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L'ambiguo sorriso di Gilda
L'ambiguo sorriso di Gilda
L'ambiguo sorriso di Gilda
E-book475 pagine6 ore

L'ambiguo sorriso di Gilda

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Info su questo ebook

1947-1949. Arrivano in Italia Gilda e altri film che fanno conoscere i divi e le dive di Hollywood. Luisa ha sedici anni, è l’unica superstite degli abitanti del suo paese massacrati dalle SS tedesche in ritirata. Adesso vive a Roma con gli zii Antonia e Peppe e la loro figlia Cecilia, sua coetanea. Ferdinando consegue il diploma di maturità e si prepara a subentrare al nonno Massimiliano nella guida del Consorzio, un gruppo finanziario e affaristico. Gioele è un operaio comunista, durante l’occupazione ha fatto la lotta clandestina, non accetta la nuova linea legalitaria e democratica del suo partito e organizza un gruppo che esegue atti di “giustizia proletaria”. Guglielmo è un agente del ricostituito servizio segreto. Riceve l’incarico di organizzare una rete armata clandestina allo scopo di prevenire un’invasione sovietica esterna o un’insurrezione comunista interna (o entrambe) in modo da rendere l’Italia affidabile per i nuovi alleati. La nuova rete si chiama “Gladio”. La giovanissima protagonista Luisa compare anche in età adulta nel romanzo I nostri figli non conosceranno la miseria, ambientato a Torino nel 1961 dello stesso autore.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2020
ISBN9788855390576
L'ambiguo sorriso di Gilda

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    Anteprima del libro

    L'ambiguo sorriso di Gilda - Riccardo Borgogno

    Riccardo Borgogno

    L’AMBIGUO SORRISO DI GILDA

    1947 – 1949

    Spie, faccendieri, rivoluzionari comunisti

    e una teppistella tra le macerie della ricostruzione

    EEE - Edizioni Tripla E

    Riccardo Borgogno, L’ambiguo sorriso di Gilda

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2020

    ISBN: 9788855390576

    Collana Grande e piccola Storia, n. 15

    Prima edizione e-book

    EEE - Edizioni Tripla E di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina: immagini da Pixabay. L’immagine di Rita Hayworth è di Flybynight, l’immagine maschile di Vitabello.

    PARTE PRIMA

    1947 – LA RAGAZZA SULL’ALBERO

    1

    I cani dalmata Gorgo e Argo abbaiarono. Ferdinando sollevò lo sguardo dal libro e guardò verso il boschetto, ma non notò nulla d’insolito. Da pochi giorni il sole primaverile gli permetteva di uscire dalla villa e studiare seduto sulla panca con il libro posato sul tavolino. La panca e il tavolino erano di pietra, e il libro era il testo di contabilità e statistica con cui si stava preparando a sostenere l’esame per il conseguimento della maturità scientifica dell’anno scolastico 1946-1947. Ferdinando era molto bravo con i numeri, se si stava attenti i conti tornavano sempre, e non aveva faticato con le equazioni e i diagrammi. Dopo sarebbe andato all’università e avrebbe cominciato a lavorare insieme al nonno.

    Ferdinando Sansoni aveva diciassette anni, la carnagione chiara con qualche lentiggine, gli occhi celesti e i capelli biondi ben ordinati con la riga in mezzo. Erano ben ordinati anche la camicia bianca, il pullover senza maniche, i pantaloni grigi con le pinces e i mocassini in pelle. L’ordine era la cosa che gli avevano insegnato fin da piccolo e che regnava nella sua vita fin dove arrivavano i suoi ricordi. Suo padre Giorgio amava le auto sportive, forse troppo, e un giorno maledetto l’Hispano-Suiza che stava provando a una curva troppo stretta aveva preso il volo e poi era stata avvolta dalle fiamme. Lui l’aveva saputo il giorno dopo dalla mamma in lacrime, che era morta l’anno successivo. Di lei ricordava che amava suonare il pianoforte e che era sempre preoccupata per la sua salute. Ferdinando e Massimiliano, il nonno paterno, non erano abituati a parlare e, dopo qualche tentativo, avevano rinunciato. Massimiliano Sansoni era un uomo d’affari, aveva girato il mondo e conosceva le lingue, aveva conosciuto esponenti del Cln e ufficiali americani e inglesi. Dopo la guerra passata in casa di amici in campagna, Ferdinando era tornato nella villa al centro di Roma. Seguendo i consigli di nonno Massimiliano, non avrebbe potuto sbagliare.

    Nella villa c’erano sale e corridoi con i soffitti altissimi, e molti tappeti e quadri con austeri personaggi dagli sguardi severi che, dopo tanto tempo, non gli facevano più molta impressione. Torquato gli aveva detto che la villa risaliva ai tempi del Papa Re, ma il vecchio giardiniere tuttofare amava chiacchierare e non bisognava prenderlo troppo sul serio. Certo la villa i suoi anni li aveva e il suo effetto lo faceva.

