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Attraverso le vostre ombre
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E-book318 pagine4 ore

Attraverso le vostre ombre

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Info su questo ebook

Sullo sfondo della grande storia del Novecento si innesta una “piccola storia” che vede protagoniste donne di generazioni diverse, Prudenza, Emiliana, Marta e infine Elisa: è quest’ultima, bambina ai tempi della seconda guerra mondiale, che ricostruisce la saga famigliare intraprendendo un viaggio alla scoperta di sé, interrogandosi su quanto le azioni compiute in passato e le grandi donne della sua famiglia possano aver influito sulla sua personalità, arrivando così ad accettarsi e a ritrovare quell’equilibrio che la ricerca di un affetto negato sembrava avere compromesso.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2021
ISBN9788855391511
Attraverso le vostre ombre

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    Anteprima del libro

    Attraverso le vostre ombre - Gemma Piazzardi

    Prologo

    Uscì nella sera di novembre e, per la prima volta, dopo tanto tempo, intravide una luce di speranza, non prossima, ma esisteva, era ben chiara.

    «Io la aiuterò, io la salverò, abbia fiducia in me, ne verrà fuori, otto mesi, un anno al massimo. Ho temuto, al principio, che lei fosse ammalata molto più gravemente e allora avrei detto: Posso far poco per lei, solo darle dei tranquillanti, farla ricoverare in una clinica. Invece, per fortuna, potrà ritrovare il gusto dell’esistere, tornare quella che era

    «Che ero, aveva detto, incredula, e quando? Dieci, venti, trent’anni fa? Avvilita e disperata come sono oggi?»

    «Che lei sia avvilita, lo credo, disperata del tutto, lei non sarà mai, naviga nel mare dell’essere come un sughero, quando non ce la fa più è perché il sughero è trattenuto da un’alga o da un sasso ma poi ne viene fuori sempre...»

    «Non lo so, ora sono davvero a pezzi...»

    «Non più delle altre volte, è la stessa cosa, lei si trova in una profonda crisi esistenziale e crede che la sua vita sia inutile.»

    «Se la mia vita avesse un significato, non starei così male.»

    «Forse, non lo so: lei sta male come tutti quelli della nostra generazione che pensano, siamo gli ultimi dei Mohicani, non ci ha mai riflettuto? Gli ultimi dell’adolescenza senza televisione, senza computer, gli ultimi che hanno letto dei libri. Siamo la retroguardia di un esercito che ha perso, non ci si può chiedere di star bene.»

    «Lei sta bene.»

    «Forse, ma solo perché sono costituzionalmente più forte, altrimenti, magari, sarei come lei.»

    «Conosco anche persone serene, soddisfatte, eppure sono della nostra generazione.»

    «Certo, sono i ragionieri della vita, hanno pianificato tutto e, quando è venuta loro l’ombra di un dubbio, l’hanno accuratamente uccisa, come vuole che non siano sereni nel loro navigare senza coraggio? Credono di essere felici e non c’è niente di meglio della propria convinzione per suggestionarsi. Lei vorrebbe essere come loro?»

    «Non lo so.»

    «Glielo dico io, non vorrebbe, avrebbe desiderato essere appagata da alcune scelte che ha fatto, non ne avrebbe voluto altre. Comunque lei uscirà di qui guarita e senza la necessità di psicofarmaci. Comincerà a ricostruirmi la sua vita di cinque anni in cinque anni, ha quasi quarant’anni, occorreranno otto puntate, chiamiamole così, ma non indulga a nessuna ambizione letteraria. Scriva l’essenziale e non lasci in giro ciò che scrive per qualcun altro, sarebbe scorretto nei confronti del lavoro che dobbiamo fare per irrobustire la sua psiche, per eliminare ciò che la fa soffrire. Ci vedremo appena avrà scritto la sua prima puntata, tra quindici giorni, è questo il tempo che le serve, può cominciare subito.»

