La sala nera
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Info su questo ebook
La sala nera, terzo romanzo della coppia Schiavetta&Giorgi vede in azione il medesimo pool di investigatori dei due precedenti episodi, Delitto alla Cappella Sistina (Uniservice, 2011) e Morte al Chiabrera (Fratelli Frilli Editori, 2013).
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Anteprima del libro
La sala nera - Fiorenza Giorgi
Capitolo 1
Nel piccolo appartamento di via Firenze, a Savona, Martina Tagliaferri si muoveva indaffarata entrando e uscendo dalla camera da letto. Era una ragazza di corporatura regolare, dal volto aperto e sorridente incorniciato da lunghi capelli castani; si intravide nello specchio e sorrise alla sua immagine, come faceva ogni volta. Sapeva di essere carina e, d’altronde, per il lavoro che faceva, questo era un innegabile atout nei rapporti con la clientela. L’aspetto grazioso e curato, assieme ad una innata simpatia, era da sempre il suo miglior biglietto da visita.
Fin da quando aveva terminato le scuole superiori, Martina lavorava come commessa presso la storica gioielleria Modigliani, situata accanto alla Torre del Brandale, nel centro storico di Savona. Aveva ottenuto il posto grazie all’interessamento di amici di famiglia, pensando di lavorare solo qualche mese, per potersi permettere un viaggio negli Stati Uniti con le ex compagne di scuola; poi, però, si era ambientata, aveva fatto amicizia con il datore di lavoro e la moglie, si era interessata sempre più alla nuova attività e infine si era resa conto di essere una privilegiata ad avere quel suo posticino tranquillo, mentre i coetanei sudavano sui libri o impazzivano a cercare lavoro. Ormai aveva superato la trentina ed era diventata una presenza abituale nell’elegante punto vendita che i Modigliani si tramandavano di generazione in generazione da quasi centocinquant’anni. Le piaceva stare in mezzo ad oggetti di valore, far risplendere le gemme, assaporare le emozioni della clientela che spesso si recava da loro in occasione di avvenimenti importanti della vita.
Martina guardò l’orologio: erano già passate le otto e, se voleva arrivare in orario, non aveva tempo da perdere. Era sempre il signor Primo che apriva, alle nove precise. Lei non aveva mai voluto la responsabilità di avere in custodia le chiavi del negozio; tuttavia, la sua puntualità era fuori discussione.
Nonostante tutto, si prese il lusso di fermarsi un momento ad osservare il lavoro già fatto. Sul copriletto a disegni geometrici aveva disposto in bell’ordine un kilt artigianale di sottile tessuto di lana, realizzato con il disegno tipico di un clan scozzese, ricordo di un viaggio a Edimburgo. Accanto, un maglioncino di cotone rosso scuro a maniche lunghe e una camicetta bianca con il colletto di pizzo di Sangallo.
Bene, non rimangono che i collant... coprenti, però, e i guanti
pensò, frugando nel primo cassetto del comò. Trovò quanto cercava e, dopo aver sistemato gli indumenti accanto alla gonna, si diresse verso lo sgabuzzino in fondo al corridoio, dove teneva tutti quegli oggetti che servivano solo di tanto in tanto.
Ben protetta dalla polvere, chiusa in una scatola di cartone sistemata sul ripiano più alto, aveva riposto la bellissima parrucca di capelli veri, biondi. La rinvenne a colpo sicuro: come ripeteva sempre, nel suo disordine trovava sempre tutto. Questa volta, però, era stato facile: l’aveva messa via non più di un mese prima. Sbirciò nella scatola, alzando appena il coperchio: sembrava in perfetto stato. Finalmente era arrivato il momento di utilizzarla! Un brivido di eccitazione la percorse mentre scendeva i due gradini della scaletta di alluminio e per un istante temette di inciampare, farsi male, rovinare tutto... ma no, era già arrivata con i piedi a terra, cos’erano queste paure, queste assurde idee che l’assalivano senza motivo?
Non c’era niente di cui preoccuparsi, si disse: era tutto sotto controllo. Bastava fare attenzione, attenersi a quanto stabilito, impedire ai pensieri di prendere direzioni strane e incontrollate.
Martina richiuse la scaletta e la sistemò contro il muro.