    Quando era stanco di studiare, il ragazzo biondo e pallido riponeva i libri e s’inoltrava nel boschetto fin dove la villa non si vedeva più, e pensava di essere in una foresta piena di pericoli e misteri. Ma poi l’incantesimo si era spezzato. Nel boschetto non c’erano né belve né cannibali né ruderi di città antichissime, e non era nemmeno tanto grande. Sembrava che le dimensioni del boschetto si riducessero di giorno in giorno, e alla fine era rimasto un sentiero ben tenuto che, con due curve, girava intorno alle aiuole e alle siepi. C’era persino una panchina per l’esploratore stanco. Poi c’era un laghetto circolare con le sponde di pietra, con le foglie che galleggiavano sull’acqua immobile. D’inverno il laghetto si riduceva a una vasca asciutta e triste. Il giorno peggiore era stato quando Ferdinando aveva trovato l’inferriata dove il boschetto finiva e oltre cui non era possibile andare. Al di là c’era la strada asfaltata e, se si tendeva l’orecchio, era possibile sentire in lontananza lo sferragliare di un tram.

    Ferdinando tentò di riprendere la contabilità e la statistica, ma ormai la concentrazione se n’era andata, e allora si alzò e si guardò intorno. I cani non abbaiavano più. Non aveva voglia di rientrare nelle sale dai soffitti altissimi, dove probabilmente Irene, la moglie di Torquato, era ancora intenta a pulire e lucidare, con l’aiuto di sua nipote Anna. Ferdinando s’incamminò sul sentiero di ghiaia in direzione del boschetto, e poco dopo la villa cessò di esistere.

    Non avrebbe saputo dire cosa avesse attirato la sua attenzione. Forse un rumore diverso dal fruscio delle foglie o uno squarcio di colore diverso dal verde che lo circondava e sommergeva. Ferdinando fece qualche passo, girò intorno a una siepe, scavalcò una radice sporgente, alzò gli occhi e la vide. La donna selvaggia, cresciuta nella giungla insieme agli animali, era lassù aggrappata a un ramo nodoso, vestita solo con una pelle di animale e con i lunghi capelli che non erano mai stati tagliati. Improvvisamente il boschetto tornava a essere la foresta misteriosa e pericolosa dei suoi anni da bambino, da un momento all’altro dai cespugli sarebbe sbucato un leone o dal laghetto sarebbe emerso un coccodrillo.

    Ferdinando non riusciva a smettere di guardare la donna selvaggia, e anche lei guardava lui. Poi lei si mosse e cominciò a scendere. I movimenti erano agili e sciolti. Una mano afferrava un ramo mentre il piede scivolava sulle asperità del tronco. Il ragazzo biondo e pallido fece un passo indietro e si guardò intorno, domandandosi come si sarebbe difeso se lei lo avesse assalito, ma non vide nulla che gli potesse servire alla bisogna. Avrebbe potuto semplicemente voltarsi e fuggire, ma la curiosità fu più forte. Forse la donna selvaggia aveva bisogno di cibo, e mangiando gli avrebbe raccontato la sua storia. Ma se non avesse saputo parlare la lingua italiana?

    Poi la donna selvaggia posò i piedi per terra, e Ferdinando vide che era quasi una bambina e non era poi tanto selvaggia. Non era vestita della pelle di un animale ma con un giubbotto nero, una gonna pieghettata e un paio di scarponcini. Forse non era nemmeno nata e cresciuta nella foresta tra gli animali. Le mani erano imbrattate di terra, e un graffio le attraversava una guancia.

    «Ciao.»

    Meno male, parlava italiano. Ferdinando ritenne buona educazione rispondere sullo stesso tono.

    «Ciao. Io mi chiamo Ferdinando. E tu?»

    «Luisa. Cosa fai qui?»

    «Cosa faccio qui?» Ecco una domanda che Ferdinando non si era aspettato. «Io abito qui. Questa è la mia casa.»

    «La villa? Sì, sì, l’ho vista. Una volta ci sono passata davanti. Bella.»

    «Come hai fatto a entrare?»

    Luisa si guardò indietro, come indecisa se rivelare il suo segreto, poi si decise.

    «Sono passata tra le sbarre. Una sbarra è piegata e c’è un varco. Ho fatto fatica, ma ci sono riuscita. Ho anche scavato un po’.»

    Ecco spiegate le mani sporche di terra. Forse Luisa capì il suo pensiero e si portò le mani dietro la schiena. Ora i due ragazzi erano molto vicini, e Ferdinando percepiva l’odore di selvatico che emanava da quel corpo immaturo e sgraziato. Luisa aveva i lunghi capelli castani riuniti in una coda di cavallo. I lineamenti erano un po’ spigolosi e le labbra sottili e strette. Lo sconcertava il suo modo di fissarlo mentre parlava, come se volesse leggergli nel pensiero e capire tutto di lui. Era una sensazione nuova e sconosciuta.