    Elisa se n’era andata con fiducia, ancora con quel gran peso che la opprimeva da tanto, ma non sarebbe stato così per sempre. Aveva cominciato a pensare, a ricostruire, ma le accadeva una cosa strana: non riusciva a restare sola, quanto più riviveva la sua storia personale, tanto più essa si affollava non solo di persone conosciute ma di altre di cui serbava un vaghissimo ricordo, o addirittura tracce attraverso ricordi non suoi, poiché non c’eran più da lungo tempo quando lei era nata.

    Queste figure non la lasciavano, dicevano con forza:

    «Ci siamo anche noi, tu sei il prodotto, il risultato delle nostre vite, saresti diversa se noi lo fossimo state e se qualcuna di noi non fosse stata problematica, tu non lo saresti».

    La circondavano, riempivano la sua mente, volevano un posto sul palcoscenico, non volevano più dormire nella polvere e allora Elisa scrisse due storie, una per guarire, una per richiamare in vita queste ombre ch’eran stati uomini e donne longobardi di pelle chiara e occhi azzurri e piemontesi bruni e decisi. Elisa faticava a immaginarle contemporanee ed erano tante, era difficile restituire a tutte un corpo e un cuore e parlare di loro seguendo una lama di luce, un ritratto, una fisionomia, un racconto, un modo di dire, un proverbio che forse erano appartenuti a tutti ma sembravano caratterizzare solo loro.

    Cominciò con la famiglia della nonna materna di cui aveva sulla scrivania il ritratto da ragazza.

    Ricordò quando la nonna raccontava e i fantasmi tornavano vivi sullo sfondo delle tonde colline che non avevan quasi nome e che dividevano tre stati, Lombardo-Veneto, Regno di Piemonte e Ducato di Parma e Piacenza.

    Pontecurone 1840

    Era una giornata di luglio, soffocante, senza un alito di vento, il grano già mietuto, i filari delle viti con grappoli verdi.

    Dietro un filare, a sei chilometri dal confine, due uomini, uno giovane, vent’anni, Agostino, l’altro maturo, Tarcisio, contrabbandieri di sale.

    Agostino guardava il cielo limpido: «Sento che qualcosa non va, oggi».

    «Cosa?»

    «Ho visto giù al paese dei gendarmi, mi hanno guardato, mi hanno seguito.»

    «E tu allora dove sei andato?»

    «Da Maddalena, ho comprato del pane.»

    «E loro?»

    «Sono tornati indietro.»

    «Vedi, quindi, che di pericolo non ce n’è! Non sanno quello che facciamo.»

    Un calabrone ronzava insistente intorno alla bella testa grigia di Tarcisio e lui lo scacciò con fastidio:

    «Questi martini non la smettono mai, mio cognato è morto per una delle loro punture. No, credimi, non sanno niente, anche se forse ci siamo troppo esposti l’ultima volta, ma eravamo già lontani... Poi, è stato tre mesi fa... magari non sono neanche gli stessi gendarmi, li cambiano sempre al confine, dobbiamo solo essere prudenti, li abbiamo presi in giro per troppo tempo.»

    «Lo stato perde tanti soldi a causa nostra.»

    «E la gente ci guadagna, dimmi tu, cosa è più utile? E poi di che stato siamo noi? Ce ne son tre in pochi chilometri: Piemonte, Parma, Austria; se nascevamo un po’ più in là potevamo essere del Lombardo-Veneto. Fare il contrabbandiere di sale, non è peccato, Agostino.»

    «Sei sicuro?»

    «Sicurissimo, bisogna ben vivere e non trasportiamo oro ma solo quel che serve per mangiare, in Piemonte di sale ce n’è fin che se ne vuole, in Lombardia ne hanno poco, perché non approfittarne? Io devo farlo finché posso, ho quasi cinquant’anni, tra poco non potrò più correre e attraversare i torrenti ghiacciati d’inverno, ma devo almeno aspettare che i figli crescano, non mi possono dare una mano e il grano è poco, la meliga meno ancora.»

