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I ministeriali
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E-book236 pagine3 ore

I ministeriali

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Sette ministeriali, quattro donne e tre uomini. Ad accumunarli, le loro vite personali e professionali completamente sfasciate e il disprezzo dei loro Capi.

Lavorano insieme all'Ufficio Reclami del Ministero che, a loro insaputa, ha deciso di sperimentare su di loro un protocollo di lavoro basato sulla vessazione del sottoposto, come unico mezzo per la riabilitazione professionale. Se funziona, verrà applicato per effetto domino a tutti i dipendenti pubblici.

Ignari di quello che sta per accadere, i nostri eroi accettano di scendere nei sotterranei del Ministero e di distruggere a mezzo fuoco una montagna di carte che giace lì da più di ottant'anni, salvando dalle fiamme quelle che secondo loro sono di interesse nazionale.

Eppure, quello che sembra un compito ingrato e noioso si trasforma in una vera e propria avventura. All'interno dei faldoni c'è un fascicolo su cui appare il nome di un uomo influente, che ha cambiato il destino dell'umanità. È una storia vecchia di ottantatré anni, ma più che mai viva. Una storia che si mescola alla loro e che dovranno proteggere anche a costo di grandi sacrifici.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2021
ISBN9791220334402
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    Anteprima del libro

    I ministeriali - Nunzio Arena

    info@youcanprint.it

    Prefazione

    Da quell’autunno 2017, i miei risvegli non sarebbero più stati scanditi dalle umide e appiccicaticce albe del Golfo Persico, bensì dalle rigide e livide mattinate romane. Tutto sarebbe stato ritmicamente contrassegnato da traumatizzanti musichette di suonerie puntate alle 07:05 di ogni sacrosanta mattina, che impietose, mi avrebbero strappato a chissà quali indicibili sogni, e consegnato al dentifricio dal fiore in bocca.

    Tornavo a essere un ministeriale. Anzi, IL MINISTERIALE.

    Ancor prima di farci conoscere il suo nome, Roberto Mavromati si presenta così, identificandosi con un lavoro che diventa la sua stessa identità. Ed è di sicuro una scelta originale quella di affidare al protagonista di un romanzo un incarico così peculiare, di cui tutti abbiamo sentito parlare senza però conoscerne i retroscena.

    Questo è uno dei motivi che rende sin da subito I ministeriali un romanzo arguto e fuori dalle righe. E la scelta del plurale nel titolo è più che indovinata, perché attorno alla figura di Roberto ruotano quelle di altri personaggi, le cui vite si intrecciano alla sua in modo indissolubile. L’opera è quindi un romanzo corale, in cui ogni personaggio ha una forza dirompente, nonché una storia personale, ingegnosamente costruita, che lo rende unico e peculiare.

    Il compito di questi ministeriali assegnati all’Ufficio Reclami del Ministero degli Affari Esteri vuole fingersi noioso e ripetitivo, una costrizione da cui sarebbe bello poter fuggire. Eppure il romanzo ci mostra che la vita non è mai come sembra, e che ogni giornata può diventare un’avventura. Ed è proprio quello che accade al gruppo di colleghi che, scovando dei vecchi materiali, si ritrovano a vivere una storia inedita, che li trascina fino in fondo in una vita quasi parallela. Ma guardiamo più da vicino la premessa:

    Si è pensato quindi di creare una -Seconda Sezione- dell’Ufficio Reclami, facendo in essa confluire le migliori risorse umane in forza a questo ministero.

    Alla nuova Seconda Sezione verrà assegnata l’individuazione di tutto quel carteggio da decenni custodito nei locali di questo palazzo, e che ora per decorrenza dei termini è da ritenersi potenzialmente distruttibile ai termini di legge.

    Il loro lavoro è semplice: spacchettare i faldoni e individuare il carteggio da distruggere a mezzo fuoco. Poi, passare alla distruzione vera e propria negli inceneritori di cui il Ministero dispone nei sotterranei del palazzo, sotto la supervisione di un militare dell’Arma dei Carabinieri. Eppure, I ministeriali non sarebbe stato un romanzo così avvincente e appassionante se tutto fosse andato secondo i piani, se i personaggi non si fossero fatti coinvolgere da una vicenda più grande di loro.

