L'Ottimismo della volontà
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L'Ottimismo della volontà - Davide Tizzano
1. La memoria del legno
Mio padre, con i suoi fratelli, rappresentava la terza generazione di commercianti di legname. L’attività era iniziata con il mio bisnonno Giuseppe, figlio di Gaetano, abile e apprezzato tornitore specializzato nella lavorazione delle ruote, dei raggi e dei mozzi delle carrozze dell’epoca.
Giuseppe era magro e slanciato. Il volto austero e uno sguardo profondo, quello di un uomo che aveva vissuto e conosceva molto bene l’alto valore del lavoro. Da giovane era stato un valente maestro d’ascia ed esperto conoscitore del settore. Sapeva plasmare il legno e aveva iniziato a commerciare legname impiantando una segheria.
Mio nonno Gaetano aveva la sua stessa passione per il legno e negli anni aveva fatto crescere l’azienda di famiglia, puntando sul settore della nautica e dell’industria. Forniva i principali cantieri navali campani e laziali, sia con legni italiani che con quelli importati dall’Africa, dall’Asia e dal Nord America. I grandi tronchi d’importazione arrivavano via mare al porto di Salerno o al porto di Torre Annunziata per poi essere scaricati al nostro deposito di Caserta. I semilavorati segati, arrivavano sotto forma di tavoloni di grande spessore o enormi travi dai generosi profili, al nostro deposito nei pressi dello scalo merci ferroviario di Napoli Centrale. Per le importazioni dall’Austria e dalla Germania il legname arrivava con degli enormi autotreni presso i nostri depositi. La nostra segheria era specializzata nella segagione
dei grandi tronchi di mogano e di iroko, fino a diametri di oltre due metri e mezzo e lunghezze superiori ai sei metri.
Per me era come vivere in un parco giochi; tra gru, carrelli elevatori, camion, trattori, motosega, asce e scuri di tutte le misure e dimensioni e poi altissime cataste di tronchi da scalare.
Spesso, di sabato, accompagnavo mio padre nelle zone di taglio dove acquistava la materia prima. Mi piaceva vederlo contrattare l’acquisto di singole piante o di interi boschi, ma più di tutto ammiravo quando studiava i punti di caduta degli alberi, prima dell’abbattimento.
Aveva delle squadre di boscaioli eccezionali e ogni gruppo aveva una sua specializzazione: accettaioli, segantini e potatori. Per spostarsi i nostri operai utilizzavano l’Ape car, i famosi tricicli della Piaggio, e per me era uno spasso scorrazzare in lungo e in largo sul cassone esterno, in compagnia di Papele
, il caposquadra, vero e proprio uomo di fiducia di mio padre.
Papele era famoso per essere un uomo di poche parole. Non alto, aveva una forza straordinaria nelle braccia ed era abilissimo nel salire sugli alberi e in particolare sui pini ad alto fusto. Maneggiava in maniera magistrale la motosega, soprattutto quando si trattava di lavori aerei o abbattimenti impossibili come, a volte, capitava nei cimiteri o nelle caserme militari in prossimità dei depositi ad alto rischio. Erano gli anni Settanta e moltissime di queste attività avvenivano ancora, faticosamente, a mano.
Quando gli alberi erano particolarmente fitti Papele passava da una chioma all’altra, come un funambolo, senza scendere neanche per la pausa del pranzo che consumava tranquillamente seduto lassù sui grandi rami.
In quegli anni l’azienda di famiglia era fornitrice di servizi di manutenzione del verde di molti enti pubblici che gestivano i parchi demaniali. In particolare ci occupavamo della cura delle piante ad alto fusto e degli interventi di emergenza in caso di pericolo e messa in sicurezza. Questo è uno dei motivi per cui conosco a memoria il Parco Reale della Reggia di Caserta, il Real Bosco di Capodimonte con i giardini pensili del Palazzo Reale di Napoli e gli scavi archeologici di Pompei che, ancora oggi, sono adornati da pini ad alto fusto che spesso incombono sui reperti archeologici e, se pericolosi per le cose o le persone, devono essere rimossi senza arrecare nessun danno e con la massima attenzione.
Sono stati giochi molto istruttivi con dei maestri eccezionali; i boscaioli e gli spaccalegna, gente abituata a un lavoro duro capace di forgiare uomini dal carattere energico ma di grande generosità.
La cosa che amavo di più stando con loro era che mi trattavano da grande
. All’ora di pranzo tiravano fuori delle colazioni strepitose per quantità e varietà: enormi pagnotte di pane preparato nel forno a legna che conservavano il tepore della cottura del mattino presto, farcite con gli ingredienti più svariati e fantasiosi: peperoni, salsicce con i broccoli (il famoso friariello napoletano), polpette al sugo, cotolette e frittate di tutti i generi. Inutile dire che i sapori erano da veri cultori della dieta mediterranea, basata sul gusto, sulla qualità e sulla genuinità.