    «Allora se devi per forza continuare, devi cambiare, Tarcisio: quando li vediamo, bisogna scappare e basta, niente sberleffi, te la fanno pagare quando ti prendono.»

    «Ma non mi prendono! Aspettiamo la notte, qui nessuno ci vede.»

    «Siamo d’accordo con gli altri, alle tre oltre il passo.»

    «Dormiamo adesso, la strada è lunga, le bisacce sembrano più pesanti questa volta, quanti chili sono?»

    «Un quintale, cinquanta ciascuno, ne han dato di più perché hanno paura di non poterlo più dare per un po’. La sorveglianza è raddoppiata, controllano fin le vasche sui tetti...»

    Restarono sdraiati senza parlare, il calabrone se n’era andato da un pezzo, il sole abbagliante del pomeriggio stava diventando rosa. Agostino, socchiudendo gli occhi nell’ultima luce, mormorò:

    «Perché lo fai, Tarcisio?»

    «Per mangiare, no? Che domande fai? Ho sei figli e neanche una bestia nella stalla.»

    «Non dico il contrabbando del sale, il resto...»

    «Ah, il resto? Perché mi diverte, perché se no la vita è senza senso, se tu non ci cerchi il ricciolo, che tu sia ricco o povero non vuol dire, ma come la carne senza sale non sa di niente, così la vita, non puoi pensare che sia solo nascita, matrimonio, figli e morte, bisogna chiederle qualche altra cosa, se no meglio non nascere...»

    «Ma se ti prendono la condanna è più grave.»

    «Che discorsi fai oggi, Agostino! Lo fai anche tu e ti diverti come me...»

    «Sì ma io ho vent’anni, non ho famiglia, metto di mezzo solo me.»

    «E anch’io, c’è sempre una soluzione per gli altri, il contrabbando lo faccio per loro, perché non soffrano la fame, ma il divertimento è solo mio, l’unica cosa che mi prendo.»

    «Non so perché, ma ho paura, Tarcisio!»

    «Va’, non pensarci, è il caldo e poi per parecchi mesi non lo faremo più, i soldi ci basteranno fino a ottobre.»

    La notte era caduta senza che quasi se n’accorgessero; le foglie delle viti parevan nere, Giuseppe si alzò:

    «Dai, carica la roba, c’è tanta strada».

    Si aiutarono a vicenda, si assestarono le bisacce con le cinghie e s’incamminarono con passo deciso, c’era solo un angolo di luna sulle colline.

    Camminarono due ore senza fermarsi, senza sentire fatica, arrivarono al torrente, era in piena per i temporali dei giorni precedenti, entrarono nell’acqua fino a metà coscia, la parte inferiore delle bisacce si bagnò e sembrò più pesante.

    Erano a metà del guado e stavano in equilibrio sulla melma scivolosa quando sentirono il galoppo sulla riva che avevano lasciato.

    Agostino mormorò:

    «Sono loro, ci hanno seguito, lasciamo il carico e cerchiamo di arrivare alla sponda.»

    «Non si può, saremmo rovinati, l’abbiamo pagato caro questo sale, ce la faremo anche questa volta!»

    «No, questa volta no, sono troppo vicini, me la sentivo che andava male!»

    «Taci, murì! Ti dico che ce la facciamo, va’ come se niente fosse, hai capito?»

    Dalla riva un gendarme gridava:

    «Sfrosadü, sfrosadü, fermatevi o sparo!»

    Tarcisio e Agostino, erano già quasi fuori del torrente, già quasi in Lombardia, già quasi salvi, ma, ancora una volta, Tarcisio si sentì preso dal gusto dell’avventura, del divertimento e si voltò indietro, appoggiò il pollice alla punta del naso e sventagliò la mano in un gesto di scherno:

    «Marameo, prepusè, Marameo! Te l’ho fatta anche questa volta, prepusè!»

    In quel momento il gendarme sparò, Tarcisio fu preso in pieno, cadde e fu trascinato via dall’acqua.

    Agostino gridò:

    «Disgraziati, l’avete ammazzato!»

