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Toccarsi d'ombra
Toccarsi d'ombra
Toccarsi d'ombra
E-book226 pagine2 ore

Toccarsi d'ombra

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Info su questo ebook

Giovane restauratrice di mobili, Bianca parte dal suo villaggio natio per affogare la sua tossica relazione con Guglielmo e approdare a un rifugio fatto apposta per lei. Ospite dei signori Fuchs, Bianca impara a stupirsi di nuovo. Un laboratorio angusto, una sala da ballo d’altri tempi, un contadino galantuomo e una domestica egocentrica; e poi Philipp, con le tasche finalmente da uomo e la stessa sua paura di sentire l’affanno di vivere. Bianca parte per ritrovarsi, e resta per conoscere quel Tutto che si scopre solo quando s’impara finalmente ad amarsi, prima piano con discrezione, e poi forte con tutto il coraggio.

Chiara Natalie Focacci si divide tra Austria e Italia, si laurea in Scienze economiche presso l’Università di Bologna e in Storia presso l’Università di Oxford, conseguendo un dottorato in Law & Economics presso l’Università di Bologna, l’Università di Amburgo, e la Erasmus University Rotterdam. Alterna la sua passione per la ricerca alla scrittura di romanzi e poesie. Dopo il suo romanzo d’esordio, L’apostrofo nel bicchiere (ed. Seme Bianco, 2019), segue nel 2021 la sua raccolta di poesie in italiano e inglese La notte è come se vedessi — The night is as if I could see (Europa Edizioni). Oltre ad articoli su riviste scientifiche internazionali, ha scritto su temi legati al mercato del lavoro per “Sbilanciamoci!”, “La Voce” e “Toscana Oggi”. Ovunque, cerca forme d’Amore.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ago 2022
ISBN9791220132824
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    Anteprima del libro

    Toccarsi d'ombra - Chiara Natalie Focacci

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    Chiara Natalie Focacci

    Toccarsi d’Ombra

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-2732-5

    I edizione agosto 2022

    Finito di stampare nel mese di agosto 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Toccarsi d’Ombra

    A Veronika, Caterina, Maddalena, Dafna, Miriam, e Maria Teresa

    Prologo

    «Bianca?»

    Da dentro, Bianca sentiva i passi impazienti di Guglielmo avvicinarsi non più soltanto alla porta ma addirittura alla finestra. Forse si sarebbe azzardato a bussare con le nocche sul vetro sporco, coperto a metà dalle persiane. Forse avrebbe lasciato un mazzo di rose rosso scuro appese al cancello assieme a un bigliettino riciclato con su scritto qualcosa come "Sei proprio una bastarda, te ne pentirai".

    «Allora? Lo so che sei lì dentro. Aprimi, ho bisogno di parlarti».

    Fuori era arrivata la primavera, e una civetta continuava lo squittio tremendo che aveva incominciato prima che Bianca aprisse la porta, lei che alla porta ci si era avvicinata determinata a usare l’ultima freccia che aveva a disposizione; quella della vergogna. Quella della gente che si sporge in avanti per vedere i treni che corrono, chiedendosi cosa potrebbe succedere (ma certo, lo sanno) se ci si sporge troppo. La gente, cioè, succube del pericolo. Col cuore che, adesso, non era più al centro della cavità toracica ma al centro della sua gola pulita.

    «Basta. Non devi azzardarti a venire qui, non so più come dirtelo».

    Aveva maledetto le luci accese all’ingresso e poi Greta che, per via di quella insopportabile ingenuità di figlia viziata, gli aveva regalato il nuovo indirizzo di Bianca. A Guglielmo, infatti, era bastato promettere Amore eternissimo per Bianca, vantarsi di quella relazione troppo complessa e sconosciuta agli altri ("Voi non potete capire"), e rinunciare al sospiro teso che, di norma, accompagnava le sue mani velenose nascoste sotto le ascelle e le sopracciglia bastarde a mo’ di triangolo. Sì, a Greta era bastata questa terribile messa in scena.

    «Perché?».

    «Vattene, Guglielmo. Voglio che tu te ne vada. Voglio che tu mi lasci in pace. È finita».

    Adesso Guglielmo le aveva afferrato una mano.

    «E no. Non mi devi toccare».

    Adesso Guglielmo piangeva.

    «Infame».

    «Addio, Guglielmo».

    Lo guardava diventare piccolo e insignificante, eppure pericoloso. Perché gli aveva tolto quel grottesco senso di legittimazione a cui Guglielmo era abituato e dunque lui di questo si sarebbe vendicato.