Insistevano affinché io mangiassi con loro dividendo alla pari il pasto. Tutto avveniva di nascosto perché mio padre non voleva.
Ogni volta mi ricordava che facevano uno dei lavori più duri al mondo e che quindi il cibo per loro voleva dire energia e non era corretto che se ne privassero per me.
Io avevo il mio panino portato da casa e quello mi doveva bastare, ma non aveva lo stesso sapore. Ripensandoci ho imparato tante cose in quegli anni, competenze che mi sono tornate utili successivamente. A loro devo la mia capacità in quello che oggi si definisce problem solving
.
Mio padre da un lato mi incoraggiava facendomi sentire sicuro di me stesso, ma innumerevoli volte mi ha tolto d’impaccio da situazioni pericolose. Si abbattevano alberi e si segavano tronchi enormi… e ancora oggi lui stesso mi ricorda che sono stato fortunato a restare tutto intero, un vero miracolato.
Erano gli inizi del Novecento quando la segheria e il palazzo di famiglia furono edificati. Allora quella era un’area industriale ma già negli anni Cinquanta era stata assorbita totalmente dall’area urbana.
Vivevamo in un quartiere popolare, ma mio padre ha sempre preferito la comodità di avere l’azienda sotto casa. Mi abituai così a confrontarmi con tutti, anche con i bulli e i prepotenti. Gli scunnizzi napoletani, a dispetto del colorito e simpatico appellativo, spesso costituiscono vere e proprie gang di criminali in erba. Ho imparato in fretta a difendermi, anche menando le mani. È stata una vera palestra di vita.
Da un lato il mio era un mondo felice, scandito dalle regole semplici e pulite della scuola e della famiglia, dall’altro imparavo ad affrontare la realtà e la durezza della vita.
Protetto dal muro di cinta e dall’enorme cancello della segheria, osservavo tutto quello che accadeva attorno a me. Avevo solo undici anni e cercavo di intravedere il mio futuro. Mi piaceva il lavoro di mio padre, ma anche la disciplina e il rigore della vita militare mi attiravano. Avevo dei validi esempi in famiglia con generali dei carabinieri che avevano frequentato la Scuola Militare Nunziatella e l’Accademia Militare. Sarei potuto diventare un ufficiale anch’io e seguire le loro orme, magari in Marina o nell’Esercito.
Spesso passavo i pomeriggi anche nella grande libreria di mio nonno materno, Carlo Pironti, e tante volte ho pensato che anche io da grande sarei potuto diventare come lui. Apparteneva a una famiglia di antichi librai e editori e un suo prozio, era stato ministro della Giustizia.
A Napoli ancora oggi ci sono molte librerie Pironti e unanimemente sono riconosciute come chiaro punto di riferimento della cultura partenopea.
Da giovane militare aveva partecipato alla campagna coloniale in Abissinia e alla Seconda guerra mondiale, dove fu fatto prigioniero a Creta dopo l’8 settembre del 1943. Visse l’esperienza della deportazione in Germania e quando ritornò a Napoli dovette ricominciare tutto d’accapo.
Lo ammiravo molto e porto sempre con me il suo ricordo. La cosa che apprezzavo maggiormente era la sua capacità di tornare umano
dopo aver vissuto delle esperienze drammatiche, in particolare durante il secondo conflitto mondiale. Da prigioniero di guerra, aveva conosciuto la durezza dei campi di concentramento e aveva ben presto compreso che la sua unica speranza di salvezza fosse quella di rendersi utile con le sue conoscenze e le sue capacità professionali che, alla fine, gli salvarono la vita e lo aiutarono a ritornare a casa sano e salvo.
Ho avuto un’infanzia felice circondato dalle attenzioni della mia famiglia. Amato dai miei genitori e dai miei fratelli e da tanti zii e cugini che mi hanno fatto sempre sentire parte di un grande team, con la certezza e consapevolezza di appartenere a famiglie con un passato importante.
Avevo la sensazione netta che nessuno mi potesse fermare.
Lo Sport
Da ragazzo mi è sempre piaciuto lo sport, rappresentava lo spazio giusto in cui far uscire la mia determinazione. Ero un agonista ma non lo sapevo ancora.
Durante le ore in classe alle elementari, guardavo dalla finestra con invidia gli allievi sui campi sportivi del Liceo classico Garibaldi.
Quanto mi sarebbe piaciuto unirmi a loro, soprattutto nelle giornate di sole.
Ma all’epoca frequentavo la terza elementare.
Il nostro maestro, il professor Viola, era un uomo robusto e atletico, dal carattere energico, che aveva una capacità didattica immediata e coinvolgente. Usava spesso esempi sportivi nelle sue lezioni e da grande appassionato di pesca subacquea ci raccontava delle sue esperienze in immersione. Un giorno ci disse che aveva avuto il permesso di utilizzare la palestra del liceo per fare un corso pomeridiano di attività motorie per i ragazzi della mia età.