    Si tirò fuori dal torrente in salvo, i gendarmi non spararono più, era ormai sulla sponda Lombarda, si sedette e scoppiò in lacrime.

    «Cosa faccio adesso senza di te, Tarcisio? Cosa faccio di tutto questo sale, cosa faccio senza il ricciolo della vita?»

    Casale Monferrato, 1855

    Il capitano Gaudenzi uscì dalla caserma a passo fermo. Era un uomo robusto, alto, con gli occhi scuri ed espressivi, camminò senza fermarsi fino a casa, entrò in un bel palazzo della piazza principale.

    Picchiò il batocchio e la domestica aprì: «Ciao, Celestina! È in casa la Signora?»

    «Sì, è in casa, l’aspetta, ha aspettato tutto il giorno.»

    «Non sono potuto venire a pranzo.»

    «Avevamo preparato la bagna cauda.»

    «La mangiamo stasera, Celestina, con i cardi.»

    Salì al piano di sopra dove lo aspettava sua moglie, una donna esile, bruna, con un profilo delicato.

    Lei mormorò:

    «Allora?»

    «Allora parto, vado in Crimea.»

    Lei lo guardò con i larghi occhi umidi:

    «Sarebbe stato possibile non partire?»

    «Forse, non so, non ho chiesto, i bersaglieri partono, parto anch’io, non so se si poteva restare. Qualcuno lo ha chiesto... ma io...»

    «Tu non hai figli, non è vero?»

    «Infatti, noi non abbiamo figli.»

    Lei si tormentò le mani che aveva bellissime: «Ed è colpa mia, no?»

    «Abbiamo fatto questo discorso tante volte, Clara... Non so di chi è la colpa ma so che noi non ci amiamo più.»

    «Tu non mi ami più, a me non l’hai chiesto.»

    «Tu non vai bene per me, Clara, non ridi mai, questa è una casa triste.»

    «È diventata triste, io con i miei fratelli, a Bologna, scherzavo e ridevo.»

    «E con me non ridi più. Lo vedi che mi accusi un’altra volta?»

    «Non è accusarti il riconoscere la verità!»

    «Non so che farmene della tua verità.»

    Lei guardava fuori dalla finestra con le tende di velluto rosso sangue di bue e si sforzava di trattenere le lacrime, no, non voleva che lui la vedesse piangere, avrebbe pianto dopo, nella lunga assenza. Sentiva il cuore torcersi, ridursi a un brandello, a uno di quegli stracci che Celestina gettava nella cenere calda per pulirli e, il più delle volte, uscivano laceri.

    Non voleva che lui capisse quanto lo amava ancora, dopo le liti, le incomprensioni, il muro invalicabile che s’era alzato fra di loro.

    «Sarai libera, naturalmente. Sei abbastanza ricca per fare ciò che vuoi. Puoi restare a Casale o tornare a Bologna, non devi sentirti obbligata ad aspettarmi, non so nemmeno se tornerò. In guerra non lo sai mai.»

    «Ma è assurdo partire! Andate solo per far vedere che il Piemonte esiste e combatte a fianco della Turchia per motivi che non vi riguardano...»

    «Lo so, Clara, ma parto lo stesso.»

    «Parti per non restare solo con me?»

    «Anche, ma non solo per questo, le circostanze hanno deciso per noi.»

    Lei voleva parlare, ma non le uscì una sillaba, avrebbe voluto dire:

    «Io ti amerò tutta la vita anche se non vai bene per me, non andasti mai bene per me».

    Si trattenne con forza, era pur sempre una Della Rocchetta, di nascita ben più nobile di quell’uomo che l’abbandonava. Ciò non le aveva impedito di attaccarsi a lui come una pianta che si abbarbica su un muro estraneo.

    Pensò che ne avrebbe rimpianto il corpo, aveva conosciuto solo lui, non ne avrebbe rimpianto il cuore, sapeva che avrebbe sofferto ma forse non più che in quegli ultimi anni.