Certo, rifletteva chiudendo la porta, il suo lavoro era buono ma... fino ad un certo punto. In realtà, tutto era andato per il meglio fino a quando aveva conosciuto il suo fidanzato e pian piano, accanto a lui, si era resa conto di aver sempre condotto una vita da formica, chiusa nelle abitudini casa-lavoro, senza voli di fantasia, senza aspirazioni. Lui aveva visto un bel po’ di mondo, aveva viaggiato, conosciuto paesi stranieri e gente di ogni tipo, e sapeva che si poteva vivere diversamente da come facevano loro. Le parlava di auto sportive, abiti firmati, stili di vita esclusivi in località alla moda. Erano argomenti che non l’avevano mai sfiorata, ma lui ci tornava in continuazione, la stordiva evocando cene a lume di candela in ristoranti a picco sul mare...
Erano solo parole, purtroppo. Il suo ragazzo non era certo un riccone e per giunta, secondo quanto le aveva raccontato, una serie ininterrotta di colpi di sfortuna aveva ridotto la sua famiglia quasi in miseria, costringendolo ad emigrare in Italia dall’Albania. Ma, a forza di stargli vicino, Martina aveva iniziato a immaginare intere giornate a rilassarsi a bordo piscina, con null’altro da fare che abbronzarsi e pensare al vestito da indossare, poi le serate in qualche posto elegante... piano piano si era sentita catturata da una sorta di frenesia e, osservando con un certo disgusto la vita che fino ad allora le era sembrata gratificante, si era ritrovata ad accarezzare l’idea di trasformarsi in una donna ricca, al punto da non dover lavorare per vivere.
A volte i sogni si realizzano!
, disse a se stessa, tornando in camera con la scatola e tentando di dominare le proprie emozioni, basta agire in modo intelligente senza farsi bloccare da inutili paure
.
Con attenzione tirò fuori la parrucca, scrollandola a lungo per verificare la tenuta dell’acconciatura. Era fatta molto bene e non aveva bisogno di cure particolari: per poterla indossare era sufficiente un colpo veloce di spazzola e phon. La giovane si dedicò a questa operazione con tutta la concentrazione possibile e, pochi minuti dopo, anche il setoso involto di riccioli biondo grano era appoggiato sul letto, accanto ai vestiti.
Mancava solo una borsetta. Frugando nei ripiani dell’armadio, ne scelse una di cuoio naturale, in stile un po’ vintage, che secondo il suo gusto si intonava all’insieme e aveva il pregio di essere molto comoda. Controllò la chiusura e si accertò che non creasse problemi: era tutto a posto.
La donna ripassò mentalmente la lista di quanto doveva preparare: non mancava niente. Respirò a fondo, poi tornò a guardarsi nello specchio del comò. Sul volto già truccato vide i segni inequivocabili dell’ansia. Si passò le mani sulle guance, sistemò gli orecchini nella giusta posizione, quasi senza trovare il coraggio di staccarsi dalla propria immagine riflessa per ricadere nella realtà quotidiana. Se solo quella giornata fosse già finita! Ma era inutile pensarci.
Non le restava che andare al lavoro. Svelta indossò il cappottino blu di tutti i giorni, afferrò al volo il casco della moto e bussò alla porta del bagno. Idris, il suo ragazzo, la sera prima si era fermato a dormire da lei e ora si stava facendo una doccia.
– Eccomi, arrivo, – rispose l’uomo da dentro, aprendo la porta.
Le sembrava bello da impazzire, ancora umido, con i capelli corti tutti arruffati, avvolto alla bell’e meglio in un asciugamano giallo canarino.
– Io vado, – disse lei.
– D’accordo. Allora, ci vediamo più tardi... – fece lui, ammiccando.
La ragazza sentì nuovamente una fitta di ansia e la nascose con una smorfia.
– Sì, certo, – gli rispose.
Lui la baciò su una guancia, per non macchiarsi di rossetto, poi le prese il mento con due dita.
– Va tutto bene, piccola…
– Sì... – annuì lei, ma non riuscì più a parlare. L’agitazione le serrava la gola per cui decise di non indugiare oltre.
Mentre Idris finiva di asciugarsi, Martina guadagnò l’uscita e con passo svelto scese in strada. Raggiunse lo scooter, parcheggiato un po’ di traverso vicino al convento di clausura, lo mise in moto e si immise nel traffico della mattina con la scioltezza derivante dalla lunga abitudine. Scese verso il quartiere di Villapiana, poi, percorrendo via Torino e via Piave si diresse verso il centro città. Imboccò la rotonda di piazza Saffi, abbellita da un piccolo palmeto, e condusse il veicolo giù per via Boselli, proseguendo in via Montenotte, fin quasi al mare. Svoltò in corso Mazzini e raggiunse il centro medioevale di Savona, parcheggiando in via Orefici, a poche decine di metri dal negozio.
