Mille rimpianti: Verso il Japòn
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Info su questo ebook
Nel frattempo, nell'Italia della Controriforma, Alessandro Valignano viene avviato agli studi dal padre, un nobile abruzzese. L'amore per Francesca, un'apprendista cortigiana di Venezia, lo travolge in complicazioni che lo fanno finire in carcere. Carlo Borromeo interviene a liberarlo, ma la condizione è che Alessandro entri in un ordine religioso: la Compagnia di Gesù.
L'uomo del Rinascimento e il samurai s'incamminano verso un incontro che cambierà il destino di entrambi oltre che dei cristiani giapponesi, sempre più numerosi in un paese ancora dilaniato dalla guerra.
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Anteprima del libro
Mille rimpianti - Grazia Maria Francese
Grazia Maria Francese
MILLE RIMPIANTI
EEE - Edizioni Tripla E
Grazia Maria Francese, Mille rimpianti
© EEE - Edizioni Tripla E, 2020
ISBN 9788855390606
Collana Grande e piccola Storia
, n. 16
EEE - Edizioni Tripla E di Piera Rossotti
www.edizionitriplae.it
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.
Copertina: progetto grafico di Massimo Tullio Delledonne.
I –Verso il Japòn (1551 – 1574)
A Hitotarashi Anja
Mille regretz de vous abandonner
Et d’eslonger vostre fache amoreuse
Jay si gran dueil et paine douloureuse
Quon me verra brief mes jours definer
NOTA AI CAPITOLI AMBIENTATI IN GIAPPONE
DATE
Nel calendario lunisolare giapponese l’anno comincia il 3 febbraio. È suddiviso in periodi, ciascuno dei quali dura due settimane e ha un nome che richiama eventi stagionali: rugiada bianca, trapianto del riso ecc.
Il computo degli anni si basa sul lignaggio imperiale, ininterrotto a partire dal mitico imperatore Jimmu (660 a.C.) con un susseguirsi di ere di durata variabile. Benché oggi prevalga il calendario occidentale, l’antico sistema è ancora in uso: con l’ascesa al trono dell’imperatore Naruhito (2019) è cominciata l’era Reiwa.
In passato, fino alla Restaurazione Meiji (1868) l’era poteva cambiare sotto uno stesso imperatore, per via di qualche evento considerato una svolta epocale. Negli anni in cui è ambientato questo romanzo ciò accade tre volte: nel 1577, 1570 e 1573. A uso del lettore è indicata la datazione corrispondente nel nostro calendario.
Chi volesse consultare tavole cronologiche degli eventi storici le troverà alla fine del romanzo.
LUOGHI
Prima che Oda Nobunaga cominciasse a riunificarlo, il Giappone era frammentato in 66 regni o feudi, ciascuno sotto il controllo di una casata (vedi mappa). In realtà si trattava di un controllo alquanto precario, continuamente scosso da ribellioni, tradimenti o dall’invasione di vicini bellicosi.
Governare l’intero paese (tenka, tutto ciò che sta sotto il cielo
) sarebbe spettato allo shogun. Tuttavia il potere degli shogun era diminuito al punto che ormai non si estendeva oltre il perimetro della capitale imperiale Miyako (Kyoto). Quanto all’imperatore, da secoli non era che una venerabile ombra.
NOMI E TERMINI GIAPPONESI
Ancora oggi in Giappone il nome di persona viene dopo quello di famiglia o della casata.
Ai figli di nobili e samurai si dava alla nascita un nome provvisorio, vezzeggiativo o augurale. Il nome definitivo era attribuito all’età di 13 anni con un rito nel quale al ragazzo erano anche consegnate le due spade, lunga e corta: da quel momento in poi lo si considerava un adulto.
Nel corso della vita il nome poteva essere cambiato per rimarcare un mutamento di status, come accade ad alcuni personaggi del romanzo. Morendo infine si riceveva (e si riceve tuttora) un nome postumo.
Gli ideogrammi dei nomi hanno ovviamente un significato, che sarebbe stato troppo complesso riportare qui.
I nomi sono seguiti dal suffisso onorifico –san (per le persone comuni) -dono (principe) o altri. Rivolgersi a qualcuno omettendo il suffisso presuppone anche oggi un rapporto di intimità, o da superiore a inferiore.