    Sarò ugualmente, anche se tornerà, come una vedova, la vedova di un uomo vivo che non mi ha mai capito.

    Rifletté su ciò che li aveva divisi, niente d’importante al principio, qualcosa d’irrimediabile alla fine, che le bruciava ancora sulla pelle, ma nell’errore era stata lei; non lui, lei che aveva preteso dall’istituzione, il matrimonio, l’amore, senza accontentarsi di recitare una commedia ben costruita.

    Lui sentiva il peso dei suoi modi raffinati, delle sue letture e aveva avuto un figlio da una serva che viveva ad Asti e che si limitava a mantenere e Clara sapeva perché aveva scelto quella donna dalla bellezza grezza, perché con lei non era mai messo in discussione, era il valoroso capitano Gaudenzi del V Reggimento Bersaglieri di Piemonte.

    Immaginò i lunghi giorni vuoti che l’attendevano senza neppur sperare che tornasse, tanto non sarebbe tornato per lei, neanche per l’altra, era ben provvisto di sano egoismo maschile che in lui faceva tutt’uno col suo corpo.

    Si guardò le mani, le unghie conficcate avevano disegnato sulle palme dieci mezzelune di sangue.

    «Dirò a Celestina di prepararti il bagaglio. Quando parti?»

    «Il 14 aprile, tra dieci giorni.»

    Lei uscì dalla stanza, aveva un abito di seta grigia e un davantino di pizzo. Lui apprezzò la figura sottile, la testa elegante, i capelli nerissimi e volle, per un momento, tornare indietro, ma si rese conto che era inutile, era troppo tardi, meglio troncar di netto ricordi e rimpianti.

    In Crimea era caldo quando arrivarono, fu una guerra rapida ma spaventosa. Il V Bersaglieri subì gravissime perdite ma resistette e vinse alla Cernaia. Molti morirono di cancrena e colera, ufficiali e soldati che Gaudenzi conosceva di Asti, Pinerolo, Alessandria, Casale e quando sapeva che non c’eran più gli pareva che morisse un prato, un leccio, un torrente del Piemonte. Uno degli ultimi giorni, il 15 agosto, pensavano già di aver vinto, i Russi li accerchiarono in un numero spropositato, erano come formiche che non finivano più di uscire dal loro formicaio.

    Gaudenzi vide un russo sopra di sé, alto, biondo, cercò di difendersi con la sciabola, l’altro gli calò la sua di piatto sulla testa, svenne, riprese conoscenza solo una settimana dopo in infermeria.

    Non si rendeva conto di ciò che era successo e ci mise molto tempo a riprendersi, non tornò mai a essere quello che era stato e aveva solo trentacinque anni.

    Ciò che era accaduto gli sembrava avesse la consistenza di un sogno, i ricordi della battaglia erano scomparsi, aveva voglia di tornare a casa e di rivedere Clara, sua moglie.

    Avrebbero ricominciato da capo, c’era sempre tempo per cambiare, desiderava, anche fisicamente, sua moglie, avrebbe risposto alla muta domanda dei suoi occhi:

    «Amami, amami, ti prego!»

    Ora sì l’avrebbe amata come lei voleva, la carne marcia di Trakir e di Gorgium gli aveva fatto capire cosa contava nella vita, anche nella vita di un soldato. Lei non gli aveva mai scritto, erano rimasti d’accordo così, inutile prolungare un rapporto che credevano solo formale. Non si era neppur chiesto, alla partenza, cosa avrebbe fatto al ritorno, forse non credeva di tornare.

    Quando arrivò, nel giugno 1856, gli andò incontro Celestina col parroco, Don Peppino, e lui non capì perché.

    Come mai Clara non c’era? Sì, lui l’aveva lasciata libera di tornare a Bologna ma non era sicuro che lo avrebbe fatto, lui era pur sempre suo marito, era passato appena un anno, era impossibile che non volesse rivederlo.

    Salutò Celestina:

    «Ciao Celestina, hai visto, son tornato, sto bene ora. La Signora dov’è? Mi aspetta a casa?»

