Costanza di Svevia: Il ritorno da regina
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In questo quadro dei Vespri Siciliani, la regina Costanza, moglie di Pietro d’Aragona, rivendica il trono di suo padre facendo emergere la forza, la tenacia e la capacità di tenere gli equilibri in un posto dove tutto scoppia facilmente come in una polveriera. Accanto a lei risaltano due figure femminili: la baronessa Macalda sua rivale anche in amore e Imelda, donna medico, una delle poche donne formate alla Scuola Medica Salernitana e vista con sospetto per le sue doti e la voglia di indipendenza.
I personaggi maschili, mossi dal desiderio di potere, sono forti e astuti, a volte mostrano debolezza, ma emerge in loro sempre il lato umano facendone nel bene e nel male uomini degni d’onore.
Una storia controversa che tocca direttamente e indirettamente tutta l’Europa, in Sicilia dove tutti bramano il potere di una zona strategica che era ed è di fondamentale importanza politica.
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Anteprima del libro
Costanza di Svevia - Chiara Curione
Curione
Costanza di Svevia
Il ritorno da regina
EEE - Edizioni Tripla E
Chiara Curione, Costanza di Svevia. Il ritorno da regina.
© Edizioni Tripla E, 2020
ISBN: 9788855391085
Collana Grande e piccola storia
, n. 19
EEE - Edizioni Tripla E
di Piera Rossotti
www.edizionitriplae.it
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.
In copertina: Costanza di Sicilia. Antonio de Holanda, creato tra il 1530 e il 1534. Archivi digitali della British Library.
A mio padre, che mi ha trasmesso la passione per la storia.
Vuoi essere felice per un istante? Vendicati
Vuoi essere felice per sempre? Perdona!
Tertulliano
Introduzione
Il romanzo di Costanza di Svevia ci riporta al periodo storico in cui scoppiò la sanguinosa guerra che durò novant’anni e cambiò il destino di Nazioni e istituzioni di grande rilievo.
I Vespri siciliani, nati da una rivolta scoppiata a Palermo il 30 marzo 1282, non furono un avvenimento vissuto esclusivamente dalla Sicilia e dagli angioini, suoi oppressori, ma furono un evento che ebbe ripercussioni in tutta l’Europa fino all’ Inghilterra: Spagna, Francia, Germania e i Paesi del vicino Oriente furono tutti coinvolti. La storia dell’area del Mediterraneo nella seconda metà del XIII secolo fu influenzata da questa tragedia, in un quadro affollato di personaggi e di luoghi in cui si combatterono numerose battaglie.
L’isola di Sicilia − in ragione della sua posizione geografica inevitabile campo di battaglia tra le forze dell’Europa e dell’Africa e possedimento irrinunciabile per chiunque volesse dominare il mondo mediterraneo − diventò con la guerra dei Vespri teatro di intrighi, ribellioni, tradimenti.
In questo quadro s’inserisce la storia di una regina che, ultima e legittima erede della casata di Svevia, spinse il marito Pietro III d’Aragona a rivendicare il trono di Sicilia, sottraendolo a Carlo d’Angiò. Tutto era cominciato con un complotto tra Bisanzio e Barcellona prima che scoppiasse la rivolta a Palermo e che i siciliani offrissero la corona a Pietro d’Aragona, suo sposo; negli anni precedenti la rivolta, la regina aveva accolto a Barcellona tutti gli esuli politici che erano stati fedeli alla casata di Svevia e che si erano ribellati al regno angioino, incrementando ogni attività diplomatica con Bisanzio e attendendo l’occasione di poter ritornare in Sicilia.
Costanza aveva un sicuro motivo di vendetta contro l’ambizioso principe Carlo d’Angiò, poiché quest’ultimo, dopo la morte in battaglia di suo padre, re Manfredi, aveva sterminato la sua famiglia uccidendo e imprigionando.
Il carattere amabile ma forte della regina, e la diplomazia di cui era capace, la guidarono a tenere il governo difficile dell’isola, dove era forte il desiderio di indipendenza dei siciliani.
Nel romanzo, Costanza è una donna che affronta vicende complicate e una guerra infinita nell’ambito della quale spesso è dibattuta tra la visione religiosa del mondo e quella politica che le si oppone in netto contrasto, costringendola a occuparsi di armamenti e approvare battaglie.
