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Eroi di guerre invisibili
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E-book302 pagine4 ore

Eroi di guerre invisibili

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Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (240 pagine) - Gli umani hanno portato la guerra nello spazio, la pace è stata faticosamente raggiunta, ma le astronavi hanno ancora le armi di bordo. E sono pronte a usarle.


Il capitano Hattaway è pronta per il nuovo comando. In una galassia in cui nulla è come sembra, gli intrighi politici guideranno Hattaway verso una verità difficile da accettare: tutta la sua vita, la storia stessa della missione terrestre, è basata su una bugia.


Alsaziano di nascita, classe 1961, Claude Francis Dozière ha studiato lingue e letterature straniere presso l’Université de Strasbourg (Francia). Da sempre appassionato di fantascienza, un giorno ha deciso di mettere su carta le storie, i pianeti e i personaggi che immaginava con la fantasia. Si considera un “conteur d’histoire” perché intende la scrittura un mezzo più che un fine.

LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2021
ISBN9788825416213
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    Anteprima del libro

    Eroi di guerre invisibili - Claude Francis Dozière

    fine.

    Prefazione

    Maico Morellini

    La narrativa fantastica è un contenitore incredibilmente vasto. Un contenitore che permette di declinare il presente nei modi più vari, che permette di interpretare il passato usando strumenti ottico/speculativi su misura e che permette di investigare il futuro utilizzando tutte le armi che l’immaginazione, più o meno libera, può offrire.

    E, insieme a tutte queste cose, la narrativa fantastica può anche intrattenere. Chi scrive questa prefazione è un profondo e convinto sostenitore della narrativa di intrattenimento. Chi scrive è convinto che non ci sia nessun peccato nel voler intrattenere e che anzi sia più che giusto farlo quando le intenzioni sono sincere e lo spettacolo che si offre onesto sia negli intenti che nello svolgimento. Quando, soprattutto, non ci si nasconde dietro strane o arzigogolate retoriche e quando non si cerca di camuffare le proprie intenzioni prendendo scorciatoie che non portano da nessuna parte.

    ‘Eroi di guerre invisibili’, romanzo d’esordio di Claude Francis Dozière, raccoglie al suo interno questa sincerità, questa onestà e questa voglia di intrattenere.

    Lo fa rivolgendosi – anzi no – omaggiando senza MAI scivolare nel plagio, nella copia o in una furbesca strizzata d’occhio una serie di riferimenti culturali che un certo tipo di appassionato di fantascienza non può non riconoscere e apprezzare. Sono stili, più che concetti. Sono richiami e suggestioni che però non hanno l’intenzione di prendere scorciatoie narrative.

    L’universo di ‘Eroi di guerre invisibili’ perciò omaggia brillanti visioni futuristiche di Gene. Lo fa nelle cartografie principali, lo fa quando incastra la Terra al centro di uno scenario politico complesso, lo fa quando raccoglie alcune caratteristiche riconoscibili e le declina però a suo uso e consumo. Lo fa nelle suggestioni superficiali, in quell’involucro sottile che è la pellicola intorno alla storia, in quella patina che non è mai sostanza ma solo un accenno di forma.

    Ma l’omaggio, perché, lo ripeto, di omaggio si tratta, finisce qui. Claude fa sue le caratteristiche di una galassia personale, della stazione 85 e degli intrecci realpolitikesi che si attorcigliano attorno al concetto di potere, di pace, di guerra e di invisibilità. Fa suoi i drammi e le difficoltà.

    Tratteggia le coordinate di un romanzo corale, perché ‘Eroi di guerre invisibili’ è un romanzo corale, e attribuisce un carattere, uno scopo e un cambiamento a ciascuno dei personaggi che decide di schierare sullo scacchiere geopolitico di una galassia sull’orlo della guerra.

    Se è vero che a prima vista il lettore si troverà tentato nell’incasellare all’interno di nicchie note il vasto esercito di interpreti che l’autore mette a disposizione (il capitano coraggioso, il consigliere infido, il comandante cinico), è anche vero che ciascuno di questi personaggi cercherà e troverà la sua strada nel percorrere una corsa contro il tempo (e verso la catastrofe) la cui posta in gioco è la salvezza della galassia.