    Celestina restò muta, Don Peppino gli si avvicinò:

    «Bisogna accettare la volontà del Signore, Donna Clara è morta sei mesi dopo la sua partenza, in ottobre, un raffreddore trascurato, divenuto polmonite. È morta in poco tempo, non ha sofferto molto. Lei deve farsi forza».

    A Gaudenzi sembrò che, di nuovo, il russo gli scagliasse la sciabola sulla testa, rimase intontito, senza nessuna reazione.

    «E nessuno mi ha informato?»

    «Donna Clara non ha voluto, ha proibito ai suoi parenti di scriverle, non voleva dar pena a lei che combatteva, un’anima santa!»

    Il capitano sentì il peso del dolore di Clara, trasformatosi nella sua vendetta, neppure la sua morte aveva voluto ch’egli conoscesse, lo allontanava per sempre da lei ed era morta senza sapere che lui aveva riscoperto di amarla.

    Don Peppino lo guardava con comprensione, il capitano sembrava distrutto, sconvolto, eppure a Casale sapevano che non andavano d’accordo e che lei era sempre sola.

    Ripeté:

    «Accetti la volontà di Dio. È morta serena». Poi aggiunse:

    «Se le fa piacere, verrò qualche volta da lei, finché non starà meglio».

    Don Peppino tornò spesso nel palazzo di Casale troppo grande, troppo vuoto, sembrava impossibile che una donna esile come Clara vi avesse occupato tanto posto. Venne al palazzo di un bel rococò fiorito anche la donna di Asti, ma il capitano non volle vederla, le fece dare del denaro per il figlio.

    Si accorse che non migliorava, anzi peggiorava di giorno in giorno, la testa gli doleva sempre più, eppure, prima di arrivare in Italia, il dolore era quasi scomparso.

    Ora aveva fitte lancinanti che gli toglievano conoscenza e memoria, Don Peppino era sempre lì con panni profumati di lavanda che gli appoggiava alla fronte e consolanti discorsi.

    Il capitano capì che non sarebbe guarito, anzi che forse sarebbe morto, ciò che accadde di lì a poco.

    Negli ultimi giorni della sua vita lasciò a Don Peppino tutto ciò che possedeva, il denaro, il palazzo per le opere pie.

    Gli sembrava, in quei momenti, che solo la voce di Don Peppino potesse allontanarlo dal rimorso di aver amato così male sua moglie che lei non se n’era neanche accorta.

    Don Peppino alle opere pie non devolvette proprio nulla e tenne tutto per sé.

    A Borgoratto, vicino ad Alessandria, il capitano aveva un fratello, molto più giovane di lui, non ancora sposato ma che avrebbe avuto cinque figli.

    Era possidente e mercante di cavalli ed era lui l’erede del capitano che, nel suo desiderio di espiazione, non lo ricordò né con un lascito né con una parola.

    In quel momento il fratello non aveva bisogno di denaro, era largamente benestante, gli spiacque solo un po’ per il palazzo ma accettò la decisione del capitano.

    Cadde però poi in bassa fortuna e allora il rimpianto della perdita si fece acuto, si raccontò che Don Peppino avesse promesso il Paradiso al capitano ma era una di quelle leggende che nascono nelle famiglie, il capitano non aveva bisogno di nessuna promessa, il suo Paradiso e il suo Inferno li aveva già dentro di sé.

    Nei momenti difficili i suoi nipoti e bisnipoti avrebbero poi sempre detto:

    «Ah, se avessimo quel palazzo di Casale!»

    Anche Elisa avrebbe sentito sua madre ripetere quella frase. Non conosceva il palazzo, sapeva solo che era il più bello della piazza principale, ignorava cosa ne avessero fatto il prete o gli eredi del prete. Aveva visto il ritratto della prozia Clara in una mostra importante: grandeggiava su una parete, uno dei nipoti del capitano era divenuto un pittore celebre e già da anni aveva raggiunto la zia Clara. Da una miniatura di lei aveva dipinto il ritratto: un delicato profilo, occhi malinconici, un po’ sdegnosi, boccole d’oro alle orecchie, un davantino di pizzo, le mani intrecciate.