    «Perché?»

    «Perché perché… perché si fanno le cose? Si fanno e basta.»

    «Volevi rubare?»

    «Io rubare? Cosa dici? Sei matto? Io sono ricca, ho tante cose, non ho bisogno di niente. Non voglio niente da te.»

    «Guarda che ci sono due cani. Potevano farti male.»

    «Allora ti preoccupi per me?»

    Ferdinando arrossì. Davvero Luisa gli leggeva dentro, gli occhi verdi e penetranti non lo abbandonavano un istante. Ora le labbra strette erano atteggiate in un sorriso che gli sembrava di scherno.

    «Tranquillo, Ferdinando. Ho visto i tuoi cani. Sono due cuccioloni molto simpatici, e loro hanno trovato simpatica me. Abbiamo fatto subito amicizia.»

    Luisa fece un passo avanti e Ferdinando ne fece uno indietro. Nessun rumore giungeva dal resto del mondo. Non un filo di vento muoveva l’aria.

    «Vivi qui con la tua famiglia?»

    «La mia famiglia? Sì, sì, vivo con il nonno… e tu?»

    «I miei genitori sono morti. Adesso vivo con i miei zii. In una casa più piccola della tua. La tua villa… me la fai visitare?»

    «Oh no!» Ferdinando rispose di getto. «Non si può.»

    «Come, non si può? Non è casa tua?»

    «Sì, ma il nonno non vuole.»

    «Non vuole che nessuno venga a trovarti?»

    Ferdinando non avrebbe saputo cosa rispondere, ma Luisa non insisté.

    «Ora devo andare.»

    «E allora vai, cosa aspetti.»

    «Ma tu cosa fai?»

    «Stai ancora a preoccuparti per me? Ti ho detto che non ce n’è bisogno.»

    Ferdinando fece qualche passo, poi si fermò e si voltò. Luisa non si era mossa, e teneva ancora le mani dietro la schiena. Ora era molto seria e immersa in profonde riflessioni. Levò una mano da dietro la schiena e gli fece un cenno stizzoso.

    «Vai, vai, che non ti rubo niente, stai tranquillo.»

    Il ragazzo pallido e biondo arrivò ai confini del boschetto. Ora vedeva di nuovo la villa. I mocassini si erano sporcati di terra. Si voltò un’ultima volta, e Luisa non c’era più. Non l’avrebbe rivista mai più e non avrebbe mai saputo nulla di lei. Recuperò dal tavolo di pietra il libro di statistica e contabilità e s’incamminò verso la villa. Aveva raggiunto la scalinata quando si sentì chiamare. Si voltò e vide il guardiano venire verso di lui. I guardiani erano cinque, indossavano tutti un completo grigio con una camicia bianca e una cravatta, e una volta Ferdinando si era accorto che, sotto la giacca, uno di loro portava una pistola. Il nonno gli aveva spiegato che era per la sua protezione.

    «Scusi, signor Ferdinando…»

    «Buongiorno, Arturo. Qualche problema?»

    «Ha forse visto qualcuno nel parco?»

    «Qualcuno?»

    «Un estraneo, intendo. I cani hanno abbaiato, io e Roberto abbiamo fatto un giro ma non abbiamo trovato… forse lei ha visto...»

    «No, no. Non ho visto nessuno.»

    Il guardiano ringraziò e salutò. Il ragazzo rientrò nella villa.

    2 - Tre anni prima

    Luisella guardava fuori dalla finestra e quasi non sentiva la voce della maestra Alberta che spiegava, nell’unica scuola che ospitava le classi elementari e medie nel paesino di Grossaglie. Il cielo era grigio e la campagna era chiazzata di neve, e sullo sfondo svettava l’Appennino. La bambina aveva l’impressione di sprecare i suoi anni migliori chiusa in quella stanza ad ascoltare cose inutili, e non vedeva l’ora che tornasse il sole per correre di nuovo nel bosco. Le piaceva girovagare da sola, quando non era occupata ad aiutare la mamma nell’orto. Le piaceva arrampicarsi sugli alberi, spiare i cerbiatti che andavano a bere al ruscello, pronti a fuggire al minimo fruscio. Aveva imparato a essere molto silenziosa, a non fare il minimo rumore e a mettersi sempre controvento.

    Le prime volte aveva paura delle vipere, aveva sentito di come Stefano fosse morto in quel modo, e aveva imparato a evitarle. Aveva anche sentito di come il vecchio Placido fosse morto annegato cadendo nel fiume, e anche a quello aveva imparato a fare attenzione. Ma Placido era ubriaco ed era notte, quando aveva percorso il traballante ponte. Il morso di una vipera, l’annegamento nel fiume e il parto per le donne erano gli unici modi con cui fosse possibile morire a Grossaglie, oltre ovviamente alla malattia e alla vecchiaia. Una volta la bambina aveva ucciso una vipera con un sasso e l’aveva portata in paese facendo strillare le sue compagne di scuola. Anche i maschietti erano rimasti impressionati, ma avevano fatto il possibile per non darlo a vedere.