    Questo scivolamento, questo scorrere di ambizioni, di paure, di sofferenze, di vittorie e di sconfitte, porterà gli uomini e le donne di Claude a specchiarsi gli uni nelle altre. A comprendere le sfumature di quella grande gradazione di grigio che è la politica, che è la guerra, che è la libertà, che è la vita, che sono il passato e il futuro.

    Il lettore è chiamato a una corsa serrata, è invitato a seguire le gesta del capitano Jane Hattaway e del suo equipaggio, di consiglieri e militari, di spie e di governatori. Una corsa veloce, che lascia poco tempo a chi la intraprende e che proprio per questo obbliga alla creazione di legami forti e alla dissoluzione di alleanze che sembravano altrettanto solide.

    Gli ‘Eroi invisibili’ di Claude Francis Dozière sono capaci di intrattenere nel rispetto di quello che è il codice genetico di una sana e sincera opera spaziale.

    Buona lettura a tutti.

    In memoria di Paul

    L'istinto dell'uomo è sempre stato di andare oltre, di conoscere nuovi pianeti e nuove civiltà. Questo libro è un omaggio a quelle donne e quegli uomini che, malgrado le avversità, non hanno mai perso la speranza e sono sempre pronti a lottare per un futuro migliore.

    Tutte le civiltà devono esplorare lo spazio o si estinguono.

    Carl Sagan

    Capitolo primo

    L’esercitazione

    Nominata ufficiale diplomatico, Jane Hattaway partì col suo equipaggio il 7 novembre 2189 per la sua prima missione come capitano, senza nessuno in grado sopra di lei.

    Quella data, il 7 novembre, per lei che aveva passato otto anni nello spazio era solo un numero che le ricordava il sapore dell’autunno, ma che, in fondo, non aveva alcun significato. Le stagioni e il calendario erano stati mantenuti per convenzione, ma per loro, mentre si addestravano a diventare soldati dell’esercito terrestre, le SAF (Space Armed Forces), erano solo un modo per ricordarsi di essere umani.

    Il capitano Hattaway sfiorava le trenta. Lineamenti composti, uno sguardo freddo ma malinconico. A venti anni aveva iniziato l’addestramento da ufficiale diplomatico, sapendo che sarebbe stato un percorso lungo e complicato. Ma era quello che voleva fare, o meglio, quello che doveva fare.

    Quella mattina era molto agitata. Si preparò con calma, ma non riusciva a mantenere il suo solito atteggiamento distaccato. Si trovava alla Spacestation 85, nella sua stazione e nella sua camera, che in realtà era identica a quella di tutti gli altri cadetti. Quelle stanze le avevano sempre ricordato le sale d’ospedale e per definirle le veniva in mente un solo aggettivo: asettiche.

    A interrompere la monotonia del grigio delle pareti e della superficie metallica dei mobili vi erano delle piccole incisioni lasciate a un angolo della stanza, quasi nascoste. Era tradizione per un cadetto incidere le proprie iniziali nel suo alloggio, per lasciare una traccia di sé. Sul muro della stanza ve ne erano già parecchie.

    Prima di uscire, Hattaway prese un coltello e seguì l’esempio dei suoi predecessori. Incise sulla parete le due lettere e poi si allontanò per osservare il suo operato.

    JH. Jane Hattaway.

    Ora poteva davvero andare.

    La 85, come la chiamavano tutti, era stata il principale punto di riferimento dell’esercito terrestre dalla fine della Guerra d’Indipendenza Spaziale. Alla stazione spaziale 85 si addestravano i vari reparti delle SAF e gli ufficiali diplomatici. Era considerato un luogo di transito e un ponte tra le razze e lì venivano prese tutte le decisioni più importanti. La stazione era mastodontica: a pianta rettangolare, si presentava come un enorme parallelepipedo la cui superficie era quasi integralmente ricoperta da pannelli solari.