Accanto a lei emergono le figure di Macalda Scaletta e di Imelda.
Macalda Scaletta è un personaggio noto in Sicilia per essere stata una donna bellissima e anticonformista, cinica e ambiziosa, solita far ricorso al grande fascino che esercitava sugli uomini per fini politici e mire di potere. Ambiva a diventare amante dell’affascinante e valoroso re Pietro, ma pur avendo tentato in ogni modo, non riuscì mai nell’intento, ragion per cui ardeva di gelosia contro la regina e complottava a suo svantaggio.
Imelda rappresenta una delle rare donne medico dell’epoca; si tratta di un personaggio immaginario, ispiratomi dal testo Trotula il medico di Ferruccio Bertini nel libro Medioevo al Femminile, che riporta numerose fonti riguardo le Mulieres Salernitanae, donne esperte in medicina. Si tratta di testimonianze di alcune donne medico vissute a Salerno tra il XIII e XV come Abella, Francesca di Romana e Costanza Calenda; quest’ultima – grazie agli insegnamenti paterni – si laureò in medicina all’università di Napoli. Per quanto attiene alle cure operate da Imelda, nel romanzo ho attinto al testo attribuito a Trotula, Le malattie delle donne prima dopo e durante il parto. Imelda è una donna che si rifiuta di seguire le regole del tempo e preferisce vivere liberamente in un tempo in cui la libertà per la donna non sposata poteva essere solo quella della vita monacale.
Il romanzo include anche avvenimenti descritti nelle Cronache catalane del Desclot e del Muntaner dei quali sono protagonisti i personaggi maschili che hanno avuto un ruolo fondamentale nelle vicende di Costanza di Svevia, tra questi il principale è re Pietro d’Aragona.
Pietro infatti amò profondamente Costanza e ne fu ricambiato, fatto noto ai cronisti catalani dell’epoca e desunto anche dalla corrispondenza tra i due.
Gli altri personaggi maschili fondamentali sono il principe Carlo d’Angiò, detto Lo Zoppo, il quale fu fatto prigioniero durante la battaglia di Napoli. In ultimo Federico, noto per il carattere indomito degli Svevi, colui che diventò re di Sicilia, scontrandosi con il fratello Giacomo.
Costanza è riuscita a mantenere l’equilibrio in un contesto in cui tutto scoppiava come in una polveriera; donna dolce ma ostinata, alle prese con vicende familiari complicate, che viene ricordata dalla Chiesa tra i beati.
Cartine
L’Europa nel basso Medioevo
Regno di Sicilia
Prologo
Palermo, 29 marzo A.D. 1282
C’era una strana elettricità nell’aria mentre si avvicinava l’ora del vespro, e il sole diventato come sangue rosso purpureo si rifletteva sul verde delle campagne, filtrando con i suoi ultimi raggi tra i rami degli alberi e gettando ombre sui fiori di primavera.
Era giorno di festa e la gente giungeva numerosa alla periferia della città, per pregare nella chiesa dello Spirito Santo, a circa mezzo miglio a sud delle antiche mura di Palermo, come accadeva sempre ogni lunedì di Pasqua. Poco distante, gruppi di uomini e donne facevano merenda sui prati. Alcuni intonavano canti tradizionali, i giovani danzavano con le ragazze al suono di zufolo e tamburello, famiglie con bambini passeggiavano nella campagna in attesa di entrare in chiesa per la messa, quando i canti e le danze cessarono.
La ronda serale dei soldati francesi giunse disordinata e rumorosa. Alcuni soldati attraversarono i prati e senza riguardo spintonarono i ragazzi che ballavano, deridendoli e allontanandoli dalle ragazze per ballare con loro. Alcuni tentarono di reagire, ma furono minacciati con le armi, quando il sergente della squadra tolse l’elmo da cui uscì una folta chioma nera, porgendolo al suo soldato e afferrò il braccio di una delle giovani per ballare con lei. Il fidanzato di questa si fece avanti per proteggerla, ma era senz’armi e il pugno sferrato dal sergente che indossava guanti con guarnizioni di metallo lo colse in volto, stendendolo all’istante. «Incapable de défendre leurs femmes!» disse tra le risa sghignazzanti dei suoi uomini cui porse i guanti appena sfilati.