Pronuncia: le sillabe –gi e -ge sono dure (ghi, ghe); –cha, -chi, -chu, -cho si pronunciano cia, ci, ciu, cio; -shi, -shu, -sho sono scia, sciu, scio e la -j si legge come la nostra -g dolce. Per semplicità ho omesso i segni di allungamento delle vocali, benché nella trascrizione fonetica della lingua giapponese siano molto importanti.
Ho cercato di limitare l’uso di termini in lingua originale, dove li ho usati ci sono note a pie’ di pagina.
Buona lettura!
TERRITORIO DELLE PRINCIPALI CASATE GIAPPONESI NEL 1° ANNO DELL’ERA GENKI (1570)
I
Giappone, regno di Owari
20° anno di Tenmon, risveglio degli insetti (marzo 1551)
«Nobunaga! Nobunaga!»
Le grida fanno levare in volo uno stormo di anatre selvatiche. Con un’imprecazione lui fa per sciogliere il legaccio che trattiene la zampa del falco, poi ci rinuncia: troppo tardi.
«Nobunaga!»
Sulla riva del fiume compare un cavallo bianco lanciato ventre a terra. In sella c’è una ragazza. La lunga treccia nera sobbalza sul dorso del kimono a disegni di libellule: la pioggia di primavera le ha infradiciato l’hakama¹ legata alle caviglie dai lacci dei sandali di paglia.
«Nobunaga!»
«Oh, sono qui! Cosa c’è da gridare?»
Sorpresa dalla voce che si leva tra la vegetazione palustre, lei dà uno strappo alle redini: il cavallo s’impenna, ma riesce a controllarlo. Nobunaga sbuca dal canneto e la osserva con aria scontenta, carezzando il falco posato sul guanto di pelle.
«Guarda che hai combinato, scocciatrice: era pronto ad acciuffare la preda, ma tu l’hai fatta scappare.»
«Devi tornare subito alla fortezza!»
«Perché, cos’è successo?»
«Naito-san è appena rientrato. Pare ci sia qualche notizia grave.»
«E per chiamarmi hanno mandato te?»
La ragazza scrolla le spalle. «Oh, no, c’erano due guardie, ma quegli idioti sono rimasti indietro: non sapevano dove trovarti, mentre io sì.»
Continuando a carezzare il dorso dell’animale, lui le rivolge un’occhiata maliziosa.
«Brava, le tue maniere stanno migliorando. Allora, questa notizia? Vorresti farmi credere che non hai origliato per sentire di cosa si trattava? Impossibile.»
«Stai insinuando che sono una ficcanaso?»
«Già: non è il comportamento di una moglie devota, questo, però mi diverte.»
«Va bene, sì, ho origliato» ammette lei con impazienza «ma adesso smetti di prendermi in giro e ascolta: tuo padre sta molto male, così dicevano i vassalli.»
«Prendi il falco, Kicho.» Si toglie il guanto. «Fallo volare per un po’, non bisogna deluderlo.»
«Ti sembra il momento di pensare al falco? Se tuo padre…»
«Obbedisci.» Le passa l’animale, che sbatte le ali e tira sul laccio. «Fallo volare finché non sarà stanco, poi torna a casa. E questa volta, mentre sono via, cerca di non far infuriare Hayashi: non andartene in giro senza il suo permesso.»
«Tu lo fai sempre!» ribatte Kicho con un sorriso di sfida. «Perché non dovrei farlo anch’io?»
Lui scrolla le spalle. «Che domande! Perché sono il signore della fortezza, Hayashi è il comandante della guarnigione, mentre tu sei solo una donna.»
«Sono la figlia del signore di Mino, io, non una serva! Te ne sei dimenticato?»
Senza darle risposta Nobunaga slega le briglie dello stallone nero, mette a tracolla l’archibugio e balza in sella. Il kimono si apre sul petto glabro quando sprona al galoppo.
Lei gli grida dietro: «Se tuo padre dovesse morire, attento a tuo fratello Nobuyuki! Quell’uomo ha uno sguardo falso…» Le parole si perdono in lontananza.
Per un attimo si sente indispettito, poi sorride.
Come fa a cogliere sempre le cose al volo, lei? Dev’essere perché è figlia di un mercante: quella è gente intuitiva.