    Dall’esterno, quindi, appariva come un enorme specchio riflettente del quale era impossibile carpire i segreti. Ed effettivamente ciò che avveniva all’interno della stazione spaziale era sconosciuto ai più: incontri tra ambasciatori, alleanze militari segrete e così via. I destini di un’intera galassia si decidevano in quei corridoi bianchi e immacolati, dove adesso camminava il capitano Hattaway, diretta verso il suo equipaggio. Salutava con reverenza i superiori e sorrideva ai sottoposti. Era facile perdersi in quel groviglio di corridoi tutti uguali, che ad Hattaway ricordavano un labirinto dove si era persa da piccola. Ma ormai, dopo tutti quegli anni, Hattaway non si confondeva più. Raggiunse rapidamente l’hangar dove l'aspettava la Eirene.

    Le sale alte e imponenti degli hangar facevano sempre una certa impressione. Occupavano integralmente la parte inferiore della 85. File di astronavi militari e diplomatiche si susseguivano a perdita d’occhio. Negli hangar si poteva davvero percepire la potenza delle SAF. Le navi militari si differenziavano per forma e per armamenti. La Eirene, la nave assegnatale per la missione, come tutte le astronavi diplomatiche delle SAF aveva un aspetto squadrato e solido. Ai lati del ponte, di forma vagamente cubica, due ali corte e aerodinamiche progettate per migliorare la manovrabilità una volta entrati nell’atmosfera.

    Sotto alla Eirene, l’equipaggio attendeva il suo capitano. Alcuni di loro Hattaway li aveva visti di passaggio alla 85, altri non li aveva mai incontrati. C’era un ragazzotto indiano dal viso buono, che si presentò come Raj Kumar: era l’ufficiale di navigazione. Poi c’era Lisa Chen, giovane e spavalda, dallo sguardo fiero, l’ufficiale alla sicurezza. Al suo fianco Mark Bellini, il tenente ingegnere, il più anziano del gruppo, dalla barba ispida e dal carattere rude. Quando lo vide, lo sguardo di Hattaway si posò sulla sua gamba destra, che era stata sostituita da una protesi bionica. Hattaway non conosceva la sua storia, ma supponeva che si trattasse di una ferita di guerra.

    Infine, c’era Mazin Achebe. Lo si notava da lontano per la sua stazza e per lo sguardo che ti si piantava addosso e non si staccava più. Achebe intimidiva leggermente Hattaway, ma era il suo vice e le gerarchie andavano rispettate. Non si sarebbe fatta mettere sotto da quel gigante scuro, che non accennava nemmeno a un sorriso di tanto in tanto ma che la squadrava, silenzioso, giudicandola a distanza.

    Hattaway si fece forza. Strinse le mani a tutti, cercando di rimanere tranquilla. D’altronde, quella era la sua squadra.

    Salirono a bordo della Eirene e Hattaway riuscì a mascherare un piccolo sussulto. La poltrona del capitano era lì ad aspettarla e nessun altro al di fuori di lei ci si sarebbe potuto sedere. Il ponte era ampio, con luci a led blu e rosse a filo lungo le pareti. Tutti occuparono le loro postazioni, come una macchina ben oliata. Hattaway per un istante pensò che non ci fosse quasi bisogno di un capitano e che la Eirene avrebbe benissimo potuto funzionare senza di lei.

    Bellini faceva su e giù per il ponte, controllando sistematicamente che ogni cosa fosse al suo posto, in funzione, senza problemi. Kumar e Chen, seduti in basso, vicino al grande finestrone che dava sull’esterno, iniziarono le manovre per la partenza. Kumar, tra tutti, sembrava particolarmente concentrato e controllava ogni operazione almeno due volte prima di passare alla successiva.

    – Prima volta? – gli chiese Chen, e Kumar arrossì.

    – Ho sempre fatto da assistente.

    – Te la caverai benissimo. – Chen gli sorrise e si mise al lavoro. Anche Kumar lo fece, ma Hattaway si accorse che ogni tanto guardava la sua collega di soppiatto, senza farsi notare. In effetti la ragazza era carina.

    Achebe si piazzò al fianco della poltrona del capitano, in silenzio. Hattaway ci mise ancora qualche secondo, ma alla fine ci si sedette. Per un attimo non si sentì a suo agio, anzi. La poltrona sembrava scomoda. Poi si aggiustò, si guardò intorno e si rese conto che da quella posizione poteva controllare tutto.