«Lascia stare mia sorella!» esclamò un ragazzino di nove anni che era seguito da un cane e si precipitò per difendere la ragazza che si stava ribellando e si rifiutava di ballare col sergente francese. Mentre il ragazzino lanciava calci e pugni, questo lo afferrò scuotendolo in malo modo, tra le derisioni degli altri soldati, quando il cane meticcio cominciò a ringhiare contro di lui. Prima che il sergente facesse del male al bambino, un vecchio si parò davanti a lui, offrendogli da bere.
«Su, su, è giorno di festa!» disse insistendo con il boccale del vino e invitando anche gli altri soldati.
Il sergente girò di spalle il ragazzino, con un calcio sonoro al sedere lo fece rotolare nel terreno e afferrò il boccale offertogli.
Ne annusò l’odore: «C’est bon!» esclamò e bevve avidamente mentre il liquido scivolava ai lati della bocca e sulla barba nera che asciugò strofinandosela con il braccio, soddisfatto, passando il boccale ai suoi sottoposti.
«È giorno di festa, lasciate stare le figliole, stiamo in pace!» lo ammonì il vecchio.
«Va-t’en, vieil imbécile!» rispose il sergente con uno spintone, suscitando risate sguaiate da parte degli altri soldati che si passarono il boccale e bevvero.
Intanto il sergente notò qualcosa di più interessante e lasciò il grosso della compagnia seguito da due dei suoi uomini.
Giungevano Giovanni da Procida e il caro amico Ruggero Mastrangelo. Giovanni, naso pronunciato, capelli bianchi e leggera barbetta, per passare inosservato tra la gente, indossava un saio, tanto da sembrare un frate mendicante, nonostante la sua età era ancora energico, dallo sguardo vivace e penetrante, non perdeva nulla di quello che accadeva intorno. I due uomini erano seguiti dalla giovane consorte di Ruggero in compagnia di Imelda, la figlia di Giovanni, una ragazza snella, dai capelli ramati.
«Fanno la ronda ma sono già ubriachi» commentò Giovanni accortosi del tafferuglio più giù.
«Li odio questi francesi, se avessimo le nostre spade, li avremmo già infilzati come spiedi!» esclamò Ruggero con rabbia per il divieto che gli angioini avevano imposto ai siciliani di portare le armi.
«Nessuno meglio di te saprebbe maneggiare una spada, ma devi avere pazienza! Conquisteremo la libertà, attendiamo il momento opportuno per reagire e poi prepareremo con cura l’arrivo della nostra regina!» rispose Giovanni all’amico dal fisico asciutto e atletico, abile in battaglia quanto dieci uomini, che aveva ricoperto importanti incarichi pubblici oltre a essere stato ex capo di una milizia di re Manfredi e sempre fedele agli Svevi.
Benedetta e Imelda ascoltarono quello scambio di battute e si guardarono negli occhi.
«Affrettiamoci a entrare in chiesa!» esortò Imelda con preoccupazione, girandosi e notando che i suoi fratelli Francesco e Tommaso erano ancora distanti. Imelda, che era più giovane dei suoi fratelli, due uomini con famiglia ormai, aveva poco più di vent’anni e temeva che alla fine qualcosa sarebbe successo: conosceva la situazione esplosiva dai commenti ascoltati da suo padre su una riunione che si era tenuta con i nobili siciliani. Giovanni da Procida, un tempo stimato medico alla corte degli Svevi, l’aveva allevata con sua moglie senza nasconderle nulla, rendendola partecipe a tutti gli eventi e abituandola a essere forte e a reagire a ogni avversità da quando lui era stato privato dei suoi beni e costretto a vivere da esule. Dopo la morte di re Manfredi di Svevia, a Giovanni era stato confiscato ogni bene dagli angioini, così aveva operato come medico e vivendo solo dei proventi della sua professione, che poi aveva insegnato a Imelda. Tuttavia, mal sopportando la tirannia del nuovo re, Giovanni aveva trascorso un lungo periodo alla corte aragonese, in Spagna, dove era stato accolto a braccia aperte dalla regina Costanza. Imelda nel frattempo si era perfezionata come medico all’università di Salerno, avendo anche l’appoggio di sua madre, che era rimasta con lei. Ma dopo la morte della madre, ormai seguiva il padre ovunque nei suoi viaggi tra la Spagna e la Sicilia e lo aiutava. Lei conosceva bene i pensieri di Giovanni, la sua fedeltà e abnegazione per la famiglia sveva e la stima che riponeva nella figlia di re Manfredi, la regina Costanza, una donna forte e intelligente che aveva conquistato il cuore difficile di suo marito Pietro, il re d’Aragona.