Era il 1976 quando entrai per la prima volta in quella sala che mi sembrava enorme.
La struttura, costruita negli anni Trenta, aveva mantenuto gli arredi e gli attrezzi originali. Enormi tende di tela blu scendevano dal soffitto e coprivano le ampie finestre lasciando filtrare una luce soffusa che illuminava attrezzi affascinanti che non avevo mai visto così da vicino: travi, spalliere, pertiche, cavalli con maniglie, trampolini, funi, quadro svedese. A terra un parquet impeccabile.
Sembrava un museo, tutto era monumentale e già esercitava su di me un fascino magnetico.
Il maestro Viola era anche diplomato all’Istituto superiore di educazione fisica di Napoli. Una formazione che lo portò a valutarmi diversamente rispetto ai miei compagni. Non so cosa lo colpì particolarmente, ma spesso accadeva che mentre gli altri ragazzi erano impegnati nelle varie attività lui mi riservasse un trattamento speciale: mi faceva correre. Io non capivo perché gli altri giocavano e io correvo attorno ai campi e quando mi decisi a domandargli il perché… lui mi rispose che sarei diventato un grande mezzofondista. Evidentemente vedeva cose che io ancora non immaginavo neanche lontanamente.
Quello fu l’inizio della mia storia di atleta. Una storia che probabilmente si lega al forte DNA della mia famiglia.
Mio nonno Gaetano, classe 1909, era uno sportivo appassionato. Si era cimentato in molte discipline, in particolare nell’atletica con il lancio del giavellotto. Pioniere dello sci in Abruzzo aveva una grande passione per la motocicletta, il mare, i tuffi e le barche. Anche invecchiando aveva mantenuto un fisico longilineo, asciutto e atletico. Una prestanza che durante il servizio di leva gli era valsa la chiamata tra i Granatieri di Sardegna.
Come si usa al Sud era da tutti conosciuto come Don Gaetano
. La grande passione per gli sport d’acqua la trasmise a tutti i suoi dieci figli e in particolare a mio padre Giuseppe, che avrebbe voluto iscrivermi fin da piccolo «alla migliore scuola di vela» come amava definire il Centro Velico di Caprera. Ma io all’epoca della vela non volevo proprio saperne.
Anche mio padre, come il suo, è sempre stato un uomo imponente, fisicamente molto prestante. Un fisico perfetto sia per la pallanuoto che per il rugby o il canottaggio.
Io da ragazzo gli somigliavo poco. Ero molto vivace ma molto magro e mia madre Rosanna, anche per irrobustirmi, mi iscrisse ad una scuola di nuoto. Figlia di Carlo Pironti apparteneva a una famiglia di librai e editori. Da giovane aveva praticato, come usavano le ragazze degli anni Sessanta, il basket e il pattinaggio a rotelle. Grazie al suo puntiglio, non ho mai perso un allenamento in vita mia. È sempre stata la mia prima e più grande motivatrice.
Seppi poi che i miei genitori mi avevano iscritto al corso di nuoto perché mia nonna Margherita aveva insistito moltissimo con mio padre affinché facessi un po’di sport: «deve irrobustire le spalle…», aveva detto e nessuno poteva ignorare quello che diceva nonna Margherita.
Aveva occhi azzurri e lunghissimi capelli biondi, che io ricordo sempre bianchissimi. La donna più buona che io abbia mai conosciuto. Una vita intera dedicata alla famiglia e al bene di tutti quelli che le erano vicino. Non si arrabbiava mai ma credo di essere stato uno dei pochi che è riuscito a farla infuriare rompendo i vetri dei balconi di casa sua a pallonate.
Arrivai così in piscina.
Le attività tecniche della scuola nuoto erano affidate ai fratelli Massimo e Paolo De Crescenzo, grandi campioni di pallanuoto del Circolo Canottieri Napoli che nel 1977 vinsero a Palermo la Coppa dei Campioni, allenati dal grande Fritz Dennerlein.
Paolo De Crescenzo all’epoca era magro, atletico ed esibiva con una certa fierezza dei grandi baffoni bruni. Negli anni diventò uno dei più apprezzati e vincenti allenatori della pallanuoto italiana ricoprendo anche il ruolo di direttore tecnico della Nazionale.
Dopo due anni di nuoto obbligatorio
, Paolo De Crescenzo mi propose di giocare a pallanuoto nella squadra giovanile. Non mi reputavo un grande nuotatore, anzi pensavo di essere scarsino e interpretai quella proposta come uno scherzo, una presa in giro, ma così non era. Ancora una volta un tecnico, in questo caso il futuro allenatore della squadra nazionale italiana di pallanuoto, aveva visto in un ragazzino alto e magro le potenzialità per una carriera d’atleta.
Era il 1978 e consideravo il tempo che passavo in piscina più un dovere che un piacere, forse non volevo scontentare