    Lo sguardo di Achebe era su di lei, come se aspettasse qualcosa. Hattaway diede a Kumar le coordinate del viaggio: Zona 24, settore 45Z, Omega 2.

    La missione che Hattaway doveva svolgere era in realtà un’esercitazione, un battesimo del fuoco per la sua prima operazione in qualità di capitano. Doveva portare la Eirene in una zona pericolosa e lì eseguire test operativi sui nuovi scudi in dotazione alle astronavi terrestri. Era la destinazione a non piacere al capitano: il rischio era di incappare in trappole Hurack e scatenare un incidente diplomatico. Bisognava andarci cauti, quando c'erano di mezzo gli Hurack: non tutti avevano accettato di buon grado la sconfitta dell'impero. Per questo, anche ora che la guerra era un ricordo, incontrarli così lontano da casa poteva rappresentare un problema.

    – Sissignore – rispose Kumar annuendo, mentre Bellini controllava la propulsione. La Eirene, per la prima volta comandata da Jane Hattaway, lasciò la stazione 85, inoltrandosi nello spazio scuro e senza fine.

    Kumar attivò la velocità quasar. I contorni dello spazio si deformarono e Hattaway strinse il bracciolo. Le era capitato di effettuare viaggi di quel tipo, ma non così spesso, ed era sempre una sensazione particolare.

    Hattaway era tesa, ma l’ambiente generale sull’astronave la tranquillizzava. I suoi uomini (quanto era strano pensare che quelli erano, a tutti gli effetti, i suoi uomini) lavoravano con precisione.

    Il capitano sentì, per un attimo, che stava lasciando casa. La 85 era stata il suo rifugio per tanti anni, il suo luogo sicuro. Sapeva che alla fine della missione vi sarebbe tornata, ma nulla sarebbe stato come prima. Non era più una cadetta, era un capitano delle SAF.

    La velocità quasar, che proiettava la nave in un vortice grigio, non era affatto rassicurante. L’astronave era in penombra e sembrava cadere in un burrone che non finiva mai. Le ricordava un incubo ricorrente che faceva da bambina e che ogni tanto, come un parente lontano, tornava a tormentarla. Sognava di precipitare da una montagna. Nel sogno non c’era mai un inizio, era già in caduta. E poi si svegliava nel momento in cui si schiantava a terra.

    Mentre riviveva l’incubo nella sua testa, notò che i membri dell’equipaggio, di tanto in tanto, guardavano verso di lei. Si rese conto di non essere mai stata guardata in quel modo, con quella punta di reverenza negli occhi.

    Arrivarono a destinazione in breve tempo. La zona 24 era pericolosa per ragioni politiche ma anche geografiche. Era vicina al confine con l’impero Skatum, il nemico storico degli Hurack. Gli Skatum, il cui aspetto da grossi felini aveva sempre suscitato in Hattaway sensazioni contrastanti, non avevano mai avuto un conflitto con le SAF e, anzi, erano stati ben contenti di vedere l’impero Hurack sconfitto dalle forze armate terrestri.

    Passare per la zona 24 senza una ragione valida non era mai una buona idea. La situazione però in questo caso lo richiedeva: alcune aree della zona 24 erano le uniche nella galassia ad avere un particolare ecosistema di tempeste elettriche, perfette per testare la resistenza dei nuovi scudi.

    Quando uscirono dalla velocità quasar e tornarono a quella normale, lo spettacolo che si parò davanti all'Eirene era tanto incredibile quanto inquietante. Tempeste viola si stagliavano in lontananza, scaricando fulmini improvvisi e totalmente silenziosi.

    Hattaway guardò lo spettacolo e si sentì piccola e fragile. Anche la Eirene, con tutti i suoi armamenti, nulla poteva contro quella forza della natura. I rimbombi viola si propagavano nello spazio come esplosioni nucleari e ogni fulmine sembrava un po' più vicino alla Eirene.

    Kumar si voltò verso di lei e annunciò l’arrivo a destinazione. Poi, credendo che Jane e gli altri fossero troppo presi dalla tempesta per badare a loro, si chinò verso Chen e a voce più bassa le chiese: – Pensi che sarà pericoloso?