    Ci colpì e ci spiazzò la leggerezza con la quale ci diedero luce verde nel selezionare a nostro piacimento quello che andava con cura salvato, da quello che sarebbe invece andato bruciato per sempre. Assurdamente lasciavano al nostro libero arbitrio la valutazione di chi, o meglio di cosa, doveva essere riesumato e catalogato, e cosa invece consegnato per sempre alle fiamme. Il giorno seguente con fare quasi cospirativo, ci ritrovammo davanti alla macchinetta del caffè, decidendo di stendere un piano d’assalto.

    La particolarità del romanzo sta anche nella capacità dell’autore di trasformare la storia in una storia nella storia. C’è quello che accade in ufficio e nel suo seminterrato, ma c’è anche quello che accade alla psicologia e alle emozioni dei protagonisti. E le due cose sono interconnesse e intrecciate, perché l’una non potrebbe sopravvivere senza l’altra. I ministeriali si farcisce quindi di emozioni forti e travolgenti, in cui non mancano la rabbia, la paura, ma anche l’amore. E partendo dal pretesto di un canonico lavoro, l’autore sviluppa e approfondisce fino in fondo la psicologia di coloro che ne fanno parte, addentrandosi sempre più a fondo nella loro interiorità.

    E con tutto quello che i protagonisti vivono, la domanda sorge spontanea: quanto di loro rimarrà dopo questa vicenda? Riusciranno a sopravviverne indenni, oppure non saranno più gli stessi che erano un tempo?

    Nota dell’autore

    La narrazione è da ritenersi per intero frutto della fantasia dell’autore.

    Eventuali riferimenti a fatti, luoghi e personaggi sono da ritenersi puramente casuali.

    I dipendenti del Ministero Affari Esteri italiano in servizio in Italia ed all’estero sono dei professionisti che hanno sempre operato con abnegazione e lodevole impegno per ben far figurare la nostra nazione.

    Capitolo I

    Grande era grande! Non si poteva di certo dire che l’uomo mandato dalla provvidenza avesse badato a spese per farlo tirare su.

    Nato per ospitare la sede del Partito Fascista, il palazzo della Farnesina era stato commissionato a ben tre grandi architetti del ventennio, un chiaro guanto di sfida all’architetto del Reich, Albert Speer.

    Un’immensa struttura, molto più accostabile a un mausoleo funerario che a un Ministero degli Affari Esteri, si era da subito rivelato molto poco funzionale come ente pubblico, ma giovevole al reale scopo, cioè quello propagandistico del regime fascista. Da lui fortemente voluta, l’opera era da considerarsi la creatura delle creature, forse la più amata dal Duce, il Cavaliere dell’impero Benito Mussolini.

    Gli autori del progetto, con meticolosità e ingegno, erano riusciti a disegnare due immense ali, apparentemente indipendenti tra loro, ma al tempo stesso convergenti nei versanti interni così da formare un’unica struttura che, dal finestrino di un velivolo in sorvolo su Roma, si potesse ammirare come una titanica M, e che agli occhi degli assoggettati passeggeri non avrebbe fatto risultare ardimentoso il compito di accostare quella M al nome del suo stesso ideatore.

    Era chiaro l’intento del regime di indurre i visitatori, ancora prima di toccare l’italico suolo, a credere che gli italiani fossero come quella struttura sotto i loro occhi: un popolo granitico e soprattutto come amava ripetere l’inquilino di Palazzo Venezia, degno erede dell’antica stirpe romana. Da vicino appariva ancora più bianco e mastodontico, tanto che l’ingresso si prestava a fantasiosi accostamenti, facendolo diventare la minacciosa bocca di Moby Dick di Herman Melville.

    Per i visitatori, oltrepassarlo avrebbe significato essere inghiottiti nel ventre della grande balena bianca.