    Elisa s’era chiesta:

    «È da te che ho preso questo orgoglio, l’orgoglio con cui proibisti di comunicare a tuo marito la tua morte? Ed anche questa incontrollata possibilità di sofferenza? Da chi altri?»

    Ranzi 1910

    Prudenza sali sulla sedia e sistemò meglio la frasca che indicava l’osteria e poi scese sospirando. Quel giorno solo due persone avevano mangiato il pancotto per pochi soldi e s’era già d’autunno, la vendemmia era finita dappertutto e, con lei, quel viavai di forestieri e ragazzotti a giornata che erano clienti dell’osteria.

    Si passò una mano sulla fronte:

    «Devo trovare una soluzione! Mio marito non si rende conto che quest’anno, d’inverno, moriremo di fame, l’osteria non ce la fa a mantenere sette figlie. Devo vedere cosa posso fare, a Natale non avremo neanche una gallina in sette, anzi in nove. Che rabbia, mi mancano sempre diciannove soldi a fare una lira!»

    Alzò il pugno contro le foglie pendule della frasca:

    «Ci vorrebbe iniziativa, avessi un uomo come dico io! Invece è un pezzo di pane ma è solo questo... ah, perché non ho sposato un altro! La testa dovevo tagliarmi, invece di scegliere lui!»

    Si ricordò giovinetta nei balli sull’aia, col vestito della festa di cotonina a quadretti rosa e un ampio volant che si era cucita di notte da sola perché di giorno ogni ora era occupata nel lavoro dei campi. Gli uomini la guardavano, giovani, vecchi, di mezz’età.

    Piacevano a tutti i suoi occhi ironici e la bocca pronta al sorriso e al comando e quando, danzando, passava vicino a qualcuno appoggiato al muretto dell’aia, le sue gambe avevano un guizzo improvviso e il volant sfarfallava come una vela o una bandiera e provocava più di una promessa o di un invito.

    Si era sposata troppo presto, ecco, neanche quindici anni e ora ne aveva trentacinque e nessuna pesantezza delle donne della sua età, già vecchie, distrutte dal lavoro e dalle gravidanze, ma a che le serviva essere rimasta giovane? A morire di fame e basta.

    Alla sua età, si conosceva bene: sapeva di avere l’occhio lungo, buttato al futuro e solo il destino l’aveva chiusa in una dimensione tanto modesta. Era abile, pratica, sapeva sempre riconoscere l’aspetto redditizio di un affare e la sua disgrazia era che, in quelle colline, di affari non se ne potevano fare.

    Anche l’osteria era stata un’idea sua e quel poco che rendeva, lo si doveva a lei, alla bella ostessa dallo sguardo ardito. Suo marito faceva il calzolaio ed era un uomo onesto e preciso e non consegnava un paio di scarpe se non erano perfette e cercava il cuoio più morbido e resistente ma le ordinazioni erano rare, pochi potevano permettersi scarpe belle, da adulti ne avevano un paio solo in tutta la vita.

    Prudenza aveva anche altre qualità, sapeva sempre come trattare gli uomini, era una virtù innata che non si poteva insegnare ed eran poche, lo sapeva, le donne davvero capaci di far girare la testa a ogni uomo, una su mille? No, forse neanche una su diecimila e lei era fra quelle, ma non si era mai buttata via.

    Si era sposata nell’unico momento della sua vita in cui era stata vittima del sentimento ma, una volta assodato che suo marito non era e non sarebbe mai stato l’uomo per lei, non si era data ad altri. C’erano solo dei miserabili come loro, non sarebbe mai stato un buon affare, se ci fosse stato qualcun altro, chissà!

    Respinse stizzosamente l’idea, doveva sistemare le sette figlie, questo solo era importante, lei,

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