    Chen gli rivolse un sorriso smaliziato e gli rispose: – Per gli squamosi o per le tempeste elettriche? – Squamosi era il soprannome che si erano guadagnati gli Hurack durante la guerra. Tutti i soldati delle SAF lo utilizzavano. Si riferiva alla loro pelle di rettili umanoidi, ma anche a una loro particolare caratteristica, quella di poggiarsi su tutti e quattro gli arti quando assumevano la posizione d’attacco. Li faceva assomigliare a delle grosse lucertole.

    Chen diede un buffetto a Kumar, il tipo di buffetto destinato ai fratelli minori. Nascondendo un sorriso, Hattaway capì che ci era rimasto male, ma almeno si era tranquillizzato: Chen era pur sempre l’ufficiale della sicurezza, e Kumar doveva essersi detto che ne sapeva un po’ di più rispetto a lui.

    Sul ponte ci fu silenzio. Hattaway si rese conto che stavano aspettando gli ordini del capitano.

    – Tenente Kumar, avviciniamoci alle tempeste e procediamo con l’esercitazione.

    Bellini e Chen si confrontarono per qualche secondo sull’attivazione dei nuovi scudi, poi la nave si mosse di nuovo. Hattaway decise che era il momento di scambiare due parole con Achebe e si voltò verso il suo secondo, che se ne stava lì immobile dall’inizio del viaggio.

    – Primo ufficiale Achebe – esordì, prima ancora di sapere come finire la frase. – So che lei prima era un ufficiale dell’esercito. Cosa le ha fatto cambiare idea?

    Hattaway si era informata sul suo secondo. Aveva passato quasi dieci anni sul campo, in battaglia, e pochi mesi prima si era fatto spostare nella diplomazia, appendendo il fucile al chiodo.

    Achebe non si scompose per la domanda. – Avevo bisogno di un po’ di riposo, capitano.

    – Pensa che le missioni diplomatiche siano una vacanza?

    – No, capitano

    Probabilmente lo pensava, ma il primo ufficiale non aggiunse altro, perché Chen interruppe la loro conversazione: – Capitano, i sensori indicano la presenza di oggetti non identificati di fronte a noi, vicino a un gruppo di asteroidi. Sembrerebbero… i resti di due astronavi distrutte.

    – Tenente Kumar, porti la nave più vicino agli asteroidi – ordinò Hattaway, simulando tranquillità.

    – Chen, stato d’allerta 3. – Era la voce di Achebe, che si era rivolto all’ufficiale alla sicurezza della nave senza passare per il capitano. Hattaway lo guardò con rabbia, ma mantenne il contegno.

    – Non servirà, Chen – disse, cercando di mantenere un tono di voce fermo e autoritario.

    – Con tutto il rispetto, capitano, non sappiamo a cosa stiamo andando incontro – ribatté Achebe.

    Hattaway si voltò verso di lui: – Obbedisca agli ordini, primo ufficiale.

    Achebe si zittì. Con cautela la Eirene si avvicinò ai resti delle due navi.

    Sullo schermo, l’equipaggio adesso vedeva chiaramente i pezzi delle astronavi distrutte. Si muovevano lentamente nello spazio. Un fulmine violaceo si schiantò su un asteroide mandandolo in frantumi. Hattaway sussultò, poi tornò a guardare i resti. Una nave era terrestre e si poteva leggere anche il nome, stampato sulla fiancata divelta: ESPERANCE.

    L’altra aveva una forma tonda, sinuosa, argentata: era una nave Hurack, nello specifico una YAT4.

    L’equipaggio non sapeva bene cosa fare e guardava con ansia Jane. Bellini fece notare che per la missione dovevano assolutamente alzare i nuovi scudi, ma Hattaway aveva bisogno di sapere cosa fosse successo lì. Con ogni probabilità c’era stato uno scontro tra la nave terrestre e quella Hurack, con conseguenze non pacifiche. La notizia, però, non era saltata fuori da nessuna parte. Gli Hurack avrebbero certamente fatto leva su un evento del genere come leva per accusare la Terra e riprendere le ostilità.

    – Primo ufficiale, attiviamo gli scudi e iniziamo l’esercitazione. Nel frattempo, mi cerchi informazioni sulla Esperance.