    1

    Le partenze

    Aveva guardato un attimo l’orologio, poi fuori dalla finestra. E adesso guardava la sorella come una creazione di donna nascosta dentro a se stessa.

    «Torno presto, cuore mio. Mio, stravolgente, bellissimo cuore! Non ti preoccupare».

    Era la prima volta che si separavano, che aspettavano insieme il manifestarsi, per niente insipido, dell’assenza.

    Perché, partendo, Bianca non avrebbe soltanto rinunciato alla vicinanza necessaria di quella ragazza che avrebbe fatto un’invidia straordinaria persino ai Vinti di Verga. Era che crepava di paura se si domandava chi fosse lei senza Adele; lei senza poterla annaffiare d’amore e d’attenzioni; lei fuori di sé. Non era mai stata, in fondo, qualcun’Altra; e che tremenda e rilassante sensazione l’accerchiava, adesso.

    «Mi chiami quando vuoi, d’accordo?».

    Bianca insisteva, mentre la sorella muoveva le mani freneticamente, in alto e poi in basso, in alto e poi in basso. Senza pace, come a voler congelare quelle fiamme sottili che la pizzicavano dentro. Ma ora la bocca si calmava, gli occhi tornavano al loro posto; fermi. Lo spettacolo magnifico in cui Adele era attrice e tecnico di sala e regista e pubblico era appena giunto al termine.

    «Sì. S-Ì».

    Adele sghignazzava in maniera paralizzante, come quando sognava di notte.

    Fare lo spelling era, da sempre, il suo gioco preferito e Bianca poteva finalmente partire tranquilla, come un angelo richiamato d’urgenza all’empireo.

    Tutti quegli anni sprecati generosamente al servizio della sorella nonostante i genitori le avessero ripetuto, un giorno alla volta, di non preoccuparsi. Che c’erano loro, che Adele le avrebbe sempre voluto bene, che adesso era arrivato il momento di fare quel passo in più, Su, vai. Per se stessa, appunto.

    Si abbracciarono infinitamente. Bianca respirava nel suo maglione di lana sfortunato e Adele le stringeva forte i fianchi fino a sollevarla in aria. Sua sorella minore era leggera come i tuorli d’uovo color albicocca; quelli appena montati che sembrano panna. Eppure era pesantissima perché, senza Adele accanto, avrebbe sentito di nuovo quel peso insopportabile che le aveva messo addosso Guglielmo.

    «Partire. P-A-R-T-I-R-E».

    Bravissima, avrebbe voluto dirle Bianca, ma non ci riuscì. Sommersa da cima a fondo dal senso di impotenza che lui le aveva regalato, sacrificarsi per intero a Adele era diventato l’unico modo per ricordarsi il briciolo di valore che lei era. L’incidente in cui Adele era quasi morta, una volta per tutte, era diventato il preziosissimo giogo che teneva Bianca in vita.

    Prima di scendere a prendere il taxi, salì un’ultima volta in casa, afferrò la foto di quando erano ancora due monelle acerbe e la infilò nel portafoglio. La vita trasmuta con la stessa fretta dei passeggeri che si appisolano da un lato per poi venire risvegliati dalla voce di speaker materna e impaziente che li invita a imbarcarsi in aria e tornare a casa. Un momento prima siete tu e tua sorella che vi arrampicate, prima silenziosamente e poi ferocemente, sulla muraglia di pietra sgretolata di fronte al ristorante dove andate quasi ogni domenica, per pranzo. Un momento dopo Tutto cambia. Bianca è sola; Adele è sola. E fa male perché quando si guardano lo sanno. Gli occhi inconsapevoli di Adele raccontano tutte le strade che hanno percorso, le bambole che hanno pettinato, i biscotti che hanno mangiato (quanti!). Insieme.

    Succede, allora, che gli occhi di Bianca si riempiono di fastidiose lacrime. Perché come aveva potuto, Adele, scaraventarla in quel mondo così cosciente e palpabile senza neppure chiederle il permesso? Metterle in mano la loro foto, come a dirle che, certo, andava bene così, che, ora, finalmente era arrivato il suo turno; quello soltanto di Bianca?

    Perché Adele non l’aveva deciso, di trasformarsi a quel modo. Ma soprattutto, ora che Bianca era quasi riuscita a staccarsi da Guglielmo, Adele non aveva deciso di rimanere intrappolata, apposta, sotto quella macchina che alle strisce aveva accelerato. Era Bianca, invece, che era tornata lì, nel punto della nuca che tira all’indietro come fosse piena d’aghi. Prima nella casa dei genitori, poi nella consolazione di valere qualcosa soltanto in quel modo, vivendo per Adele. Perché per se stessa, questo Guglielmo glielo aveva insegnato benissimo, lei non poteva farlo.