    Dal Ministero degli Affari Esteri ci mancavo da dieci lunghissimi anni, e più precisamente, dal marzo 2007, ossia da quando ero stato assegnato in servizio all’Ambasciata d’Italia nel Regno Unito. All’ombra del Big Ben ero rimasto sei, meravigliosi e irripetibili anni, trascorsi fra gran premi ippici di Ascot e i mercatini di Camden Town. Alla fine di quegli anni, dalla nebbiosa Londra fui riposizionato nell’umidissima Abu Dhabi: Ambasciata d’Italia negli Emirati Arabi Uniti. Dalla terra degli Emirati fui cacciato in malo modo dalle autorità del paese e con solo quarantotto ore di preavviso.

    Ero stato scoperto a intrecciare una pericolosissima e lussuriosa relazione con una giovane nobile di Dubai, imparentata con gli emiri regnanti. Così fui denunciato alla rigidissima polizia religiosa.

    Come si conveniva di prassi in questi casi, le autorità del posto con garbo e Nota Verbale del loro Cerimoniale invitavano l’Italia a valutare il mio rientro in patria, in quanto la mia persona non era più compatibile con il territorio degli Emirati Arabi Uniti.

    In buona sostanza, ero stato dichiarato PERSONA NON GRATA, come si sarebbe detto in altri tempi. Di fatto chiedevano, al mio impotente e tramortito ambasciatore d’impacchettarmi e rispedirmi al mittente: pena la rimozione dell’immunità diplomatica con conseguente imprigionamento e punizione corporale molto in voga da quelle parti.

    E così, espulso dal paese del Burj Khalifa e subito richiamato a Roma, ora me ne stavo lì davanti, come pietrificato, a fissare il ministero, scrutando da lontano quel parallelepipedo bianco, certo, che da lì a pochi minuti avrebbe inghiottito anche me nel suo insaziabile ventre, e con me non avrebbe nemmeno risparmiato i miei pensieri, quelli fatti e quelli in divenire.

    Da quell’autunno 2017, i miei risvegli non sarebbero più stati scanditi dalle umide e appiccicaticce albe del Golfo Persico, bensì dalle livide mattinate romane. Tutto sarebbe stato ritmicamente contrassegnato da traumatizzanti musichette di suonerie puntate alle 07:05 di ogni sacrosanta mattina, che impietose, mi avrebbero strappato a chissà quali indicibili sogni, e consegnato al dentifricio dal fiore in bocca.

    Inscatolato come Corn Beef gelatinosa, dentro un vagone della linea B, intabarrato alla fermata del 29 Circolare A, tra vecchi odori agroalimentari dell’ex URSS e nuove spezie pakistane prestate agli italici aliti, me ne sarei rimasto passivo nella mia rassegnazione, lasciandomi corrodere dall’immutabile corso delle cose.

    Avrei ripreso a ingurgitare secchiate di caffè dalla macchinetta ministeriale, magari disquisendo e inveendo contro il collega di opposta fede calcistica. E poi c’era la mensa. Già, la mensa ministeriale. Le file come da contratto, il cartellino da timbrare, l’insalatina e la bistecchina: no, oggi solo ricottina magra. Sì, insomma, mi apprestavo a rivestire i panni di quello che per molti, moltissimi italiani sarebbe stato il sogno di una vita, la chimera, la felicità delle mamme di tutta la penisola. La quintessenza dell’impiegato statale.

    Tornavo a essere un ministeriale. Anzi, IL MINISTERIALE.

    L’ingresso imponente e austero, s’intonava bene con la quasi sacralità del palazzo. I controlli, rigidi ma gentili, gli conferivano ancor più il senso della caratura istituzionale, rendendo l’ambiente solenne ma inadeguato per le necessità e le sfide dei nostri giorni.

    Dei sei piani che lo sagomavano quello dove, mio malgrado, ero stato invitato, era il terzo. Il più temuto. Essere convocati al quel piano equivaleva a una inappellabile sentenza di condanna.

    A memoria d’impiegato doversi recare al quel piano avrebbe certamente significato inevitabili sciagure personali e, per effetto domino, anche familiari. Di quel piano si narravano le sevizianti vessazioni subite dai dipendenti.

    Sì, in buona sostanza era sempre meglio girare alla larga dal terzo piano.

