Racconti di tutto il mondo
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Racconti di tutto il mondo - Arnaldo Cipolla
Racconti di tutto il mondo
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1929, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728492437
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
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IL MIO SARTO CINESE DI SHANGAIKWAN.
Ho abbandonato uno dei miei sarti a Shangaikwan, dove la Grande Muraglia della Cina muore nel golfo di Pecilì, ma anch’egli mi ha lasciato degli indumenti che ho ritrovato oggi nel fondo di un baule. Questa piccola scoperta mi costringe a parlar di lui, come di uno fra gli esseri meno comuni che abbia conosciuto lungo le vie del mondo. Il signor Pu Siung, o meglio il suo ricordo, mi assilla, per modo che non ho speranza di trovar pace che a condizione di provarmi a ricostruire l’epoca memorabile delle nostre relazioni.
Esse non furono casuali. Qualche anno fa, i viaggiatori europei che attraversavano la Siberia per andarsene in Cina, non potevano ritenersi sicuri di uscire senza sgradevoli incidenti dalla Russia Rossa, che a condizione di attraversar la frontiera mostrandosi poveri in canna. Il «borghese» occidentale, possessore di valigie decenti e di oggetti comunque servibili, era guardato con sospetto e spesso trattenuto e soggetto a visite rigorosissime. Breve: avevo lasciato il paradiso bolscevico in condizioni deplorevoli di equipaggiamento e pensavo di rimpannucciarmi alla prima sosta.
La quale avvenne precisamente a Shangaikwan; per il semplice motivo che da questa città si riesce a fare un’ampia ed indimenticabile conoscenza con la Grande Muraglia. L’abitato si distende ai piedi del massimo manufatto che gli uomini abbiano elevato sulla terra e, verso il mare, sorge una specie di città balneare assai frequentata durante l’estate dalle colonie europee di Tien Tsin e di Pechino e sorgono pure i vecchi forti europei delle occupazioni della guerra contro i boxers, presidiati da marinai italiani, francesi e da truppe anglo-indiane.
Tutto questo per concludere che Shangaikwan è una specie di culla dell’europeizzazione della Cina (divenuta oggi americanizzazione) ed essendo pure un punto strategico capitale nelle lotte fra il nord ed il sud (è alla frontiera fra la Manciuria e la Cina propriamente detta) è stata sovente teatro di battaglie più o meno furibonde fra le forze del maresciallo Cian Zo Lin e i suoi avversari. Ora non più, perchè l’ex satrapo mancese è a Pechino, con la speranza di diventare imperatore e di distruggere i bolscevico-nazionalisti del sud e le battaglie cinesi avvengono molto lontane dalla Grande Muraglia, ma quattro anni fa, Shangaikwan era anche un quartiere generale notevolissimo e rigurgitante in permanenza di ufficiali e di soldati cinesi vestiti di uniformi occidentali ¹
Dunque, ero arrivato a Shangaikwan in una sera indiavolata. Un tifone s’era abbattuto sulla marina e nell’alberghetto europeo vicino alla stazione della ferrovia, i viaggiatori, riuniti a pianterreno, aspettavano che la violenza furibonda del vento spazzasse via il debole tetto di lamiera dell’edificio, cosa che avvenne nello spazio di tempo preveduto. Accadde pure che la pioggia diluviale diventasse signora assoluta dell’albergo e che la nostra incolumità si concentrasse sulla resistenza di alcune colonnette di ferro che sostenevano il piano superiore, alle quali ci eravamo teneramente abbracciati. I mobili dell’albergo nuotarono nell’acqua per tutta la notte con i nostri bagagli e al mattino mi sarei trovato povero come Giobbe o meglio libero come Diogene, se non fosse stato per un certo numero di sterline in biglietti di banca che avevo in tasca che mi convenne far asciugare allo smagliante sole della sublime giornata succeduta all’uragano, prima di ritenermi abbastanza ricco per riorganizzarmi come viaggiatore non disprezzabile.
Mentre le sterline si disseccavano al sole sotto i miei occhi accanto ai miei stracci, fui onorato dalla visita del nostro Ministro in Cina (era Vittorio Cerruti, attuale Ambasciatore a Mosca) che si trovava in villeggiatura al Forte italiano. Cerruti, dopo avermi coperto di uno sguardo compassionevole per il mio aspetto esteriore, mi disse:
— Lei ha bisogno di un sarto!
— Per l’appunto — risposi. — Penso però che sino a Pechino non sarà possibile di trovarne.
