biblioteca, Epitome, 18-19, ii-i secolo a.C.). In epoca tarda, il mitografo romano Igino continuò a descriverle come «donne nella parte superiore del corpo e uccelli in quella inferiore; il loro destino era di vivere finché qualche mortale, udendole cantare, fosse riuscito a proseguire il suo cammino» (Miti, 125, ii-iii secolo). Dato che soltanto le forme angeliche possono essere rappresentate alate (R. Guénon), in seguito la nostra memoria fu ingannata dalla contraffazione medievale che operò sottraendo alle Sirene le ali, sostituite con una squamosa coda di pesce: cosa di non poco conto, vista la palese diversità simbolica tra l’aere celeste e gli abissi, tra il volare e il nuotare.

    Queste figure cultuali e mitologiche, fin dalla loro apparizione nel bestiario Liber Monstrorum – di data incerta, presumibilmente non prima del x secolo –, furono definitivamente confinate nelle profondità dei mari e divennero sinonimo di prostitute e l’incarnazione della lussuria sfrenata, ossia, secondo la logica cristiana del tempo, la manifestazione del male tutto femminino che attira gli uomini alla perdizione come pesci nella rete. In realtà, uno dei padri della Chiesa, Clemente Alessandrino (iii secolo), nella sua esortazione ai greci ad abbandonare la via delle false divinità, già le aveva condannate spianando la strada ai detrattori delle Sirene: «C’è un’isola maligna, piena di ossa e di cadaveri ammucchiati; canta in essa una piccola meretrice nel fiore degli anni – la voluttà – dilettandosi di una musica volgare. O degli Achei gran vanto, qua vieni Ulisse famoso, ferma la nave e ascolta un più divino canto. La meretrice ti loda, o navigante, e ti dice celebrato nei canti, e cerca di far sua la gloria degli Elleni. Lascia che essa si pasca dei cadaveri» (Protrettico, xii, 1-8). Più tardi, nelle miniature romaniche e gotiche, si diffusero Sirene con una coda bifida divaricata in un gesto di chiara allusione lasciva e famelica, simbolo della Melusina bicaudata e della doppia natura femminile.

    La visione arcaica di un essere ibrido come la Sirena metà donna e metà uccello non deve indurre, tuttavia, a pensare a un messaggero dei cieli, quanto piuttosto a un emissario degli Inferi: le Sirene sono Geni della morte, e perciò psicopompe, ovvero conducono le anime che si sono lasciate fatare dal loro gorgheggio letale alla regina delle ombre, Ecate, che corrisponde alla romana Proserpina. Non è un caso, quindi, che più di una storia le accomuni pure a Persefone/Kore, la figlia di Demetra che per sei mesi l’anno è la sovrana dell’Ade per aver sposato il suo re. In sostanza, la faccenda è piuttosto complicata anche perché non si può prescindere dall’informazione che le Sirene sono altresì detentrici di una conoscenza sovrumana («[…] sappiamo tutto ciò che accade su Gea nutrice», Odissea, xii, 165-200) e, chi resiste al loro incantamento, guadagna come l’eroe omerico la sapienza in dono, apprende, cioè, il linguaggio sciamanico degli uccelli, che è simbolicamente il mistero più segreto della natura e dell’oltremondo.

    Le Sirene, con il loro essere doppio mortifero e consolatorio, raffigurano l’alterità e, sia per il ruolo attribuitole di ancelle degli universi dell’ombra, sia per la storia riportata da Ovidio (Metamorfosi, v, 553-563) sulla loro affannosa e improduttiva ricerca di Persefone/Kore ghermita da Ade, incarnano la mediazione tra i vivi e l’aldilà. È principalmente per questo motivo che alcune icone apotropaiche di donne-uccello e di caudate e bicaudate donne-pesce sono rintracciabili su molti monumenti funerari, esattamente come il segno fallico di Priapo nella sua complessa e pressoché ignorata versione di custode dei sepolcri (custos sepulcri).