Nobunaga ha sempre provato simpatia verso i mercanti. Da bambino, quando andava al tempio per imparare a scrivere, finita la lezione scappava a curiosare per le strade del porto di Tsushima, dove essi vivono. È un posto che frequenta volentieri: negli ultimi tempi vi si possono trovare perfino le mercanzie dei nanbanjin².
Passa la mano sul calcio dell’archibugio, avvolto in una tela cerata per proteggerlo dalla pioggia.
Una pallottola di questo può perforare l’armatura di un samurai alla distanza di duecento piedi. Il mondo sta cambiando, e quella gente l’ha capito prima di noi.
Gli piace entrare nelle botteghe, bere il tè nelle tazze di ceramica portate dalla Corea o dal Regno di Mezzo. Invidia il modo di vivere dei mercanti, le loro belle case, i giardini, i passatempi: tutto questo ha una raffinatezza che non si trova nelle austere dimore dei samurai.
Non c’è niente di male nel fatto che Kicho sia figlia di un mercante, conclude tra sé. E se poi quel mercante s’è impadronito di Mino, un regno grande il doppio del nostro, farmi sposare sua figlia in fin dei conti non è stata una cattiva idea.
Nella sala del consiglio ci sono già i tre vassalli che suo padre gli aveva messo accanto quando gli aveva affidato la fortezza: Hirate, Hayashi e Naito. Quest’ultimo indossa ancora gli abiti da viaggio.
Quando lo sentono arrivare chinano il busto in un profondo inchino, posando le mani sulle stuoie di paglia. La loro espressione è grave.
Nobunaga, con il kimono fradicio fermato in vita da una corda, entra a passo deciso e prende posto sulla pedana incrociando le gambe nude.
«Bentornato, Naito. Che notizie ci sono da Suemori?»
«Terribili, signore. Vostro padre sta morendo.»
«Cos’è successo?»
«La notte scorsa ha cominciato ad accusare forti dolori al ventre. All’inizio sembrava un malessere passeggero, poi ha perso conoscenza: io non sono medico e posso anche sbagliarmi, però sembrava quasi…»
Lui gli rivolge un’occhiata indagatrice. «Che fosse stato avvelenato, vuoi dire?»
«Forse» mormora Naito con espressione cupa. «Ma nel villaggio c’è un’epidemia, così sostengono i medici che sono stati subito chiamati: se qualcuno l’ha avvelenato ha scelto il momento giusto, non sarà facile provarlo. Si è tentato di tutto, però le condizioni di Nobuhide-dono si facevano sempre più gravi, così ho pensato di venire subito a chiamarvi.»
«Come ha reagito mio fratello?»
«Nobuyuki-dono… beh, signore, aveva l’espressione di un gatto che sta per prendere il topo, se intendete cosa voglio dire.»
Nobunaga si alza con uno scatto delle reni. «Partiamo subito: so che hai già fatto molta strada oggi e mi dispiace, ma dobbiamo arrivare a Suemori prima che faccia buio. Hirate, vieni anche tu.»
«Non vi cambiate d’abito, signore?» si azzarda a suggerire quest’ultimo, il precettore di Nobunaga. «Se vostro padre morisse…»
«Mi toccherebbe essere sgozzato vestito come sono, o riuscire a difendermi» taglia corto lui. «Vado a radunare gli uomini, dobbiamo portare con noi una buona scorta: aspettatemi nel cortile.»
Con un sospiro Hirate guarda il suo signore che si allontana.
Non sono mai riuscito a farmi ascoltare da lui, mormora scuotendo il capo. Baka-dono, così lo chiamano, signor stupido: soltanto io so che non è per niente sciocco.
Quando entra nella stanza del padre, Nobunaga si sente stringere la gola per il fetore che emana dalla sua forma stesa tra le coltri. Un’ancella si scansa per lasciarlo passare e gli rivolge un inchino frettoloso, lasciandosi sfuggire dalle braccia salviette intrise di un liquido nerastro.
La madre è seduta sui talloni al capezzale del marito. I lunghi capelli corvini, nei quali non c’è ancora neppure un filo bianco, sono raccolti sulla schiena in un nodo di carta. Quando volta la faccia, il suo profilo sembra quello di una maschera del teatro Noh.