    Ma si sa, a volte per quanto uno si sforzi di evitarle, le sciagure spesso sono munite di un efficientissimo cercapersone. Tanto vale andare loro incontro.

    Finalmente fui al terzo piano. Appena fuori dall’ascensore, mi immisi sul lunghissimo diadromo che attraversava il ministero da un’ala all’altra. Decisi di rallentare perché in anticipo sull’ora convenuta dell’audizione, ma in realtà stavo cercando di riordinare le idee e impormi una calma inspiegabilmente smarrita. Indirizzai lo sguardo sui dipinti che nobilitavano quei corridoi. Passavo in rassegna quadri e sculture di pregevole fattura. Cercavo di assegnare a ogni dipinto la sua epoca d’appartenenza, evitando accuratamente di leggere la didascalia riportata in tre differenti lingue sulla targhetta. Con la mente provavo a plasmare i volti di ogni singolo componente della commissione, ma tutto e tutti mi risultavano sfuggenti. Eppure avvertivo che stavano affilando le armi della censura, tutto mi appariva come immodificabile: "cronaca di una morte annunciata".

    Da quell’incontro ne sarebbe scaturita la mia punizione e la conseguente, assegnazione a un ufficio sperimentale. Sarei stato riposizionato in una sorta di limbo da ultima chiamata, dal quale o ne sarei riemerso redento, o definitivamente sprofondato nel licenziamento. Staccai lo sguardo dall’ultimo dipinto, e voltandomi dalla parte destra, a non più di trenta metri scarsi di distanza, intravidi un giovane parato innanzi a una porta, gambe leggermente divaricate e braccia conserte. Man mano che la distanza tra me e la figura di quell’uomo andava sempre più assottigliandosi, potevo meglio delinearne i contorni. Non più alto di un metro e settantacinque, indossava una livrea nera, e la porta che presidiava era quella oltre la quale mi attendeva la sentenza.

    Quando fui a non più di due metri dalla persona, capii che si trattava dell’usciere in servizio. Se ne stava lì, immobile e minaccioso, come un cerbero agli inferi. Provocatoriamente mi scrutava da capo a piedi sottoponendomi a una selezione ottica prima di lasciarmi passare oltre. Dal canto mio, non potei esimermi dal constatare, che quello che da lontano sembrava un giovane ben messo, in realtà era un uomo di mezz’età male in arnese.

    «La stanno aspettando!» mi sibilò a mezza bocca, accompagnando l’esortazione con la distensione del braccio all’indirizzo della porta da varcare, un po’ com’era d’abitudine fare ai vigili urbani nell’intento di deviare il traffico nell’ora di punta.

    Mi immisi dentro a un corridoio interno che scorreva parallelo a quello da me appena percorso, insolitamente spoglio di ogni cosa. Mi riportò alla mente una lunga corsia d’ospedale, immaginai persino il tanfo del disinfettante e l’odore di pastina in brodo distribuita alle sei di sera. All’istante realizzai di stare in un’anticamera da loro studiata, una sorta di tatticismo nascosto. Ero già entrato nella fase dello sfiancamento. Antica, ma mai dismessa strategia del capo quando vuole un po’ godersela prima di dilaniare la preda. Conoscevo il campo di scontro, le loro mosse, le mie contromosse e quelle successive di entrambi.

    Avevo badato a curare in ogni minimo dettaglio il mio abbigliamento, non una sola sfumatura era passata in secondo piano.

    La cravatta, appena svasata dal panciotto lievemente inarcata in avanti, era di un rosso tenue con confusione di puntini bianchi, tanto da renderla accondiscendente ma non sottomessa.

    Indossavo un principe di Galles, molto James Bond in Goldfinger, che mi slanciava e mi corazzava, conferendomi prestigio e saggezza. La barba grigia e accuratamente incolta sigillava quella che nel comune senso della gente si poteva definire la faccia di una persona affidabile.

    «Si accomodi, si accomodi puve!»

    L’invito, da parte di una voce femminile, mi giunse ovattato come se la distanza tra me e la persona che lo aveva formulato ne avesse addomesticato il timbro.