    Per quanto riguarda la Sibilla, una delle origini cui si fa riferire il nome è illirica, e vorrebbe significare la vergine nera. Nulla di più appropriato, anche perché è noto che le caste sacerdotesse di Apollo – destinate a essere il suo afflato oracolare – erano votate alla sacralità del dio del Sole, e che la verginità (da considerare come emblema dell’età prepuberale, uno stato di ibridazione poiché sessualmente immaturo) è una qualifica imprescindibile della mantica. Il termine nera, invece, riporta sia al luogo oscuro in cui le Sibille declamavano le profezie, sia all’ambiguità (sibillino ancora oggi indica qualcosa di oscuro e di indecifrabile) con cui emettevano i responsi. La Cumana o Eritrea (di Eritri, in Eolia), una delle più antiche e famose Sibille dell’antichità, oracolava in forma geroglifica o con la scrittura sulle foglie che, non di rado, erano scompaginate dal vento rendendo la lettura dei vaticini ancora più enigmatica. La tradizione vuole che la Sibilla di Cuma fosse una veggente itinerante e millenaria, che avesse vissuto addirittura all’epoca di Troia di cui presagì la presa e la caduta. Caverne, spelonche, fonti e colline, ma anche fessure da cui provengono miasmi mefitici: i Campi flegrei o Campi ardenti a ovest di Napoli, la piana vulcanica ribollente vapori solfati dalle ferite dei Giganti colpiti dalla folgore (Strabone, Geografia, v, 6), l’enorme distesa che abbraccia la palude Acherusia (lago di Fusaro), Cuma, Miseno, Baia, Bacoli e Pozzuoli, gli intricati percorsi sotterranei attribuiti quale dimora dei Cimmeri, e il lago di Averno, hanno costituito il palcoscenico ideale per la veggente di Apollo, visitata anche da Enea che la prega di accompagnarlo nel regno dei morti poiché lei soltanto ha le chiavi per accedervi (Virgilio, Eneide, iv, 136-144).

    L’antro della Sibilla, oltre a essere uno dei siti oracolari più famosi, fu anche luogo di miracolose guarigioni. Nel Settecento, Domenico Antonio Parrino, nella sua guida – per il funzionale formato in 12°, antesignana dei manuali turistici moderni – riportava ancora che sotto «l’orrenda dimora» (Licofrone, Alexandra, 1278), la cella della sacerdotessa di Apollo, c’era un bagno detto volgarmente Scassabudello, dai letterati Succellario e da Virgilio Sutillario, in cui scorrevano le acque più eccellenti, presumibilmente le stesse che la Cumana usava per le abluzioni rituali prima d’incontrare il dio e divinizzare. L’acqua, sebbene avesse «sapore di brodo di cappone», era famosa per varie proprietà: «allunga i capelli, sana i denti, le labra, le gengive, le lentigini, la scabbia, è rimedio al cuore, al fegato, alla milza, toglie l’ardore della vessica, provoca l’orina, discaccia l’arenella, toglie tutte le febri quartane e quotidiane, conforta lo stomaco, allegerisce tutto il corpo» (D.A. Parrino, Napoli città nobilissima, antica e fedelissima, esposta agli occhi et alla mente de’ curiosi, 1700).

    La Sibilla, maestà della sapienza misterica al femminile, sciamana a metà tra storia e mito, avvolta dai suffumigi effusivi del fuoco sotterraneo e dalle vampe di quello celeste di Apollo con cui si univa nell’estasi, prevedeva miracoli e catastrofi (la Cumana predisse anche l’eruzione di Pompei del 79) e fu così popolare che diventò arduo ammutolirla o demonizzarla. I primi seguaci della nuova religione ci provarono comunque: «Sappiamo che i più zelanti cristiani ne rovinarono gli avanzi, e ne otturarono fino gl’ingressi» (G. Sanchez, La Campania sotterranea, 1833), distrussero i preziosi manoscritti all’interno dell’antro e sfregiarono le pitture e le statue. Ma, alla fine, a differenza della Sirena, la Chiesa non esitò più di tanto a cavalcarla utilizzando predizioni retrodatate e forzose interpretazioni (Lattanzio, De Divinis institutionibus) per annunciare la venuta del Cristo, e ritenne le dodici Sibille come una mutazione pagana dei dodici profeti della Bibbia e dei dodici apostoli. Poi, a Napoli la profetessa di Apollo finì nel presepe tardo quattrocentesco, tra le figure dei primi pastori lignei lavorati dai mastri Giovanni e Pietro Alamanno, e sulla volta della Cappella sistina, nel cuore Vaticano, Michelangelo la associò ai Profeti.