«Grazie di averlo portato qui, Naito-san» bisbiglia. «Siedi accanto a tuo padre, Nobunaga: ha chiesto di te anche poco fa. Cedigli il posto, Nobuyuki.»
Il fratello minore, che indossa un completo di seta grigia con lo stemma della casata, si fa da parte. Scruta con aria ironica l’abbigliamento di Nobunaga, ma non fa commenti.
Quando lui gli prende la mano, il padre non sembra rendersene conto. Dopo un po’ apre gli occhi.
«Sei arrivato» mormora con voce fievole. «Meno male. Non mi rimane molto tempo…»
«Non dite sciocchezze, padre! Voi dovete guarire.»
«Sciocchezze?» L’occhiata che gli rivolge ha la severità di sempre. «Sei tu che dici sciocchezze. Sto morendo, non è così?»
«I medici, padre, hanno detto che…» s’intromette il fratello.
Lui fa una smorfia di disprezzo. «Ciarlatani! E tu non sei meglio di loro, Nobuyuki, con quel sorriso ipocrita sulla faccia. Andate via! Fuori tutti, anche tu, moglie: devo parlare a Nobunaga.»
Quando gli altri sono usciti, Nobuhide sembra rilassarsi. Scruta in faccia il suo erede.
«È venuto il momento di dimostrare quanto vali» bisbiglia. «Hai diciassette anni: avrei voluto vivere ancora un po’, ma non spetta all’uomo decidere quando è il momento di incamminarsi verso le sorgenti gialle³. Dovrai cavartela con le tue forze.»
«Ma io non sono ancora pronto, padre!»
«Neppure io» sospira. «Al momento cruciale non si è mai pronti, pur avendo tentato di prepararsi.» Gli afferra la mano. «Sai cosa mi aspetto da te, Nobunaga.»
Lui capisce subito cosa intenda, ma fa un cenno di diniego.
«Non fingerti stupido» insiste il padre «non con me. Te ne ho parlato altre volte, non è vero?»
«Tenka» sussurra infine a malincuore.
Con uno sforzo immane Nobuhide alza la testa.
«Proprio così.» Nelle parole del morente c’è un’urgenza febbrile. «Gli antichi poteri sono marci, Nobunaga! Cosa contano ormai funzionari imperiali, nobili, perfino lo shogun⁴? Il suo rappresentante è ostaggio di tuo zio, che governa in sua vece il regno di Owari: lo stesso shogun, nella capitale, non può muovere un passo fuori dal suo palazzo. Questo è il momento di farsi avanti! Di prefiggersi un bersaglio talmente alto da sembrare follia! Impadronirsi di tutto il paese, non solo del regno di Owari: tenka, tutto ciò che sta sotto il cielo. Il potere assoluto.»
«Ma è impossibile, padre!»
«Perché vuoi contrariarmi? In questa epoca di disordine tenka è un bersaglio possibile. Io ho tentato, ho combattuto per anni e non ci sono riuscito, ma chissà dove potrai arrivare tu? Fammi morire sapendo che ci proverai. Giuralo!»
«Però di queste cose, padre, avete parlato solo a me!» protesta Nobunaga. «Di fronte agli altri non mi avete rivolto che parole severe. Chi crederà che mi abbiate affidato un compito così arduo?»
«E a chi l’avrei potuto affidare?» ribatte, lasciando ricadere il collo sul supporto di legno laccato. «A tuo fratello, forse? Quello non bada che ai suoi interessi personali: non sa vedere più lontano di così, mentre il tuo compito richiede il cuore di una tigre.» Gli batte sulla spalla un colpo leggero. «La tigre butta il suo cucciolo giù nel burrone, perché risalga la china da solo. Così ho agito con te, fin da bambino...» Il respiro si fa affannoso. «Allora, ti decidi o no?»
«Va bene, ve lo giuro, però dovete spiegare tutto questo a Nobuyuki! Lui mi considera un idiota. E se perfino mio fratello non mi obbedisce, figuriamoci i vassalli!»
Il morente torna a chiudere gli occhi. Il petto si alza e abbassa piano.
«Fingersi stupidi è una buona mossa» bisbiglia alla fine. «Qualcosa che disorienta… ma forse hai ragione tu. Se parlo con chiarezza a tuo fratello, di fronte a tutti… ti obbedirà, almeno per il momento e anche tua madre… capirà che non deve lasciarsi accecare dall’affetto per Nobuyuki.»