    «Luisella, sei qui con noi?»

    Luisella si voltò di scatto. La maestra Alberta la guardava severa, in piedi accanto alla cattedra, e anche tutti gli altri sembrava la guardassero come se fosse un pagliaccio, sia le bambine con i loro grembiuli bianchi che i maschietti che indossavano la camicia nera e i pantaloncini. Dietro alla cattedra c’era la lavagna dove erano scritte le lettere dell’alfabeto. Le prime volte la maestra le era sembrata una vera megera che sicuramente non era sposata perché nessuno l’avrebbe sopportata, ma poi aveva capito che doveva alzare la voce per farsi ascoltare e che la sua crudeltà era tutta una finta. Un giorno la maestra aveva chiesto alla bambina di fermarsi dopo la fine dalla lezione, e si erano sedute nell’aula vuota. La maestra voleva capire perché Luisella da un po’ di tempo sembrava distratta, e aveva insistito finché Luisella aveva spiegato che la sua mamma era ammalata. Poi la bambina si era fatta un pianterello, ma tornando a casa stava meglio. Il giorno dopo la maestra era venuta a trovarla per vedere personalmente come stava la mamma e chiedere se potesse fare qualcosa.

    «No, no, signora, sono qui, la ascolto… sto attenta…»

    Molte risatine fecero coro alle parole di Luisella, che si domandò quante altre volte la maestra l’avesse chiamata e lei non avesse sentito. Non potendo prendersela con tutti, Luisella tirò fuori una lingua rabbiosa al più vicino, che era Carletto, il figlio del postino, che smise di colpo di ridere. Davvero a volte bastava poco per farsi rispettare.

    «Va bene, Luisella, vieni alla lavagna e facci vedere cos’hai capito di quello che abbiamo detto.»

    Luisella cercò di prendere tempo, ma non aveva scampo e alla fine si avviò. La maestra la seguiva con lo sguardo e, passandole vicino, si capiva benissimo che si stava sforzando per non ridere. Accanto alla lavagna c’era la grossa stufa, alimentata dalla legna che tutti i genitori avevano portato all’inizio dell’inverno.

    «Forse vuoi venire qui ad aiutare la tua compagna, Alfonsino?»

    «No, no…» rispose il malcapitato che aveva continuato a ridere un secondo di troppo.

    Luisella afferrò il gesso e scrisse alcune addizioni e sottrazioni con una sola cifra, ce la mise tutta e riuscì e non sbagliarne nemmeno una. Poi si volse con un sorriso trionfante verso la maestra.

    «Bravissima, Luisella. Ora vediamo come te la cavi con le tabelline e le moltiplicazioni. Le abbiamo fatte solo la settimana scorsa e certo te le ricordi. Vero che te le ricordi?»

    All’inizio dell’anno scolastico gli allievi della scuola erano una quindicina, ma poi erano raddoppiati e il numero continuava a crescere, quasi ogni settimana c’era qualche faccia nuova. Tante famiglie che stavano in città avevano mandato i bambini da parenti e amici in campagna, e alcuni erano arrivati a Grossaglie. Sulle città gli aerei nemici avevano cominciato a fare cadere le bombe, aveva sentito Luisella in casa. Papà e mamma ne parlavano a tavola, ma non sembravano troppo preoccupati, in campagna c’erano meno comodità ma non si rischiava di morire, la guerra era una cosa orribile ma lontana.

    La bambina era tornata al suo posto e ascoltava la maestra che parlava dell’America, un paese grandissimo di là dall’oceano Atlantico, l’aveva scoperto un certo Cristoforo che aveva sbagliato strada, perché in realtà voleva andare in India. All’inizio sul quaderno Luisella aveva faticato, ma poi si era impegnata a disegnare le aste più o meno dritte e i cerchi più o meno rotondi, e finalmente le aste erano diventate lettere e le lettere parole. Sul libro aveva visto uomini con lunghe barbe vestiti di pelle di animale che cercavano di difendersi da un bestione che si chiamava dinosauro, e gli antichi Greci e Romani che abitualmente si vestivano solo mettendosi addosso delle specie di lenzuola.

    Per fortuna era il suo ultimo anno, poi Luisella sarebbe stata abbastanza grande e non sarebbe più tornata in quell’aula. Guardò e sorrise a Martina e Silvietta, che erano le sue migliori amiche; le tre bambine si aiutavano a vicenda quando erano in difficoltà e si confidavano quanto avevano litigato con quei rompiscatole dei genitori. La famiglia di Martina gestiva l’emporio, dove era possibile trovare qualunque cosa.