— No, no; il più gran sarto cinese per europei è qui. È Pu Siung, che veste i bianchi di Pechino, Tien Tsin, Shangai ed altri luoghi ancora desiderosi di abbigliarsi convenevolmente; i cinesi americanizzati che hanno gettato alle ortiche le loro seriche tonache, nonchè gli ufficiali cinesi eleganti (pare impossibile, ma ve ne sono anche di eleganti) degli eserciti di Cian Zo Lin e di Wu Pei Fu. Vada da Pu Siung, perchè, oltre ad esser sarto, è anche un soggetto molto curioso. E poi — aggiunse il Ministro sorridendo — parla anche l’italiano.
Il mattino dopo ero nella sartoria di Pu Siung situata nel cuore di Shangaikwan, in una di quelle strade prettamente cinesi dove il profumo non è di rose e nelle quali i bambini seminudi pullulano come conigli fra le casette a piano terreno e i negozi dalle facciate sovraccariche di dorature. Il contrasto fra quell’oro ed i piccoli spettacoli che vi offre l’umanità cinese considerata da vicino, sono troppo noti perchè debba farli ancora risaltare. Dirò unicamente che, data l’ora mattinale, riuscii ad assistere alla toeletta che le mamme cinesi facevano ai loro bambini, ai più piccoli — graziosissimi del resto — esponendo le parti molli dei corpicini ad un’accurata revisione da parte delle lingue del cane casalingo.
Pu Siung mi venne incontro e due cose mi colpirono immediatamente: il fatto che vestiva alla cinese e la sua andatura inconcepibile. Avendo una gamba assai più corta dell’altra, avanzava sprofondandosi a terra ed elevandosi verso il soffitto nella guisa più comica.
— Il ministro Cerruti mi ha raccontato che lei parla italiano — gli dissi. — Come l’ha imparato?
Mi sentii rispondere in maniera inintelligibile. La scuola di quel linguaggio era stata la casermetta dei marinai italiani nel nostro forte di Shangaikwan, dove da più di venticinque anni a questa parte si succedono i piccoli distaccamenti della «guardia». Pu Siung aveva incominciato a venire a contatto con europei in quella casermetta, vi aveva appreso i rudimenti della sua arte da un sartorello marinaio e si era perfezionato attraverso complicate vicende, riuscendo a diventare un perfetto artefice del taglio, grazie allo studio indefesso sui modelli di abiti europei che gli capitavan fra le mani. Poichè Pu Siung, come tutti i suoi consimili, era sopratutto un meraviglioso copiatore, non un creatore. Perfettamente superfluo farsi prender da lui delle misure o tentare di esprimergli dei desideri o dargli dei consigli. Bisognava abbandonargli un vestito vecchio o un altro qualsiasi portato d’Europa e su quello lavorava, riproducendolo alla perfezione con i suoi difetti ed i suoi pregi. In cotesta imitazione dimostrava un senso assolutamente religioso. Era quindi inutile raccomandargli di fare i vestiti più lunghi o più stretti, di rabberciare un difetto o di curare un particolare. Il sarto cinese assicurava che avrebbe seguìto le vostre indicazioni, ma viceversa si atteneva rigorosissimamente alla copia ricevuta e arrivava al punto, se la copia aveva — poniamo il caso — una pezza, di rovinare l’abito nuovo appiccicandogli l’aggiustatura del vecchio.
Ma tutte queste cose si apprendevan più tardi, entrando in dimestichezza con lui. Quello che s’imparava subito era il modo di trattar l’italica favella, cinesizzandola, vale a dire limitandosi a pronunciare la prima sillaba soltanto di ogni parola o due, ma mai di più; per modo che io diventavo il signor Ci e i pantaloni erano i pa e la tasca ta e il filo fi e così di seguito. Usciva quindi dalla bocca del sarto un cinguettìo prolungato, accompagnato da gran gesti che facevano da complemento del discorso e finivano per produrre un effetto straordinariamente esilarante, il quale, congiunto ai movimenti a saliscendi della persona di Pu Siung, vi lasciavano delle conversazioni con lui un’impressione indimenticabile.
Alla quale impressione bisogna aggiungere quelle dell’atelier fra le quali la più forte, se non la più gradevole, era il sistema di stiratura dei capolavori di Pu Siung. L’operazione veniva fatta da stremenzite ragazze a cui l’acqua per inumidire il panno o le tele sembrava ignota, poichè impiegavano unicamente la saliva. E alle rimostranze per quel sistema disgustoso, il sarto rispondeva con un torrente di dittonghi che, secondo la sua intenzione, volevano significare lo stupore per l’ostinazione europea a trovar ripugnante ciò che per il cinese è semplicemente comodo.