Erano le nove e già Primo Modigliani l’attendeva davanti all’entrata della gioielleria. Era solo: normalmente la moglie li raggiungeva in negozio soltanto nel pomeriggio.
– Buongiorno! – lo salutò lei con aria allegra. – Eccomi qua.
– Puntuale come sempre, la nostra Martina, – rispose lui sorridendo a sua volta
Dopo tanti anni, l’uomo aveva per lei un affetto quasi paterno. I suoi figli erano tutti maschi e, pur stravedendo per loro, l’anziano gioielliere non aveva mai nascosto il suo desiderio di avere una bambina. La figlia sognata non era mai arrivata e le nuore non erano troppo affettuose per cui Martina, pian piano, aveva occupato quel posto lasciato vuoto, facendosi amare grazie alla sua presenza gentile e al suo lavoro attento.
Uniti da una sincronia data dall’abitudine, i due aprirono i complicati lucchetti del cancelletto in ferro battuto posto a chiusura del disimpegno davanti all’entrata, ben sapendo che erano una difesa poco più che simbolica contro eventuali tentativi di furto. In realtà l’oreficeria era ben protetta da un sofisticato impianto di allarme e da una accurata blindatura di tutti i possibili accessi, ma Modigliani non aveva mai voluto rinunciare alle grosse catene d’epoca, ereditate dal nonno, e ai pesanti lucchetti in ferro battuto che costituivano una sorta di decorazione molto rassicurante agli occhi della clientela.
Nella gioielleria iniziava una nuova giornata di lavoro.
Capitolo 2
Quel giorno il Sostituto Procuratore Ludovica Sperinelli era impegnata a Genova, come membro della commissione per l’esame di Stato degli avvocati. Non era troppo entusiasta di questo incarico, tant’è che aveva cercato di accampare ogni scusa possibile per sottrarvisi, ma senza successo. Di conseguenza, per un giorno alla settimana avrebbe dovuto ascoltare le risposte degli aspiranti avvocati, molti dei quali, alle domande più semplici, sciorinavano una serie di sciocchezze da far rabbrividire.
Alle otto del mattino la donna era già in stazione. Parcheggiò vicino all’ingresso grazie ad un colpo di fortuna, recuperò al volo la borsa dal sedile del passeggero e, dopo una velocissima occhiata nello specchietto retrovisore per controllare il trucco, si diresse verso i binari. Mancavano ancora cinque minuti alla partenza e si stava chiedendo se non ci fosse il tempo per un caffè quando, con sua grande sorpresa, notò nell’atrio una persona ben conosciuta.
– Maresciallo, che ci fa anche lei alla stazione? Viene con me a Genova?
Si trattava del suo fedelissimo collaboratore, il maresciallo dei Carabinieri Francesco Mancini il quale, piacevolmente sorpreso dall’incontro, era rimasto quasi senza parole.
– No, dottoressa! Sono venuto a prendere mia suocera che arriva dall’Abruzzo, – farfugliò lui, – sa, deve sottoporsi ad un intervento...
L’uomo si sentiva in imbarazzo, anche perché a pochi metri di distanza era seduta sua moglie Anna la quale, avendo visto la Sperinelli, aveva già disegnata sul volto un’espressione mista di disappunto e gelosia.
In quel momento annunciarono l’arrivo dell’Intercity per Genova e Ludovica comprese che doveva affrettarsi.
– La saluto, maresciallo. Penso che sarò in ufficio nel tardo pomeriggio.
– Allora ci sarò anch’io, dottoressa, – sorrise Mancini. – Buona giornata! – concluse, mentre lei già si allontanava.
Anna a quel punto si avvicinò al marito. Aveva evitato di farsi notare dal magistrato, perché vicino a lei si sentiva sempre un po’ a disagio, ma ora riprese possesso del consorte.
– Sei più contento adesso che l’hai vista? – gli chiese, sorridendo acida.
– Ma che dici, Anna?
– Hai capito benissimo!
Per fortuna in quel momento gli altoparlanti annunciarono l’arrivo del treno su cui viaggiava la madre della signora Mancini e i due si avviarono verso il binario indicato.