Benedetta e Imelda non attesero la risposta dei due uomini, a passo spedito si incamminarono verso il sagrato del tempio, quando il sergente francese, alto e muscoloso, nella sua cotta di maglia sotto la tunica rossa, si parò davanti a loro, bloccandole.
«Alt!» intimò alle giovani e puntò Benedetta, con lo sguardo del predatore.
«Perché questa fretta, bellezze?» domandò Drouet col suo accento francese.
Benedetta era bellissima e non passava inosservata; per quanto si sforzasse di non farsi notare, era alta più della media, dal viso delicato con occhi grandi e verdi, rimase bloccata dalla paura, senza dire una parola. Temeva quell’uomo volgare che la trapassava con lo sguardo, studiando il suo corpo. Ne aveva sentite tante sui soldati francesi che avevano occupato la sua terra e avevano violentato donne e bambine senza pietà, lei era terrorizzata.
L’uomo la afferrò per il braccio, ordinò ai due che lo seguivano di perquisire anche l’altra ragazza, alla donna ci avrebbe pensato lui, disse allontanandosi e trascinandola con sé.
Benedetta cercò di divincolarsi, ma Drouet la spinse al muro della chiesa avvicinando il viso tanto da farle percepire il suo alito pieno di alcool, cominciò a toccarla, le strappò la veste, annusando l’odore della donna le mise una mano sui seni e sollevò la gonna. L’urlo di Benedetta fu così forte che Drouet non si accorse del marito alle sue spalle che in un gesto fulmineo lo afferrò per capelli, impadronendosi del suo pugnale. E prima che i suoi soldati si rendessero conto di quello che stava accadendo, il marito di Benedetta trapassò la gola dell’uomo da parte a parte.
«Che tu sia maledetto, francese!» esclamò Ruggero con tutto l’odio che provava per lui e tutti quelli come lui.
Un fiotto di sangue inarrestabile sgorgò dalla gola del soldato mentre Benedetta cadeva svenuta e suo marito impugnava ancora l’arma brandendola in difesa di chiunque si avvicinasse.
«Muoiano, muoiano questi francesi!» gridò Giovanni aizzando il popolo in difesa anche di sua figlia che stava lottando per liberarsi degli altri due francesi.
Un grido unanime si levò dalla folla e, mentre i soldati francesi si stavano precipitando per vendicare il loro sergente, un giovane sollevò una pietra e la scagliò contro di loro. Dietro di lui la folla inferocita, per l’odio che da troppo tempo era stato represso, si accanì contro i soldati come una belva inarrestabile.
«Mora, mora!» si sentiva urlare mentre i gendarmi francesi venivano circondati sul sagrato e nella campagna. Le armi che i soldati avevano per difendersi non servirono a proteggerli dalla furia di uomini, donne, fanciulli che cominciarono a lanciare pietre, afferrare i coltelli con cui prima avevano affettato il pane. Sulla campagna si rovesciavano tavoli, roteavano mazze, balenavano coltelli e spade, sassi di ogni dimensione solcavano l’aria. Ruggero sembrava invincibile, combatteva contro tutti i francesi che si paravano davanti a lui in difesa dei loro compagni. In un attimo si accese una lotta accanita che riempì la campagna di morti e feriti, anche i francesi che non facevano parte dei soldati di guardia furono uccisi con le loro mogli e i loro figli. Tutto intorno sembrava un inferno di sangue.
Imelda fu libera e con suo padre aiutarono Benedetta, ancora svenuta, trascinandola in chiesa. Raggiunsero la sagrestia, dove li accolse il sacerdote che si era rifugiato con tre nobildonne anziane, mentre anche lì giungevano le urla della sommossa, si udirono grida e lame che cozzavano tra loro. Fuori c’era l’inferno, mentre la statua della Madonna vegliava i rifugiati in sagrestia e le donne pregavano in ginocchio. Presto non si sentì più nessun rumore, e sulla soglia della sagrestia giunsero uno dei figli di Giovanni e Ruggero Mastrangelo, sporchi di sangue e impolverati.