    Prima di allora Luisella non aveva mai sentito parlare della guerra e anche adesso ne aveva un’idea molto vaga. Silvietta le aveva detto che suo fratello più grande era partito per la guerra, e poi Luisella aveva associato la guerra ai camion verdi carichi di uomini vestiti anch’essi di verde che aveva visto passare sulla statale stando appostata sul poggio che sovrastava la pianura, una distesa a perdita d’occhio di boschetti, orti e vigne, interrotti qua e là da qualche gruppo di case e casette. Sapeva che oltre l’orizzonte da una parte c’era Grosseto e dall’altra il mare.

    La maestra scrisse sulla lavagna le operazioni con i numeri che gli allievi avrebbero dovuto fare a casa, Luisella le copiò sul quaderno che poi mise nella cartella, poi tutti i bambini riposero i quaderni, si alzarono e corsero alla porta. Il problema più importante del mondo in quel momento era non arrivare in ritardo in modo che il pranzo non diventasse freddo e la mamma che l’aveva preparato non si arrabbiasse.

    3

    Il professore e il dottore camminavano fra le ombre dei secoli, nell’area archeologica a nord di Roma. Non c’erano lampioni in quella zona, ma la luce bianca della luna illuminava senza distinzione le rovine, le erbacce e i volti delle antiche divinità. I puntini luminosi indicavano dove si trovava la capitale. Sembrava che in pochi metri ci fosse un divario di secoli, e che in mezzo non fosse accaduto nulla, non i bombardamenti, non l’occupazione, non i rastrellamenti, le elezioni e gli intrighi. Senza esitare, i due uomini arrivarono davanti alla porta di pietra, quasi nascosta da una statua tronca che era crollata dal suo piedistallo, scomparso da tempo tra i rovi, accesero delle pile e cominciarono a scendere la ripida e stretta scala di cui non si vedeva la fine.

    «Stiamo attenti a dove mettiamo i piedi. Le pietre sono scivolose e alcune possono essersi spostate, e poi è facile inciampare nelle erbacce.»

    «Non facciamo altro da due anni, mi pare. Stare attenti a dove mettiamo i piedi, intendo.»

    Un sogghigno sottolineò la battuta. La buona fattura dei soprabiti e dei cappelli indicava la condizione benestante senza pretese dei due uomini. Poi il fondo arrivò. Il varco d’ingresso era scomparso, e le pile illuminavano le mummie. Erano i silenziosi e immobili ospiti della catacomba, dal tempo dell’impero degli Augusti, ormai rinsecchite e accartocciate nelle nicchie di tufo. Alcune sembravano guardarsi e abbracciarsi, in un’illusoria vita dopo la morte.

    «Il posto è questo» disse il professore.

    «Ne è sicuro?»

    «Certo. Dobbiamo solo aspettare.»

    I due uomini tirarono fuori e accesero le sigarette. Entrambi avevano i capelli bianchi, ed entrambi parlavano in tedesco. Conoscevano anche l’italiano in modo quasi perfetto ma, quando erano tra loro, preferivano ritrovare le loro origini. Il professore insegnava letteratura a Brema e il dottore esercitava in un ospedale di Stoccarda. Durante la guerra si trovavano a Roma dove svolgevano compiti molto diversi, e nella stessa città ora erano dovuti tornare. I doveri verso i kameraden lo imponevano.

    «Crede che accetteranno lo scambio tra Herbert e il dossier Kraken?»

    «Devono. Non possono fare altro. Quel dossier gli serve. E poi so come ragionano gli italiani. Il loro maggior divertimento è vedere i potenti in imbarazzo, e non si lascerebbero sfuggire l’occasione. Herbert sarà libero.»

    «Com’è possibile con le sue imputazioni?»

    «Non è un problema nostro. Quando gli italiani vogliono liberare qualcuno, il modo lo trovano. Motivi di salute, età avanzata. Non subito, certo, ci sono altri processi in corso, ma quando le acque si saranno calmate… Ma Herbert è un vero soldato, un anno o due di cella non gli fanno né caldo né freddo.»

    Nel 1944 Lorenz Huber e Hans Wibbek erano a Roma, ma non indossavano la divisa. Pochi li conoscevano anche tra gli ufficiali tedeschi. Tra quei pochi vi erano l’allora maggiore delle SS Herbert Kappler e l’allora capitano Erich Priebke. Erano agenti della Gestapo, non avevano gradi, il loro compito era mantenere i contatti con informatori, quindi non si erano fatti notare e, alla fine della guerra, nessuno li aveva cercati. Non avevano dovuto fare altro che tornare alle loro città di origine e riprendere le carriere che avevano interrotto per servire la patria.

    Huber ebbe uno scatto e indicò qualcosa alle spalle del suo compagno, che si voltò a sua volta.

    «Cosa c’è?»

    «Non ha visto nulla?»

    «Cosa dovrei avere visto?»

    «Una delle mummie si è mossa.»

    Wibbek guardò il suo compagno in faccia come per capire se si sentisse bene. Costui intuì il suo pensiero.

    «Non sono pazzo.»

    «Le mummie non si muovono.»