Pu Siung era dunque un meraviglioso copiatore di indumenti europei, ma le sue simpatie maggiori andavano alle divise militari. A questo proposito affermava che l’episodio più insigne della sua vita consisteva in un’ordinazione di uniformi per il maresciallo Cian Zo Lin, alla vigilia del grande urto che le truppe di costui dovevano sostenere con quelle di Wu Pei Fu, battaglia che fu combattuta con non poco spargimento di sangue presso Shangaikwan. Tutti eran sicuri che avrebbe vinto il satrapo mancese soccorso dai giapponesi, viceversa vinse Wu Pei Fu, perchè sul più bello del combattimento un divisionario del primo passò con tutta la divisione all’avversario. Cian Zo Lin battuto si ritirava in fretta verso Mukden e il povero Pu Siung, dinanzi al saccheggio messo alla città dalle soldatesche vincitrici, aveva issato sull’insegna della sua sartoria la bandiera italiana nella speranze di sottrarla alla devastazione. Senonchè, le violenze dei saccheggiatori nella città andavano diventando così rabbiose, che neppure le bandiere europee valevano molto a proteggere le case di quelli che le avevano inalberate e allora Pu Siung ebbe un’idea veramente geniale. Vergò in fretta, con i più vistosi caratteri della terra fiorita, una tabella, annunziando alla violenza armata e scatenata dei gregari di Wu Pei Fu, che la sua bottega conteneva delle divise nuove fiammanti per il maresciallo vittorioso.
Non fu creduto. I saccheggiatori forzarono egualmente la sua porta, ma trovarono Pu Siung che si avanzava a saliscendi porgendo loro un grosso involto dove stavan ripiegate le divise ordinategli da Cian Zo Lin, gridando, in cinese puro questa volta, che nessuno si attentasse a toccar quella roba che egli aveva confezionato ad intenzione di Wu Pei Fu, sapendo a priori che sarebbe stato il vincitore.
Venne accompagnato alla presenza del maresciallo pechinese sostenitore dell’illustre Gabinetto repubblicano di Wellington Koo, insediatosi all’ombra del marmoreo palazzo imperiale della Corte del Nord (Pe-king), ma a cagione della gamba corta e dell’importanza del donativo, i soldati gli permisero di usufruire di un risciova, cioè di una vetturetta trascinata da un coolie. Per la strada, Pu Siung pensava con terrore che Wu Pei Fu era di una taglia un po’ più grossa di Cian Zo Lin e che quindi la sua bugia sarebbe stata scoperta ed egli ne avrebbe pagato il fio con una solenne bastonatura. In quanto agli ornamenti che gli abiti portavano si sentiva più sicuro, poichè maresciallo era l’uno e maresciallo l’altro e sapeva che ufficiali e soldati dei vari eserciti del suo inverosimile ed anarchico paese, andavano vestiti tanto similmente che, durante la battaglia, per distinguersi, avevano adottato bracciali di diverso colore come fanno le truppe europee alle grandi manovre.
Ma Pu Siung fu fortunato. Wu Pei Fu amava le uniformi attillate: accettò quindi di buon grado quelle che così impensatamente gli venivano offerte e largì al gran sarto la sua benevolenza e anche un certo numero di dollari come compenso della sua attenzione e dei pronostici favorevoli alla vittoria delle sue armi che egli aveva in segreto formulati, bruciando dinanzi alla statuetta di Budda, dominante la sartoria, molte bacchette d’incenso.
Senonchè la vittoria del maresciallo pechinese fu così effimera da non dar neppure a Pu Siung il tempo materiale per rifare le uniformi di Cian Zo Lin che aveva dovuto passare a Wu Pei Fu. Per modo che quando il gran mancese ritornò a Shangaikwan, il sarto non si sentì sicuro che al riparo delle mura del forte italiano dov’era sbocciata in origine la passione della sua arte e lì, sotto la protezione dei cannoni e delle mitragliatrici e fra i lazzi dei nostri marinai, ricostruì le uniformi del nuovo vittorioso con il vantaggio tuttavia di riuscire ad allargare le sue conoscenze della lingua di Dante, vale a dire di imparare la prima sillaba e tutto al più la prima e la seconda, ma sopratutto una quantità di nuovi vocaboli partenopei, poichè la maggioranza dei nostri marinai era di Napoli.