«Li chiamo, allora?» chiede con impazienza Nobunaga: la mano del padre si sta facendo fredda. Lui non risponde, ma decide di prenderlo per un assenso.
Quando apre i pannelli della porta scorrevole sono tutti lì nel corridoio: madre, fratello, la moglie di questi, i vassalli anziani del padre. C’è pure l’onmyoji⁵ che gli rivolge un’occhiata indagatrice.
«Il capo della casata ha qualcosa da dirvi» annuncia Nobunaga. «Entrate tutti.»
Ci vuole un po’ di tempo perché prendano posto, tra inchini e inviti agli altri a farsi avanti. Quando si sono accomodati intorno al letto, Nobunaga prende di nuovo la mano del padre.
«Sono qui, come avete comandato. Parlate, vi prego!»
Nobuhide dischiude le palpebre, ma gli occhi iniettati di sangue non sembrano vedere le facce ansiose che lo circondano. Mormora qualche parola incomprensibile.
«Non riusciamo a sentire, mio signore» dice la madre. «Potete parlare un po’ più forte?»
Nobuhide stringe la mano del primogenito: le sue labbra si stirano in un ghigno.
«Baka-dono!» biascica. «Signor stupido… che un uomo del genere… possa mai diventare…»
Dalla bocca gli esce un fiotto di sangue color rosso vivo. Le donne lanciano un grido: si affrettano a pulirgli le labbra con un panno, a tergergli la fronte. Nobuhide cerca di proseguire, ma le parole gli si strozzano in gola e il respiro, dopo avere lottato ancora un po’ per trovare un passaggio, si spegne in un tetro gorgoglio.
Nel silenzio, rotto solo dai gemiti delle donne, risuona la risata stridula di Nobuyuki.
«Per questo ci aveva convocati? Per chiedersi come mio fratello possa mai diventare il capo della casata? Oh, io me lo domando già da un pezzo!»
«Moderate le parole, Nobuyuki-dono» interviene l’onmyoji.
«Non ho fatto che esprimere ciò che pensate tutti. Anziché comportarsi in modo dignitoso, mio fratello si dedica a cose futili, indegne di un samurai. Spreca il suo tempo con...»
«Non è così!» protesta Nobunaga. «Nostro padre voleva dire tutt’altro, ma non ce l’ha fatta!»
La madre gli fa segno di tacere.
«Aspetta almeno che gli abbiamo chiuso gli occhi, prima di metterti a litigare con tuo fratello» sussurra in tono aspro.
Nobunaga si alza ed esce nel corridoio, stringendo i pugni dalla rabbia fino a farne sbiancare le nocche. I suoi lo circondano, mentre i fedeli di Nobuyuki si raccolgono attorno a lui. Tutti portano alla cintura spada lunga e corta. Si scambiano sguardi minacciosi. Shibata, uno dei vassalli del fratello, posa la mano sull’impugnatura del katana.
«Miei signori» interviene l’onmyoji «lo spirito di Nobuhide-dono non è ancora partito per il suo lungo viaggio: è qui, vi sta guardando. Non vorrete guastare i suoi ultimi istanti con azioni delle quali in seguito potreste pentirvi? Nobuyuki-dono, adesso siete voi il signore di questa fortezza: date disposizioni per la cerimonia funebre. Voi, Nobunaga-dono, fate accampare i vostri uomini. Verrò a chiamarvi quando tutto sarà pronto.»
«Già che ci sei potresti cambiarti d’abito» sogghigna Nobuyuki. «Sembri uno stalliere vestito così. Se non hai portato con te un kimono decente, fattene prestare uno da mia moglie: ho sentito dire che ti piace vestirti da donna.»
Senza degnarlo di uno sguardo, Nobunaga esce nel cortile circondato da bassi edifici di legno.
«Fa’ accampare gli uomini fuori dal cancello» ordina a Ikeda Tsuneoki, suo fratello di latte. «Disponi sentinelle intorno al campo e non lasciare che si avvicini nessuno, tranne l’onmyoji: qui tira brutta aria, dobbiamo stare attenti.»