    Appena dentro lo stanzone provai nell’immediato la strana sensazione di colui che già sa quello che gli sarebbe capitato da lì a poco. Con lo sguardo cercai la donna dell’invito, ma non la trovai seduta lì dove di norma avrebbe dovuto essere. Disorientato, feci un mezzo giro di stanza con lo sguardo a periscopio, e finalmente la individuai. Se ne stava dritta, a ridosso della finestra chiusa che dava sul Foro Italico.

    Con un gesto del capo e la sufficienza di chi sa di essere in comando, senza voltarsi, mi indicò una delle sedie che adornavano lo stanzone spoglio ed essenziale.

    Annuendo, feci sette, forse otto passi, e raggiunsi una delle due sedie disposte per gli ospiti.

    Sedetti avendo cura di non staccare gli occhi da quella donna, che ancora tenendo il punto, non si era degnata di rivolgermi un solo sguardo.

    Accettai che ci poteva stare, era nel gioco delle parti.

    Se ne stava ancora impettita, stoccata alla finestra dandomi le spalle in segno di disprezzo e distacco, mal celando il fastidio che la mia presenza le scaturiva.

    Ora riuscivo a scrutarla, mi appariva nella sua totale figura, quasi diafana, trafitta com’era dalla luce, che bucando i vetri metteva in risalto la sua immagine di donna vincente. Era distratta, come inabissata nei suoi dubbi e nelle sue certezze, sicuramente era altrove.

    Continuava con insistenza a guardare fuori, quasi impossibilitata a chiudere quel tratto di giornata. Stava però attenta a non fissare un punto, concentrandosi sulla vastità del nulla che oltre la finestra si presentava fluido e sfuggente.

    Chissà, forse era innamorata.

    La blindatura del suo tailleur blu cerimoniale non dava adito a sbavature, non una mossa scomposta, non una smorfia. Era prosa pura.

    Si lasciò andare a un lungo sospiro, dandomi l’ingannevole sensazione di voler accorciare le distanze tra chi comanda per titoli, e chi esegue per fato. Aveva studiato bene la parte, ogni sequenza s’incastrava alla perfezione in quella seguente.

    Il timbro di voce, i fascicoli disposti con strategica cura sulla scrivania, rendevano la scena naturale, ma in realtà nulla era stato lasciato al caso. Quando finalmente anche l’ultimo atto di quel costrutto di media fattura ebbe preso il via, la donna fasciata dentro il suo tailleur blu ministeriale, di una taglia e mezza più stretto per esaltarne le sinuose curve, con scatto nervoso venne alla volta della scrivania.

    Il suo volto ora mi appariva ancor più bello e livido di quanto si andasse raccontando nel palazzo. Ora che si era girata verso di me, e mi stava puntando, quel viso bianco e scavato lasciava trasparire a tratti, piccole, quasi impercettibili smorfie di timida e recondita umanità, soffocata a forza nel suo animo, oramai irreversibilmente sporcato dall’ebbrezza del comando.

    Inaspettatamente, il mio sguardo riuscì a incrociare il suo e non mi fu difficile scorgere nei suoi occhi l’assoluto disprezzo del suo ceto sociale verso il mio.

    L’odio atavico per i suoi sottoposti, ereditato al pari dei gioielli di famiglia, la portava a considerare le qualifiche funzionali figli di un dio minore.

    Quella donna si era fatta issare l’ufficio tutt’attorno alla sua megalomania, plasmandoselo addosso quasi fosse una sua protuberanza, un suo essere in sé, trasformandolo in uno e trino, casa-mensa-ufficio, trino e uno, ufficio-mensa-casa. Viveva perennemente in simbiosi con i fascicoli e le norme. A tempo debito quel luogo si sarebbe persino trasformato nel suo Pantheon.

    Per la mia statura relegata nella media nazionale, quella giovane donna era alta, molto alta. Le scrutai gli angoli della bocca, su di lei tutto era disegnato con grazia, quasi fosse stata preparata su carta, prima di essere concepita a letto.

    Non doveva avere più di trentacinque anni, ma si sforzava di caricarsene

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