«Li abbiamo disarmati e uccisi» disse Francesco, il figlio maggiore di Giovanni, col viso impolverato e la tunica verde schizzata di sangue. «Le armi dei francesi non sono servite a proteggerli» aggiunse, osservando sua sorella in piedi, vicino a Benedetta.
Ruggero era giunto dietro di lui, senza mantello, con la camicia strappata e macchiata di sangue, i capelli incollati al volto sudato, schizzato di sangue e livido. Respirava ancora affannosamente quando aveva abbracciato sua moglie, da stringerla fino a levarle il fiato. Poi ancora tenendola stretta tra le sue braccia, si rivolse a Giovanni.
«Li abbiamo uccisi tutti!» riferì. «Anche chi non faceva parte della ronda. Sono un seme da estirpare!» dichiarò con lo sguardo ancora carico di sete di sangue e di vendetta.
«Era il momento che aspettavamo!» esclamò Giovanni che tanto si era adoperato per il consenso dei nobili siciliani contro gli angioini.
«Un giorno di festa, trasformato in un giorno di morte!» rimproverò il prete, disapprovando la violenza.
«Suonate le campane del vespro!» ordinò Giovanni senza raccogliere quelle parole, non era il momento di fare polemica, e quella era stata la scintilla che tutti aspettavano, i soprusi che da anni subivano, dalle ingenti tasse alle violenze, agli espropri che non solo il popolo, ma anche i nobili avevano subito erano tali che sarebbe stato meglio combattere e morire.
«Presto, non c’è tempo da perdere! Mandate dei messaggeri in tutta la città per informarli di quello che è accaduto ed esortare gli uomini a levarsi contro l’oppressore!» disse Giovanni e lasciò le donne al sicuro in chiesa per raggiungere con Ruggero la zona centrale della città.
Mentre tutte le campane di Palermo suonavano l’ora del vespro, ci fu una caccia spietata ai francesi, tutti gli stranieri furono uccisi, chi tentava di fuggire, chi di nascondersi, ma nessuno si salvò, neanche chi viveva lì da anni e si era sposato con le donne del posto che furono uccise con i loro figli. Il demone della violenza aveva preso piede senza freni e all’alba la città era un deserto popolato da cadaveri straziati in ogni modo.
«Questo è solo l’inizio!» pensò Giovanni, quando nel centro della città al suono delle trombe fu proclamato il capitano della città e fu innalzata la vecchia bandiera siciliana.
Costanza
Trapani, primavera A. D. 1283
Un vento lieve spirava quando Costanza vide le numerose baie della costa di Trapani dal ponte della galea che dalla Catalogna la trasportava in Sicilia. Inspirò l’aria di mare e, a mano a mano che la nave si avvicinava, in vista del porto, la commozione salì fino a farla lacrimare. Si sentiva osservata da mago Giorgio e da suo figlio Giacomo, mentre stringeva l’aquila d’argento di suo padre tra le mani come se lui fosse lì e guardasse il mare con sfumature di colore dall’azzurro al verde, al blu scuro, e le limpide acque nelle quali si specchiava il torrione della Colombaia, l’antica fortezza posta su un’isoletta all’estremità orientale del porto. Accarezzata dal vento, nel suo elegante abito di seta azzurra, con ampie maniche e polsi ricamati con fili d’oro, su cui poggiava un leggero mantello chiuso al collo da una fibbia d’oro con un grosso zaffiro, Costanza rimaneva in silenzio mentre la galea avanzava.
Erano passati vent’anni da quando era partita dalla sua terra per sposare Pietro, staccandosi da suo padre che tanto amava, non potendo immaginare che non l’avrebbe mai più rivisto e che sarebbe morto così tragicamente. «Tornerai da regina» le aveva detto salutandola per l’ultima volta. Aveva solo quindici anni allora e il distacco dalla sua famiglia era stato difficile da sopportare, dovendo adattarsi a vivere in una corte più austera e arretrata, sopportando la lontananza solo grazie alla stima che era riuscita a conquistarsi a corte e all’amore di suo marito. Ora rivedeva i colori della Sicilia, quella terra che aveva tanto sofferto per i soprusi del re Carlo d’Angiò contro cui erano insorti il popolo e i nobili, cacciando gli angioini dalla Sicilia. Ora finalmente ritornava per riappropriarsi di quello che era stato ingiustamente tolto alla sua famiglia e per rivendicare le offese subite.