    La Sirena Parthenope, dèa oracolare onnisciente, è in totale sintonia con la custode della soglia degli Inferi, la Sibilla. A oriente del golfo partenopeo chiuso fra la punta di Miseno e la lingua di Punta Campanella, sulla costiera sorrentina, permangono tracce evidenti di un santuario alla Sirena («Athenaion, che alcuni chiamano promontorio delle Sirene», Strabone, Geografia, v, 4,7), e dall’altra parte del golfo, a occidente – tradizionalmente identificato con il mondo dei morti – il mito della Sibilla sovrintende a uno dei luoghi più affascinanti dell’evo antico. Lo strumento di ambedue è il suono, la Sirena alata canta e consegna la sapienza a chi sa ascoltarla senza perire, la Sibilla vaticina e indica un cammino, per quanto fumoso e da interpretare: il predestinato dovrà ascoltare e sopravvivere, l’eroe dovrà trovare la soluzione all’enigma dentro di sé. Sia l’una sia l’altra sono maestre della chiaroveggenza e dell’iniziazione, vergini e oracoli associati alla morte o a un sepolcro, oppure al ventre della Terra da cui nasce la vita. Sirena e Sibilla, infine, con le Muse, come indicò Platone («In alto, su ognuno di quei cerchi, era ben salda una Sirena, coinvolta nella rotazione: emetteva un unico suono su un’unica tonalità. Otto erano i suoni, ma unica l’armonia. Altre donne sedevano, in numero di tre, in circolo e a eguale distanza, ciascuna in trono: le figlie di Ananke, le Moire, vestite di bianco e con corone sul capo, Lachesi, Cloto e Atropo. I loro inni si fondevano nell’armonia delle Sirene», Repubblica, 617 b-c), sono l’armonia dell’Universo tramite il carme: la musica celestiale della voce.

    2. NAPOLI ERA PROTETTA DALLA MAGIA DI VIRGILIO

    Vivevo allora nell’incanto

    di Partenope, coltivando il piacere

    di starmene in disparte,

    io, Virgilio, io, che sul ritmo dei pastori

    ho improvvisato, cantando, con l’ardire

    della giovinezza, Títiro all’ombra accogliente di un faggio.

    Virgilio, Georgiche, iv, 563-566

    L’ aedo dell’imperatore Ottaviano Augusto. Il poeta della restaurazione della Romanità. Il grande compositore dell’ Eneide . La guida tra i mondi di Dante. Incredibile, ma a Napoli Publio Virgilio Marone non fu identificato con nessuno di questi ruoli così altisonanti e così sacri per l’Italia dell’evo antico. E se oggi tutti i partenopei sono consapevoli della sua grandezza letteraria, in passato certamente non fu la stessa cosa. Ignoranza? Certamente non si tratta di questo, invero, con Napoli il Mantovano mantenne costantemente un rapporto differente rispetto alla relazione che ebbe con la stessa Roma: fu quasi privatistico, se non addirittura intimo. E, comunque, sempre di tutt’altra natura, come vedremo.

    Virgilio fu un vagamondi, ma per Neapolis ebbe un debole e visse nella città fino a essere adottato dai suoi abitanti, e lui ricambiò a suo modo, non di meno con le ultime volontà che dettò prima di passare ad altra vita: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope, Mantova lo generò, la Calabria (in età romana era chiamato così il Salento) lo trattenne, tuttavia fu Partenope a ospitare le sue spoglie mortali tornate da Brindisi quel fatidico giorno dell’equinozio d’autunno dell’anno 19 prima di Cristo. All’epoca, va ricordato, l’insediamento di Partenope non esisteva più da tempo dacché era stata fondata la città nuova, Neapolis. Allora, la famosa frase tenet nunc Parthenope potrebbe mai essere veramente soltanto un riferimento geografico? Se ciò non è, che cosa vorrebbe dire? Le ultime parole tramandate da Marone per il proprio epitaffio sono in relazione diretta con la Sirena eponima la quale, dopo essere stata la fondatrice e la prima protettrice dell’insediamento urbano, aveva consegnato a Virgilio il testimone del patronato: quindi, chi detiene il cuore, l’anima e le spoglie del Poeta, è Parthenope, la paladina alata e doppia che si fece trascinare dai flutti fino ad approdare a Megaride dando vita alla città con il sacrificio delle proprie membra morenti.