LA DOPPIA MORTE DI UN UOMO INSIGNIFICANTE.
Nelle vie di Buenos Aires, Luis Sierra ostentava quel mattino un magnifico impermeabile quasi azzurro. Con la sigaretta accesa fra le labbra, percorreva l’Avenida de Mayo, guardando la cupola del Palazzo del Congresso, sentendosi quasi allegro per l’atmosfera brillante e un poco fredda che lo circondava nella chiara giornata di fine d’autunno. Impermeabile nuovo, ventinove anni, che cosa poteva desiderare di più? Una donna? La donna sarebbe indubbiamente venuta. Tutte le volte che Luis si poneva addosso un indumento nuovo, la sua oscura gioventù s’illuminava della speranza di un amore grande e forte. L’uomo vive di grandi speranze e di piccoli ricordi. «Che cosa mi accadrà oggi?», si ripeteva pavoneggiandosi nell’impermeabile azzurro. Si decise a rivolgere la sua attenzione alle ragazze che passavano. Ne osservava i passettini orgogliosi, sussurrava dei complimenti, offriva loro di accompagnarle, le invitava a prendere il caffè, ad accettare dei fiori; però esse passavano via silenziose e chiuse, facendo risuonare gli alti tacchi sul selciato. Nessuna gli sorrideva, nessuna lo guardava invitandolo a seguirlo. Era l’ora di andare all’ufficio o al laboratorio e non avevan tempo da dargli ascolto. Peccato!
L’apparente indifferenza delle ragazze e il risultato negativo dei suoi inviti finirono per irritarlo. Non si dava conto che l’ora era inopportuna. Pensava soltanto che indossava un impermeabile quasi azzurro e nuovo e che, essenzialmente per questo, le donne avevan l’obbligo di corrispondere alle sue premure. Si sentì annoiato e discostandosi dalle donne prese a considerare se stesso. Non aveva nulla da fare, era momentaneamente senza impiego, ma la disoccupazione non lo preoccupava. Disponeva di qualche migliaio di pesos alla banca, era solo al mondo. Sua unica parente, una vecchia zia che dimorava a Cordova e che non aveva bisogno di lui. Riflettè che l’uomo solo è più forte. Qualche mese prima aveva pagato alla società di cremazione il diritto ad essere, dopo morto, carbonizzato. A suo tempo la società avrebbe reclamato il suo corpo per infilarlo in un forno e… cenere!, come quella della sigaretta che aveva gettato all’angolo dell’Avenida con la Calle del Perù.
L’idea della morte lo scosse come un grido durante il sonno, ma fu un sussulto momentaneo. Passò dinanzi alle vetrine senza guardarsi nei vasti cristalli che raccolgono giornalmente la visione fisica della vita della metropoli. Un turbamento nuovo aveva attenuato la piccola gioia suscitatagli dall’impermeabile nuovo. I suoi pensieri prendevano insensibilmente, ma senza grande amarezza, il cammino della morte. Luis Sierra si sentiva scettico e contraddittorio nella materia. Le sue idee sulla morte e l’immortalità dell’anima non eran definitive. Consisteva la morte in un fenomeno fisico puro? Le forze spirituali finivano nel punto dove terminavan le materiali? E l’anima che cos’era? La facoltà di pensare veniva distrutta quando l’organo generatore del pensiero periva o aveva delle manifestazioni posteriori? Non ne sapeva nulla. Aveva letto qualche cosa su quel particolare ma i filosofi spiritualisti e Platone, i biologi e Socrate, Maeterlinge e Bergson, rappresentavano, nel suo limitato cerebro d’impiegato di banca, una confusa coorte.
Così Luis Sierra solido nel corpo, ma vacillante nello spirito, pensando alla morte, sforzandosi di scoprir chiarore nella sua mente buia come una calle della Boca, fu colpito da un immenso frastuono. Tornò alla realtà e levò il capo. Si trovava nel centro della strada di faccia alla vasta Plaza de Mayo. In quel momento un orologio dalla sua alta torre suonò le dieci. Scorse di fronte i vecchi portici della Recova, alla destra la casa del Cabildo, alla sinistra la facciata della casa Rosada. In un quinto di secondo i suoi occhi mortali raccolsero le immagini di quel punto caratteristico dell’immensa Buenos Aires e videro, a quattro metri dal suo corpo, un enorme autocarro grigio che avanzava ad una velocità che gli parve di un milione di metri al secondo. Cercò di scansare il veicolo ma la sola