Era un momento tanto atteso, eppure sentiva che nulla sarebbe stato facile per lei. Pietro era impegnato nella campagna militare che avrebbe permesso agli aragonesi di conquistare tutto il regno e di contrastare i continui attacchi degli angioini, preparando le condizioni per il suo arrivo. Non vedeva suo marito da otto mesi e ora lo raggiungeva, dopo aver lasciato in Spagna il più piccolo dei suoi figli, Pietro, sotto la protezione del fratello maggiore, Alfonso, che a diciotto anni ricopriva la funzione di reggente. Un compito gravoso, anche se contava sull’intraprendenza del suo giovane erede. Il re Pietro le aveva dato precise istruzioni per il viaggio e aveva ordinato che Giacomo, il secondogenito, la seguisse con Federico e Violante, i due figli minori, e questo aveva un preciso significato. Pietro non sarebbe rimasto a lungo con lei. Amava quell’uomo testardo ma prudente al quale aveva dato sei figli, e le mancava la sua presenza. Posò lo sguardo su Giacomo, che a sedici anni somigliava a suo padre come una goccia d’acqua. Poco distante c’era Federico, che era un undicenne vivace e indomabile, mentre la figlia, Violante, aveva appena compiuto dieci anni ed era bellissima e dolce come la sorella maggiore, Isabella, che un anno prima era andata in sposa – appena dodicenne – al re del Portogallo.
«Madre, questo è quello che aspettavate da tempo!» commentò Giacomo, ben sapendo che sua madre aveva avuto una grande influenza sulle decisioni del padre per riconquistare il regno di Sicilia e di Puglia. Per anni la regina aveva accolto alla corte aragonese i profughi del regno e ad ascoltare i racconti di tutto quello che avveniva in Sicilia era certa che prima o poi il popolo e i nobili si sarebbero ribellati a quella tirannia.
«Sì, è vero, anche se questo significa che è cominciata una guerra contro gli angioini!» rispose Costanza, consapevole di aver convinto suo marito a intervenire in Sicilia dopo la rivolta, scatenando una guerra contro Carlo d’Angiò.
«A volte non vi capisco, madre. Come si riprendono i regni senza la guerra?»
«La morte di mio padre andava vendicata!» replicò seccamente. Suo figlio non sapeva quanto aveva sperato che la giustizia divina facesse il suo corso, ma questo non era accaduto e tutte le atrocità che erano state commesse contro la sua famiglia non potevano rimanere impunite.
«In voi ci sono due anime, madre. Siete religiosa e pia, ma non dimenticate nessun torto subito e parlate di vendetta!»
Costanza lanciò uno sguardo di rimprovero al figlio, che a sedici anni già si sentiva un uomo e voleva tenerle testa. Il ragazzo vestiva con la cotta di maglia e una leggera corazza, al fianco la bellissima spada con l’elsa d’argento intarsiata che il padre gli aveva regalato il giorno in cui era stato nominato cavaliere.
«Giacomo, tu non sai cosa significhi perdere un padre in quel modo!» disse Costanza, ben sapendo che il figlio facilmente esprimeva giudizi, quindi lo fissò con fermezza. «Tuo nonno, re Manfredi di Svevia, è stato ucciso due volte, non dimenticarlo! Anche il suo corpo è stato disseppellito, smembrato e buttato in un fiume, disperso come fosse la carogna di un animale!» esclamò con un fremito misto di dolore e di rabbia che il tempo non aveva sopito.
«Mi avete parlato a lungo di lui e so quanto lo amavate e quanto avete sofferto per la sua morte!»
«Va oltre la sofferenza! Mia sorella Beatrice è in prigione da anni e non so se è ancora in vita e i miei fratelli, tre bambini, sono sotterrati nelle segrete di qualche castello. Hanno tramato per sterminare gli svevi senza nessuna pietà, come con mio cugino Corradino, catturato e giustiziato a Napoli a soli sedici anni. Gli angioini sono solo predatori che hanno fatto scempio e violenze nella nostra terra, seminando odio.» Si bloccò un attimo e con rabbia aggiunse: «La politica non è sentimento e la Sicilia è casa mia! Non ci sarà pace finché non riprenderemo tutto il regno, finché il Papa appoggerà re Carlo!»