    Degli scudi blu, onde ad altissima frequenza elettromagnetica, avvolsero l'Eirene, che procedeva verso i resti delle due astronavi.

    Achebe si mise a lavorare sul suo tablet e dopo pochi secondi alzò lo sguardo verso il suo capitano. Hattaway notò subito qualcosa di diverso nei suoi occhi.

    – Capitano, la Esperance era una nave da cargo in missione esplorativa. Gli ultimi dati risalgono a cinque anni fa.

    Hattaway elaborò il concetto. Erano cinque anni che quei resti si trovavano lì, immutati.

    – Nessuno l’ha trovata in tutto questo tempo?

    – Non è una zona molto frequentata, capitano. Per le tempeste elettriche.

    – Altre informazioni? – C’è solo il nome del capitano della Esperance. Francis Praz.

    Hattaway rifletté per qualche secondo. C’erano troppi interrogativi in quella vicenda. Hattaway si sentiva in dovere di indagare, semplicemente perché era coinvolta una nave terrestre. Non poteva fare finta di non aver trovato nulla e tornare a casa.

    – Primo ufficiale, dobbiamo saperne di più. È possibile che il computer di bordo sia ancora funzionante?

    Fu Chen a rispondere. – Sì, capitano, ricevo un segnale.

    L’unico modo per recuperare il computer, però, era che qualcuno uscisse nello spazio con la tuta e un cavo a tenerlo legato alla Eirene.

    Il membro dell'equipaggio preposto per operazioni del genere era Achebe, che andò a prepararsi senza battere ciglio e in pochi minuti era pronto per la camminata nello spazio.

    Mentre Achebe si infilava la tuta e assolveva a tutte le procedure necessarie, Hattaway andò nella sala riunioni dell’astronave, dotata di un video-comunicatore, per aggiornare il suo superiore, l’ammiraglio James Edwards, della scoperta.

    L’ammiraglio rispose immediatamente alla chiamata e comparve sullo schermo in divisa. Era un uomo tutto d’un pezzo, con i capelli brizzolati a spazzola. Hattaway lo conosceva da molti anni ed era stato il suo primo insegnante durante il corso di addestramento. Per lei, che non conosceva nessuno ed era nuova nell’ambiente, Edwards era stato un mentore, quasi un padre. Edwards le aveva insegnato tutto quello che sapeva: il rispetto delle regole e delle gerarchie e quanto fosse importante mantenere la pace in una galassia così fragile. Hattaway aveva seguito i suoi consigli alla lettera. Questo l’aveva condotta su un percorso brillante che aveva fatto di lei uno dei capitani più giovani della storia delle SAF.

    In un certo senso, era stato Edwards a indirizzarla verso la carriera diplomatica. Hattaway l'aveva scelta per fare in modo che conflitti come la guerra che si stava svolgendo in quel momento non si scatenassero mai più in futuro. Ripensandoci, poteva sembrare una motivazione ingenua. In realtà, era molto più concreta di quanto pensasse.

    Negli anni, Edwards e Hattaway si erano visti sempre di meno: Edwards era diventato ammiraglio e non aveva più tanto tempo da dedicare ai cadetti.

    Dopo un breve saluto, Hattaway gli descrisse quello che avevano trovato.

    – La nave è sicuramente una delle nostre. È la Esperance, secondo i registri il capitano era Francis Praz.

    Appena udito quel nome, l’ammiraglio si accigliò.

    – Capitano, distrugga ogni cosa.

    Hattaway ci mise qualche secondo a capire che non aveva sentito male, che Edward aveva davvero pronunciato quelle parole.

    – Signore, con tutto il rispetto, non possiamo semplicemente far finta di non vedere. C’è stato uno scontro tra una nave terrestre e una Hurack.

    – Appunto. Se si venisse a sapere, potrebbe essere il pretesto che gli Hurack cercano da anni.

    – Ammiraglio, qual era la missione del capitano Praz?

    – Sono informazioni riservate, capitano. Obbedisca agli ordini. Qualsiasi cosa trovi all’interno di quelle navi, la distrugga.

    Edwards chiuse la comunicazione senza aggiungere

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