Nonna Cosima era partita la sera prima dal paesino in cui viveva, nelle vicinanze di Roseto degli Abruzzi; si era fatta accompagnare in auto alla stazione di Pescara, dopodiché aveva viaggiato tutta la notte in cuccetta. Tornava a Savona di tanto in tanto, solitamente accompagnata da Lucia, la figlia nubile, o da qualche altro parente, ma questa volta aveva dovuto viaggiare tutta sola perché nessuno, per un motivo o per l’altro, aveva potuto prendere qualche giorno di ferie. D’altronde, il viaggio non si poteva rimandare: Cosima doveva sostenere un intervento di cataratta, prenotato da mesi presso l’ospedale di Savona. Di tutte le case di cura italiane, l’anziana signora aveva scelto proprio quella perché raccomandatale da una donnetta incontrata in chiesa, che si era sottoposta allo stesso intervento e le aveva detto di essersi trovata molto bene. I parenti avevano tentato inutilmente di convincerla a rivolgersi ad una struttura sanitaria abruzzese ma lei era stata irremovibile. Era una dittatrice, abituata ad essere obbedita all’istante da tutti, anche dal genero Francesco, che, però, non l’avrebbe mai ammesso neppure a se stesso.
– Chissà com’è andato il viaggio di tua madre, – osservò lui, tanto per dire qualcosa, mentre aspettavano sul binario. – Alla sua età fare tanti chilometri in treno da sola...
– Ma no, poco fa l’ho sentita al telefono, è andato tutto bene. Sai che tipo è lei, ha fatto conoscenza con le altre dello scompartimento...
– Tutte donne? – chiese lui, curioso.
– Ma sì, non lo sai? Oggi è possibile prenotare la cuccetta in uno scompartimento esclusivamente femminile, così le donne che viaggiano sole stanno più tranquille, con tutto quello che si sente... comunque è arrivata sana e salva a Genova, ha preso la coincidenza.
Mancini sogghignò involontariamente, pensando alle fattezze della suocera e alla sua davvero scarsa avvenenza.
– Dai, Anna, ci vorrebbe un tipo veramente disperato per saltare addosso a tua madre! – fece ammiccando.
Come faceva una volta su due quando si parlava della sua adorata mamma, la moglie evitò di replicare, per non innescare l’ennesima discussione.
Di lì a poco il treno arrivò e Nonna Cosima scese dalla scaletta, appena un po’ arruffata, ma come sempre tutta arzilla. Uno sconosciuto, dietro di lei, paonazzo per lo sforzo, portava la valigia della donna.
– Grazie, Ninetto, passala pure a mio genero, – gli disse da sotto lei, dopo avere abbracciato la figlia.
Francesco prese il bagaglio e si avviò accanto alle donne verso l’uscita, mentre Ninetto salutava sua suocera con un sorriso e l’aria soddisfatta di chi ha ricevuto un grande favore.
– Chi è quello? – domandò, incuriosito da tanta confidenza.
– Oh, uno qualunque, che passava di là, – tagliò corto l’anziana, che riteneva un diritto di nascita disporre del prossimo come se tutti fossero al mondo per servirla.
Salirono sull’utilitaria parcheggiata sotto la stazione e, nel giro di pochi minuti, arrivarono a casa Mancini, nel quartiere di Legino, dove il maresciallo viveva con la famiglia. Era un appartamento luminoso, lindo e profumato grazie all’incessante lavoro della moglie, la quale da sempre dedicava il suo tempo alle faccende che sono il vanto e la croce della casalinga saggia e oculata. Forse la loro abitazione non era lussuosa, e neppure troppo grande a dire il vero, ma Anna sapeva che la differenza era data dalla padrona di casa: se questa vale, ogni luogo può essere una reggia per chi lo abita.
In occasione dell’arrivo di sua madre pavimenti, finestre e arredi brillavano come specchi e sul tavolo del tinello era già stata apparecchiata una sontuosa colazione, con tazze e piatti di porcellana, cucchiaini d’argento e una valanga di dolcetti fatti in casa. In onore dell’ospite, Anna aveva addirittura dispensato da un giorno di scuola i due figli, Antonio e Giuseppe, che, increduli di tanto lusso, aspettavano il ritorno degli adulti annusando appena il profumo della marmellata, senza osare assaggiare nulla.
– Annina bella, vuoi farmi ingrassare? – civettò Nonna Cosima, che era magra come un chiodo.
– Ma mamma, dopo un viaggio così...
– Non ti voglio mortificare, assaggio qualcosa, – concesse l’altra, guardando golosa la piccola piramide di delizie a centro tavola e servendosi in abbondanza, –