    «Lo so cosa ho visto.»

    «Ha visto un gioco di luce.»

    Come tranquillizzato, Huber sedette su un gradino. Gli era passata la voglia di fumare, e schiacciò la sigaretta con un piede su una pietra. Poi guardò l’orologio da polso.

    «Il nostro uomo è fidato?»

    «Lo conosco dal tempo della guerra. Era un agente del Sim. Ha continuato a collaborare con noi anche dopo l’8 settembre. Ora fa la stessa cosa.»

    «Lei cos’ha fatto in questi anni?»

    Huber scosse le spalle.

    «Cosa vuole che abbia fatto? Ho lavorato. Mia moglie era morta, mia figlia si era sposata.»

    «Le ha raccontato qualcosa degli anni in Italia?»

    «Le ho raccontato che ero un poliziotto. Cos’altro dovevo dirle? E lei?»

    «Anch’io. Poliziotto. In fondo era la verità.»

    «Ha visto qualcuno dei camerati?»

    «Qualcuno. Dieter è morto. Tumore al fegato.»

    «Quel sergentaccio? Mi dispiace. Era un fanfarone e un donnaiolo, ma mi era simpatico, e il suo dovere l’ha sempre fatto.»

    «Klaus invece se la passa bene. È tornato alla sua tenuta nell’Assia. Alleva cavalli e si è sposato con una violoncellista. Tiene la bandiera con la svastica nella sala da pranzo. Ma altri non vogliono più parlare di quegli anni. Non vogliono più vedere nessuno.»

    «Erich? Ho sentito che gli è andata meglio che a Herbert.»

    «Sì, è vero. Quello se la cava sempre. È in Argentina, con altri camerati. Lì non li tocca più nessuno.»

    Un sottile filo d’aria percorreva la galleria. La dolce primavera sembrava lontana come la vita della capitale. Ora anche la sigaretta di Wibbek era spenta. Huber sobbalzò.

    «Cosa c’è?»

    «L’ho visto anch’io. Qualcosa che si muoveva.»

    I due uomini erano in piedi e si guardavano intorno, cercando di scrutare il fondo nero della catacomba. Guardarono gli orologi.

    «Andiamo. È tardi.»

    «E il nostro uomo?»

    «Peggio per lui. Peggio per loro.»

    «Aspettiamo ancora un po’. Gli italiani sono sempre in ritardo. È una loro caratteristica.»

    «Come cambiare schieramento quando le cose si mettono male.»

    Ora non c’erano dubbi. Sagome dalla forma vagamente umana avanzavano nelle gallerie e venivano verso di loro, il passo barcollante e il respiro ansimante. Il professore e il dottore si guardarono in faccia come per accertarsi di vedere la stessa cosa. Senza essersi scambiati una parola, avevano tirato fuori le pistole Walther P 38 da sotto i soprabiti. Aspettarono fino al momento di vedere le occhiaie delle mummie che sembravano fissarli. Huber indicò la direzione opposta a quella da cui arrivavano le mummie, poi si misero a correre. Svoltarono una volta, poi un’altra, poi si fermarono e si guardarono indietro.

    «Da questa parte si esce?»

    «Certo. Dobbiamo solo stare sempre sulla destra. Siamo sotto la via Flaminia.»

    I proiettili lacerarono bende, sfracellarono ossa vecchie di secoli e strapparono frammenti alle pareti. Ma le mummie non interruppero il loro avanzare. Ora le occhiaie vuote fissavano le loro vittime. Le mani adunche si tendevano, le unghie spezzate e annerite.

    In quel momento il dottore sentì la lama penetrare nel fianco. Il dolore lancinante lo paralizzò, ma riuscì a voltarsi per vedere in faccia il suo assalitore. Era un uomo con i baffetti, il volto parzialmente coperto dalla tesa abbassata del cappello di feltro. Con uno sforzo immane riuscì a pronunciare il nome del suo compagno, poi lo vide steso a terra, gli occhi fissi e vuoti e un pugnale nella gola. Accanto al professore era accovacciato un altro uomo, di cui non vedeva il volto. Il dottore si stava domandando chi fossero, quando arrivò la seconda pugnalata, questa volta alla gola, e tutto sparì.

    L’agente segreto Guglielmo Garofalo estrasse il pugnale dal corpo del professore e lo ripulì dal sangue strofinandolo con un panno, prima da una parte, poi dall’altra.

    «I crucchi sono sistemati.»

    Anche l’agente segreto Ruggiero Morelli era armato di pugnale. I leggeri impermeabili lunghi fin quasi ai piedi conferivano loro un aspetto solenne, i cappelli di feltro nascondevano quasi del tutto i volti. Garofalo si lisciò i baffetti.

    «Credevo sarebbe stato più difficile. Hanno cercato di scappare e ci sono venuti incontro. Chissà cosa hanno visto o creduto di vedere. Ma cosa diavolo gridavano?»