    Ponendo a setaccio la vastissima letteratura che la riguarda, in sintesi, della Sirena siamo a conoscenza che le furono elevati un tempio e un sepolcro sulla riva del mare «che era il monumento più famoso» (J. Beloch, Campania. Storia e topografia della Napoli antica e dei suoi dintorni, 1890); che è possibile riconoscere l’immagine della vergine Parthenope nella testa di fanciulla priva di elmo impressa su un verso di quasi tutti gli stateri locali (le antiche monete); che le furono dedicati un culto, celebrato annualmente con libagioni e sacrificio di buoi (Licofrone, Alexandra, 712), e degli agoni ginnici, i cui fasti la dèa-uccello li condivise con Demetra in cerca della figlia rapita da Ade, Persefone/Kore. «Prima che Domiziano istituisse i giochi capitolini nell’86, l’agone napoletano fu il più importante d’Italia», evidenziò lo storico tedesco Karl Julius Beloch: si tratta delle corse Lampadiche o Lampadoforie, inaugurate dal comandante e stratega della flotta ateniese Diotimos. Del periodo in cui Virgilio visse a Neapolis, invece, si racconta che il Vate avesse praticato vari miracoli a tutela della città, e che ben presto fu identificato con la Sirena eponima le cui qualifiche transitarono dalla prima protettrice al Poeta di Andes. Non fu certamente casuale che il popolo usasse chiamare Marone con un epiteto che sovrascrive il nome della Sirena, una vera e propria identità onomastica con Parthenope: Parthenias (che in greco vuol dire vergine). Indubbiamente, il nomignolo non gli fu assegnato a causa del suo aspetto effeminato: Gaio Svetonio Tranquillo (113 ca.) prima, ed Elio Donato (iv secolo) poi, tratteggiarono il Poeta di corporatura e di altezza robusta e con i lineamenti rudi. Il biografo ufficiale di Virgilio, il grammatico Donato, suggerì questa spiegazione: «Quanto al resto della vita, fu talmente casto nel parlare e nell’animo, che dal popolo a Napoli fu chiamato il Verginello» (Virgilii vita). L’appellativo familiare e addirittura confidenziale che designava Virgilio, quindi, va sicuramente interpretato in modo diverso da femmineo. Inoltre, si deve rammentare che il Poeta era un iniziato ai Misteri, e che uno dei suoi epiteti fu Vate, e ciò lo qualificava come abile nel conoscere il passato e nello scrutare il futuro: proprio come la Sirena, infatti, nella tradizione partenopea Virgilio svolse una funzione oracolare ed ebbe la capacità di accedere ai segreti dell’Universo, sia per quanto riguarda il piano celeste sia per quello dell’oltretomba. Anche se ormai di rado, tra Napoli e provincia, tutt’oggi si usano chiamare Verginello o Verginella gli adolescenti di entrambi i sessi che prendono la prima comunione, quasi per continuare a indicare – sebbene senza consapevolezza – la loro condizione di vergini casti e di iniziati (R. De Simone, Il segno di Virgilio, 1982).

    Neapolis tenne così in conto il Poeta che gli furono impropriamente attribuiti perfino il ruolo di ministro della città – affiancato al governatore Marco Claudio Marcello, nipote prediletto e compianto di Augusto –, il protettorato di Napoli e quello della provincia del Salento. È certo, piuttosto, che, con la dipartita del Mantovano, cominciò a prendere forma un culto come quello per la Sirena, e pure questa volta si trattò di una devozione tutta napoletana, inizialmente sconosciuta a Roma e agli altri luoghi che ospitarono Virgilio. Il senatore poeta Silio Italico (i secolo d.C.), acquistò sia la villa sia la tomba del maestro Virgilio e stabilì una commemorazione da tenersi ogni anno il giorno di nascita del poeta, alle idi di ottobre, come riferì nello stesso periodo anche Plinio il Giovane all’amico Caninio Rufo in una lettera: «Aveva dappertutto molti libri, molte statue, molti ritratti; e non li possedeva soltanto, ma li venerava, soprattutto quello di Virgilio, il cui giorno dei suoi natali celebrava più solennemente che il proprio, specialmente a Napoli, ove era solito visitare il suo sepolcro come se fosse un tempio» (Epistularum, iii, 7, 8). Pure Papinio Stazio (Le selve, iv, 50-54), poeta e sacerdote di Cerere, e Marziale (Epigrammi, xi, 48 e 50; xi, 50; xii, 67), attestarono più o meno contestualmente in vari versi la deificazione di Virgilio.

    In breve l’etrusco napoletano assunse definitivamente l’incarico ufficiale di nume tutelare della città, di colui che presiedeva al bene dei cittadini, che alzò mura prodigiose e, all’occorrenza, la preservava con la sua magia da mali occulti o palesi che tentavano di insediarla. Fu così che nacque la leggenda di Virgilio il Mago che si propagò al punto che le cronache europee del Medioevo raccontarono ovunque le sue storie meravigliose. E fu così che la sua fama di scrittore a Napoli passò in secondo piano in favore di quella di taumaturgo.