La cerimonia di cremazione s’è conclusa e la tavoletta funebre del padre, che i monaci dovevano avere già preparato, è sull’altare insieme all’urna delle ceneri, tra vasi di fiori appena recisi. Il coro delle preghiere buddiste si leva con il fumo dell’incenso che tutti i presenti vanno ad accendere all’altare, porgendo il loro ultimo omaggio al capo della casata.
Nobunaga sente su di sé occhiate malevole: il nonno, gli zii, cugini e altri parenti, i vassalli del padre lo guardano con aria severa. Indossa ancora la veste di cotone stazzonato, ma piuttosto che mettersi il kimono mandato dalla moglie di Nobuyuki avrebbe preferito presentarsi nudo. Lo sguardo del fratello è di derisione aperta.
«Tutti hanno offerto il loro incenso» sussurra Hirate, il precettore. «Fatelo anche voi, signore.»
Si alza di malavoglia. Prova rancore nei confronti del padre.
Avresti potuto vivere un po’ di più… almeno qualche istante, quel poco che bastava per dire ancora una parola. Mi hai strappato quel giuramento assurdo e te ne sei andato. Adesso come faccio?
Guarda con astio la tavoletta funebre. Il nome postumo del padre, inciso a caratteri dorati sulla superficie nera e liscia, luccica confondendosi nelle lacrime di rabbia che gli colmano gli occhi.
Di me non te n’è mai importato niente.
Ricorda la sua infanzia. Nobunaga aveva sei anni e portava ancora il nome da bambino, Kipposhi, quando Nobuhide l’aveva fatto chiamare di fronte ai vassalli. Aveva annunciato che il figlio sarebbe diventato signore di Nagoya, mentre lui si sarebbe trasferito nella nuova fortezza.
Era partito il giorno stesso portando con sé la madre, il fratello minore, le sorelle: se n’erano andati tutti. Nobunaga aveva avuto consiglieri, servi, compagni con cui giocare o azzuffarsi, ma più nessuno con cui ci fosse uno scambio di affetto… a parte Tsuneoki, il solo vero amico che abbia mai avuto, e adesso la giovane moglie.
Ricorda le notti di tempesta, quando il vento ululava attorno alla fortezza e in quel frastuono gli sembrava di sentire voci umane che si lamentavano. Si raggomitolava sotto le coperte, tenendo d’occhio le porte della stanza con la paura di scorgere una mano spettrale che le apriva, ma non ne aveva mai parlato con nessuno.
L’onmyoji doveva essersene accorto, perché una volta gli aveva detto: «Signore, non abbiate paura degli spettri. Quelli che sono stati uccisi da vostro padre vagano di notte attorno alla fortezza, ma non vi possono nuocere». Gli aveva dato un sacchettino di stoffa. «Contiene un pizzico delle ceneri di un vostro antenato, fondatore della casata, che apparteneva all’antica stirpe dei Taira. Egli è potente nel regno dei morti come lo fu in quello dei vivi, tutti gli spiriti gli devono obbedienza: portate sempre questo su di voi, vi proteggerà.»
Il talismano è appeso anche adesso al collo di Nobunaga. Lo afferra attraverso la veste.
Quel compito è troppo difficile, padre! Se vuoi davvero che ci provi, fatti vedere e parla… adesso, qui, di fronte a tutti!
Aspetta per un po’, ma non succede niente. Lo invade una gran collera.
Non vuoi aiutarmi? Allora vattene all’inferno!
Afferra l’incensiere e lo scaraventa contro la tavoletta funebre, che cade a terra con fragore.
La cantilena dei sutra s’interrompe. Con espressione spaventata i monaci si affrettano a risistemarla e a pulire la tovaglia cosparsa di cenere.
Un brusio indignato si leva nella sala.
«Avete visto cos’ha fatto? Baka-dono lo chiamano, ma non è solo stupido: dev’essere pazzo.»
Soltanto l’onmyoji rimane impassibile, mentre il precettore gli rivolge un’occhiata triste.
II
Italia, Marca Anconetana
Agosto 1555
Il temporale della notte, con pioggia a scrosci e raffiche di vento, ha cosparso la spiaggia di rametti spezzati. Mentre cammina verso la pineta, Alessandro guarda il mare. Le nubi vi proiettano ombre fuggitive: barbagli color verde smeraldo appaiono qua e là, come isole ingannevoli che un attimo dopo sono sparite.