    Morelli ripose il pugnale.

    «Che ne so? Qualcosa nella loro lingua del cazzo.»

    «Sembravano terrorizzati da qualcosa. Non credo che fossimo noi. Ho sentito dire…» esitò come temesse di dire una sciocchezza «che centinaia di carcasse umane in decomposizione emettono dei gas che possono provocare allucinazioni terrificanti…»

    «Sì, addirittura! E i fantasmi dove li metti?»

    «Dico sul serio. Non si è mai accertato perché qui di solito non viene mai nessuno.»

    Morelli si guardò intorno.

    «Bene, motivo in più per andarcene, prima di vedere i fantasmi anche noi, ora che abbiamo fatto quello che dovevamo. Un posto allegro non lo è di sicuro.»

    Garofalo e Morelli afferrarono i due cadaveri, li trascinarono per alcuni metri e li issarono dentro una nicchia della parete di tufo. Dovettero faticare e sbuffare per incastrarli a forza tra le mummie che già vi si trovavano, indifferenti ai conflitti e alle passioni dei viventi. Poi i due agenti fecero un passo indietro e osservarono la loro opera.

    «Perfetto. Non possono lamentarsi di non essere in buona compagnia. Li troveranno tra qualche secolo se va bene.»

    Poco dopo i due agenti erano all’aria aperta e s’incamminarono senza fretta tra le forme massicce e mute dell’antica gloria. I puntini luminosi sullo sfondo della notte continuavano a indicare la città moderna ora addormentata.

    «Credevano di essere furbi, ma al dossier Kraken qualcuno più in alto di noi e di loro è arrivato prima, la trattativa è avvenuta e si è conclusa quando ancora si sparava. C’è costato caro ma ne valeva la pena. Con tanti saluti per il camerata Kappler.»

    «Quindi non ce ne occupiamo più?»

    «Ora le priorità sono cambiate. Abbiamo dovuto inghiottire il trattato di pace che ci toglie tutte le colonie, anche quelle di prima del fascismo, e ci obbliga a consegnare Rodi e il Dodecaneso alla Grecia invece di ringraziarci, noi che li abbiamo liberati dai turchi.»

    «Sì, ho letto. De Gasperi a Parigi più di così non poteva fare. Noi siamo i perdenti, mica potevamo riprendere la guerra conciati come siamo. I nostri politici possono brontolare quanto vogliono, ma il trattato alla fine lo firmeranno. Ora bisogna guardare avanti.»

    Guglielmo Garofalo e Ruggiero Morelli avevano partecipato all’ultima fase della guerra al servizio del re senza conoscersi, come tenenti uno in fanteria e l’altro in artiglieria. Quando le ostilità erano cessate avevano cominciato a pensare alla loro nuova vita ma, prima che potessero decidere, avevano ricevuto uno strano invito. Si erano visti per la prima volta in una stanza spoglia della caserma di Forte Braschi, nel quartiere Trionfale di Roma, insieme a una trentina di altri ex ufficiali e sottufficiali disorientati e curiosi quanto loro. Intorno alla caserma si stendevano i campi incolti e, sullo sfondo, alcune case diroccate ricordavano gli ancora recenti bombardamenti. Il traffico era scarsissimo e i mezzi pubblici non ci arrivavano.

    Nella stanza era entrato un uomo in divisa con i gradi di colonnello che li aveva invitati a sedere e aveva cominciato a spiegare. L’Italia era un paese sconfitto e non poteva avere un servizio segreto dopo lo scioglimento del Sim, il servizio segreto fascista, almeno fino alla definizione di tutte le questioni politiche e militari in sospeso. Fino a quel momento, per tutti i problemi concernenti la sicurezza interna ed esterna, gli italiani dovevano dipendere dagli americani e dagli inglesi. Ma alcuni alti gradi delle forze armate avevano valutato che gli interessi dell’Italia richiedessero alcune operazioni fuori dalle leggi e dalle regole, e che qualcuno dotato di amor di patria eseguisse queste operazioni. Tutti credevano che fosse iniziata la pace, e invece erano entrati in una nuova fase che si chiamava guerra fredda per la quale serviva una specie di servizio super-segreto, all’insaputa sia del parlamento che degli alleati.

    Gli uomini presenti in quella stanza erano stati scelti per farne parte. Se avessero accettato non avrebbero ricevuto alcun riconoscimento, se non forse tra molti anni, e in caso d’incidente o imprevisto gli alti gradi avrebbero negato di conoscerli. Erano liberi di rifiutare, nel qual caso non dovevano fare altro che dimenticarsi di quell’incontro di cui comunque non sarebbe rimasta alcuna traccia scritta. Erano già stati riorganizzati i settori tecnici di crittografia e fotolitografia.