«Avete concesso donazioni alla chiesa, aperto conventi, tuttavia il Papa ci è nemico e non vuole riconoscere la vostra discendenza sul regno di Sicilia e di Puglia» affermò Giacomo.
«Ho fatto molto per fede, a volte per politica, ma papa Martino è un francese eletto al soglio pontificio grazie a Carlo d’Angiò ed è un fantoccio nelle sue mani!»
Giacomo fissò il volto della madre ancora giovane ma teso e con una profonda ruga sulla fronte, e assicurò: «Presto cacceremo Carlo d’Angiò e la Calabria, la Campania, la Puglia e la Basilicata saranno nostre!» Aggiustò il mantello bordò che poggiava sulla corazza e si rivolse al mago che li stava osservando: «Mago, quali le vostre previsioni?»
«Principe, studiando gli astri, ci vorrà più tempo del previsto!» rivelò e non volle sbilanciarsi oltre, le sue previsioni non erano così rosee.
Tuttavia Giacomo lo ascoltò con l’espressione sarcastica di chi si prende gioco degli astri.
«Confido più nell’attività diplomatica di Giovanni da Procida che negli astri!» disse, ben sapendo che grazie a lui, dopo la rivolta, i siciliani avevano chiesto l’intervento degli aragonesi per la discendenza di sua madre dagli Svevi.
Federico, che sembrava non prendere pace durante l’avvicinamento della nave al porto, si affacciava ora a destra ora a sinistra del ponte, fino a che si avvicinò con gioia alla madre e interruppe i discorsi tra lei e suo fratello.
«Madre!» esclamò, toccandole il braccio per richiamarla. «Guardate quanta gente!» Indicò il molo che diventava sempre più vicino.
Gli occhi azzurri di Costanza si fissarono benevoli sul figlio e lei gli sorrise. Aveva un debole per lui, anche se nell’aspetto non le somigliava per niente, tranne che per il colore dei capelli, biondi come i suoi. Egli indossava un elegante farsetto bordò ornato da ricami dorati, ma aveva tolto il cappello che poi era caduto in acqua. Federico aveva un carattere ribelle e tante volte lei pensava che somigliasse più al suo antenato Federico lo Svevo.
«Abbi un contegno adeguato al rango di principe, fratello!» lo ammonì Giacomo.
«Federico è ancora un ragazzino, lasciamogli tempo per imparare!» soggiunse Costanza, sempre pronta a intervenire in favore del figlio prediletto.
Il volto dai lineamenti squadrati di Giacomo s’irrigidì, non sopportava la condiscendenza di sua madre verso il fratello. Lui aveva sedici anni, cinque più di Federico, quanto bastava per sentirsi in diritto di richiamarlo, infastidito dal suo comportamento istintivo e senza regole.
La nave stava attraccando mentre si vedeva la moltitudine di gente assiepata lontano e tenuta a bada da un cordone di guardie armate.
Anche la dama di compagnia di Costanza, l’inseparabile zia Isabella, donna di mezza età e dal fisico longilineo, che si era tenuta in disparte con la principessa Violante, si commosse vedendo tutta quella gente.
«Il popolo è qui ad attendere la sua regina» commentò, osservando Costanza con orgoglio. Le porse il cofanetto di legno, dove Costanza depose l’aquila d’Argento. «La mia bella regina, oggi più bella del solito!» disse, guardando con gioia la prediletta nipote dagli occhi azzurri come il mare, dal viso delicato e incorniciato da lunghi capelli biondi su cui scendeva il velo di bisso, fissato con un diadema sul capo.
A Costanza sembrarono momenti interminabili mentre udiva la voce del comandante Ruggero di Lauria che ordinava l’attracco. Oltre l’emozione per il ritorno nella sua terra, dopo tutti quei mesi di lontananza avrebbe rivisto suo marito, il re Pietro. Sorrise pensando che, quando l’aveva sposato, aveva avuto paura di quel giovane sconosciuto dallo sguardo tenebroso, invece, dopo le prime incomprensioni, Pietro si era rivelato premuroso e gentile con lei, riuscendo a farsi amare. Continuava a guardare il molo,