    3. NAPOLi FINÌ TRA LE MIRABILIA DELL’IMPERATORE OTTONE DI BRUNSWICK

    Nessuno deve giudicare favole inventate le cose che descrivo, infatti, se le ho raccolte non è certo per subissare di vane parole le vostre regali orecchie, ma piuttosto affinché, tralasciate le fanfaluche dei mimi che dispensano piccolissime verità, voi possiate apprendere cose meravigliose che gli impostori non conobbero e che sono garantite da precise collocazioni geografiche o dalla testimonianza degli Autori.

    Gervasio di Tilbury, introduzione a Otia imperialia, xii secolo

    Licantropi che divorano fanciulli; draghi che assumono l’aspetto umano, si trasfigurano in un anello d’oro o in una coppa preziosa pur di attirare in trappola delle vergini; a partire dal dì del Solstizio d’estate, e per otto giorni di fila, epiche battaglie tra giganteschi scarabei cornuti che convergono al castello di Remoulins, in Gallia; démoni con sembianze di puledro e occhi scintillanti che con la loro presenza allertano le contrade da incendi imminenti; serpenti enormi e orrendi con due teste a guardia di piante di pepe; pietre che sanano malattie mortali, pustole maligne e ulcere; misteriose veroniche con l’immagine di Dio, folletti coi volti rugosi, uomini con la bocca e gli occhi sul petto, oppure donne con lunghe barbe e zanne di cinghiale. Tutte queste storie incredibili tratte dall’ Otia imperialia , formano l’immenso catalogo dei bestiari fantastici, dei prodigi e dell’immaginario, sembrano costituire una modernissima enciclopedia del fantasy tolkieniano, ma presero piede nell’Europa del xii secolo. Tra i primi protagonisti di quel filone letterario che si fuse con il romanzo cortese, ci fu un chierico dell’ordine dei canonici regolari Premostratensi che lo storico Jacques Le Goff indicò come il primo folclorista europeo. Si tratta di Gervasio di Tilbury e, tra le pagine della sua opera che ebbe un successo grandioso e vantò infinite imitazioni, finirono anche alcune meraviglie napoletane.

    Il canonico ebbe la fortuna di formarsi per diversi anni alla corte più vivace del Vecchio continente, quella di Enrico ii della famiglia reale dei Plantageneti, dello stesso lignaggio, quindi, che si adoperò per rivendicare la discendenza diretta da Uther Pendragon e da suo figlio, il glorioso quanto mitico re celta Artù. Inizialmente, la raccolta dei fatti meravigliosi dell’Otia imperialia era destinata proprio a Enrico il Giovane il quale, però, morì prematuramente (1183). Dopo una breve battuta d’arresto, e alcuni sovrani che si avvicendarono, il chierico Gervasio continuò a redigere la collezione delle mirabilia destinandola infine all’imperatore Ottone iv di Brunswick, nipote di Riccardo Cuor di leone. Con la nomina di maresciallo della corte imperiale di Arles, Ottone gli affidò un incarico onorifico e diplomatico, un lasciapassare autorevole per vagare indisturbato tra le varie corti d’Europa ad attingere notizie strabilianti. Ospite dell’arcidiacono Giovanni Pinnatelli, a Napoli sostò almeno sei anni, dal 1183 al 1189. Fu in quel periodo che il magister Gervasio di Tilbury (amava firmarsi così) raggranellò uno a uno i racconti popolari per descrivere in un favoloso campionario le «cose insolite e meravigliose che potessero destare stupore», come egli stesso spiegò nella prefazione al terzo tomo che compone il Libro delle meraviglie: fenomeni fisici mai veduti, leggende, mostruosità, storie inconcepibili avvalorate da autori rinomati o dalla sua presenza, poiché il magister affermò di averle viste con i propri occhi. Insomma, il manoscritto racchiudeva tutto ciò che costituisce l’essenza dello stupore, ovvero quello che siamo incapaci di spiegare su base razionale.

    Quindi, accanto a cavalli che spiravano fuoco, agli equinocefali, e alle formiche mirmidoni grandi come cani e col corpo simile ad aragoste, Napoli comparve tra i brani antologici destinati sia alla mera conoscenza del sorprendente sia al sollazzo dell’imperatore. A parte le vicende dell’oracolo della Sibilla Cumana (Otia imperialia, iii, 121) e del lago d’Averno su cui, sorvolandolo, qualsiasi essere animato moriva all’istante (iii, 19), l’eroe assoluto di queste cronache partenopee è senz’altro Virgilio, il Mago benefattore che «forgiò con arte mathematica una mosca di bronzo» (iii, 10) animata da un potere così grande che, finché rimase integra, nessun insetto osò entrare in città; occultò un pezzo di carne in una parete del macello

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