    Garofalo aveva alzato la mano e aveva chiesto cosa ne pensasse sua maestà, dal momento che si parlava insistentemente di fine della monarchia e avvento della repubblica. Il colonnello aveva risposto che avrebbero operato al servizio dell’Italia e non dei Savoia, quindi un eventuale rivolgimento istituzionale sarebbe stato per loro privo di significato. Garofalo e Morelli avevano accettato, e quella notte avevano eseguito insieme la loro prima operazione.

    4

    Renato Gallerano cominciava a perdere la pazienza, e lo disse a sua madre che allargò le braccia. Carolina stava finendo di apparecchiare la tavola per i parenti che tra poco sarebbero arrivati.

    «Lo sai com’è fatto tuo padre. È tanto caro e affettuoso, ma in cucina deve fare come vuole lui. Già quando eravamo giovani, doveva andare lui al mercato per controllare i peperoni uno per uno e passava le ore davanti alle pentole. Diceva che era l’unica cosa che lo rilassava dopo il lavoro.»

    Renato sorrise indulgente e guardò sua moglie, ospite in quella domenica di sole nella casetta di campagna con il cancelletto e l’orto. Le colline verdi si stagliavano subito di là dalle poche case che costituivano il paese di Camporotondo, alcune molto vecchie con le pietre e i tronchi a vista. La famiglia Gallerano vi si era rifugiata durante i bombardamenti, anche se poi vi si era trovata bene e aveva fatto amicizia con i paesani e, quando le bombe avevano smesso di cadere, aveva comprato la casetta.

    «Va bene, gli parlo io» disse Carolina, avvicinandosi. «Tra poco gli zii saranno qui e non abbiamo ancora messo in tavola.»

    La signora Clotilde si preoccupò. «Mi raccomando, figlia mia...»

    «Tranquilla, signora» disse Carolina. «Ormai lo conosco e so come prenderlo. E poi non mi dispiacerebbe imparare qualcosa anch’io.»

    Carolina socchiuse la porta della cucina, guardò ed entrò. La signora Clotilde e suo figlio sedettero alla tavola dove i piatti, le posate e i bicchieri erano in perfetto ordine sulla tovaglia candida. L’orologio a pendola indicava mezzogiorno.

    «Siamo alle solite» sbottò il giovanotto. «La guerra è finita e se Dio vuole possiamo permetterci qualcosa di più, e soprattutto possiamo perderci meno tempo.»

    La signora ormai stava seguendo il filo del suo ricordo.

    «Per fortuna gli amici di Amilcare ci hanno aiutato e non ci è mai mancato l’essenziale. Quando uno sa fare bene il suo lavoro si fa stimare e trova aiuto in caso di necessità, anche dopo quando la guerra è finita. Invece di lamentarti pensa a quelli cui è andata peggio.»

    Appena entrata, Carolina capì che la situazione non era poi disastrosa. Amilcare, con le maniche della camicia rimboccate e il grembiule legato alla vita, stava raccogliendo una per una le tagliatelle allineate sull’asse di legno cosparsa di farina. L’uomo di mezza età, con i capelli grigi e il volto scavato, aveva trascorso la mattina a girare la manovella della macchinetta per ottenere le tagliatelle dalla pasta all’uovo che aveva scelto e comprato personalmente. La pentola piena d’acqua sul fuoco sembrava vicina al punto di ebollizione, e accanto a essa soffriggeva la pentola più piccola con il sugo di pomodoro, ragù e piselli. Amilcare si volse sorridendo alla nuora che si era avvicinata.

    «Tutto bene di là?»

    Carolina gli toccò affettuosa un braccio e gli sussurrò all’orecchio: «Hanno fame».

    «Mio figlio, ci scommetto. Clotilde è abituata al mio modo di fare, anche perché poi gusta la mia opera.»

    La giovane donna portò alla bocca una tagliatella e cominciò a masticarla con gusto.

    «Ehi! Quelle devono andare in tavola!»

    «Ma non sono mica contate!» ribatté Carolina, poi fissò l’uomo e aggiunse: «O forse sì che le ha contate, ci scommetterei».

    «Almeno si renda utile, signorina, e cominci a metterle nella pentola, se non ha paura di scottarsi le manine, mentre io controllo il sugo.»

    La giovane donna non aveva paura e si diede subito da fare, mentre Amilcare si era avvicinato alla pentola più piccola e aveva cominciato a girare con un cucchiaio di legno. Poi portò il cucchiaio alla bocca, chiuse gli occhi, masticò e annuì soddisfatto. Il più era fatto. L’uomo e la donna sedettero su due sedie impagliate.

    «Stento a crederci.»

    «A cosa?»

    «Che le cose comincino ad andare meglio. Il dopoguerra è stato duro quasi quanto la guerra. Non c’erano più le bombe, ma non c’era più nulla e tutto era oscuro.»

    «Vero. Renato l’hanno promosso nell’ufficio studi della sua fabbrica, e il padrone del negozio dove faccio la commessa é soddisfatto e paga regolare.»

    «Mi raccomando…» disse Amilcare. «Finché ci riuscite vivete con un solo

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