I servi hanno già strigliato i cavalli e stanno finendo di sellarli, nell’ombra fresca dei pini. Il ragazzo si toglie di spalla la bisaccia e la lega al pomo della sella.
«Vado a chiamare il babbo» dice agli uomini, robusti contadini abruzzesi. «Partiremo appena lui sarà pronto.» I due, senza interrompere il lavoro, fanno un grugnito d’assenso.
Tornando alla locanda si ferma a guardare le onde che si frangono sulla sabbia e si perde nelle sue fantasticherie. I riccioli castani gli volteggiano intorno alla fronte.
Quanto mi piacerebbe partire per le Indie! Attraversare gli oceani a bordo di un veliero, scoprire nuovi mondi… chissà se potrò farlo, un giorno?
No, si risponde con tristezza: è destinato a studiare legge, il che vuol dire trascorrere tutta la vita in qualche archivio polveroso. L’idea non gli garba, ma non sta a lui scegliere. Può solo ringraziare il babbo che ha deciso di avviarlo agli studi, anziché fare di lui un chierico o un mercenario pronto a combattere per il signorotto di turno.
Con un’ultima occhiata al mare s’incammina verso la tettoia di canne, che un vento impetuoso sembra voler strappare dai suoi sostegni. Lì il fragore delle onde si mescola con il vociare degli avventori che fanno colazione. Il babbo gli fa segno di raggiungerlo.
«Si può sapere dov’eri finito? Cominciavo a pensare che ti avessero rapito i turchi!»
Mormorando una scusa, il ragazzo siede di fronte a lui. I suoi occhi curiosi passano tra i viaggiatori cercando di indovinare, dall’aspetto, quale sia il loro mestiere.
Quello sembra un mercante di stoffe, indossa tutto il campionario delle sue mercanzie. Quell’altro è un marinaio, basta vedere come cammina. Quello laggiù… aggrotta la fronte.
«Avete veduto l’uomo che porta gli occhiali?» bisbiglia. «Sembra il profeta Malachia che è dipinto nella nostra chiesa.»
«Sì, l’avevo già notato ieri sera. Dev’essere un medico, a giudicare dalla berretta.»
Il babbo fa segno all’oste che sta passando con una caraffa. Quando questi si china su di lui, gli chiede a bassa voce: «Da dove viene lo straniero?»
«Dalla Francia, messere» risponde l’uomo. «Di questi tempi si fa vedere di rado, ma in passato si fermava spesso qui diretto ad Ancona, dove vivono molti giudei: dev’essere di quella razza maledetta, benché si professi cristiano.» Si china a versare vino rosso nei boccali e posa sul tavolo la caraffa. «È un indovino o anche peggio, se è vero quello che si dice.»
«Cosa si dice?»
Senza rispondere, l’oste scompare nel bugigattolo che fa da cucina e ne riemerge con un piatto. Posandolo davanti al babbo bisbiglia in tono misterioso: «Dicono che una volta, mentre lo straniero passava da San Francesco in Fratta, si fosse imbattuto nei monaci che raccoglievano le olive. Di fronte a uno di essi smontò di sella e s’inginocchiò esclamando: saluto Vostra Santità!»
«Quale dei monaci?»
«Un certo Felice, un novizio di umili origini. Tutti pensarono che lo straniero si burlasse di lui, e invece… chi l’avrebbe detto? Una volta presi i voti costui diventò baccelliere, poi predicatore: adesso il Papa l’ha convocato nella Santa Congregazione. Chissà che un giorno non diventi Papa lui stesso, come aveva profetizzato lo straniero? Dev’essere uno stregone, quello.»
«Un pio stregone, o magari un astrologo» commenta il babbo «ma se davvero si tratta di un giudeo, farebbe bene ad andarsene in qualche posto dove la Santa Congregazione non si occupi di lui.»
Congeda l’oste e scopre il piatto colmo di pesciolini fritti posandolo tra sé e Alessandro, che ne addenta uno con aria distratta.
«Babbo, cos’è la Santa Congregazione?»
«L’inquisizione» risponde in un sussurro. «Ha mandato al rogo migliaia di giudei, in Spagna. Ora il Papa l’ha istituita anche qui, ma non è il caso