    «All’aeroporto, grazie».

    Le due valigie dietro si stuzzicavano a vicenda, vicine ma pronte per essere portate lontane come due rondini d’Aprile che fanno fatica a staccarsi sul serio; lei e Adele.

    All’aeroporto le pareva tutto sinistro, ma allo stesso tempo accogliente (la libertà profuma, non è vero?). In maniera amabilmente sincera, l’uomo alto e possente che le ricordava Frankenstein le sorrideva dall’altro capo della fila suggerendo qualcosa come: Già, l’ennesimo volo in cui ci tocca ascoltare le polemiche inconcludenti della gente. Gente che prova a maltrattare la melodia della vita in un posto specifico e delimitato come il gate di un aeroporto di provincia, ma che finisce per rovinarla su tutte le superfici della terra; basta così poco.

    Bianca gli restituì un sorriso. Poi, stancatasi, si avvicinò al gruppo di donne sulla cinquantina che poco educatamente tempestavano la hostess di domande assolutamente inutili.

    Sempre a me, eh. E agli altri non glielo ritirate il bagaglio a mano?, protestava l’amica magra.

    "Veramente poco professionale. Mai più con i voli low cost, tanto si sa come va a finire", la incoraggiava l’amica media.

    E infine l’amica grassa che, stufa, si era ripresa la sua valigia stracolma, concludendo: Non se ne parla. Se vuole me la toglie il capitano.

    L’isteria ingiustificata di quelle donne che tutto si sentivano di dire pur di non separarsi dai loro beni, come a volersi attaccare a qualcosa che durante il volo potesse dar loro sicurezza, aveva portato Bianca all’esasperazione.

    «Smettiamola con queste scenate, suvvia. State ritardando il volo e dubito che la hostess voglia farci un dispetto, che dite?».

    Le tre amiche avevano sbuffato e infine si erano arrese all’estraneità che caratterizzava la loro minuscola vita.

    Tutte tranne quella grassa che, con le sue unghie dipinte di rosso, viola, e giallo, si aggrappava stretta al suo bagaglio proprio come Mazzarò prima di morire e che, proprio come lui, avrebbe dato per scontato il volo, la vista, e probabilmente anche il viaggio.

    Dopo che Frankenstein le aveva strizzato quel suo piccolo occhio luccicante, Bianca si era finalmente seduta al suo posto, 11F. Era un volo breve, per cui aveva deciso che non avrebbe letto, oppure riguardato i suoi appunti, oppure lasciato la musica urlarle nelle orecchie. Avrebbe soltanto (ma è poco?) guardato fuori dal finestrino. E fu bello perché per la prima volta vide qualcuno, davanti a lei, fare la stessa cosa. Qualcuno che semplicemente guardava fuori, senza fare altro. E se ne compiacque.

    Di essere lì, in quell’aereo, lontana da tutti, lontana da Adele. Senza possibilità di scriverle, chiamarla, baciarla. Appoggiata con la fronte al finestrino freddo dell’aeromobile a provare ad acchiappare le luci delle città e dei paesini sotto di loro (così piccoli, sì).

    E mentre le tre amiche giocavano a battaglia navale spifferandosi offese in un dialetto incomprensibile e roco per le troppe sigarette fumate, Bianca accolse tutte le emozioni belle e tutte quelle brutte che l’assalivano timidamente. Per la prima volta, dall’alto, lontana dalla realtà della gente e delle cose, vedeva la sua vita per quella che era, franca. Una vita normale, come tutte le altre. Solo che lei, questo, ancora non lo sapeva.

    C’era stato, certo, quel suo incomprensibile desiderio di andarsene. Di non esserci più. Di non svegliarsi ogni mattina alle 06:00, fare con amorevole cura le iniezioni nel braccio sottile di Adele, accompagnare il padre quasi zoppo al campo troppo arido, e poi lavorare al nero per l’unico artigiano del paese. Di sera, fare la spesa nel negozio dietro la bottega, salire in macchina con Guglielmo (Stasera ho voglia di scoparti), raccattare la posta in terra, aiutare la madre in cucina per la cena, e poi addormentarsi accanto alla sorella. Non c’era stato, però, ancora il desiderio opposto e ugualmente fondamentale; quello di esserci per se stessa.

    Arrivederci, pensò.

    2

    Gli abeti freschi

    Arrivata alla meta, Bianca aveva aspettato più del dovuto ai nastri, preoccupata che tutti i suoi arnesi, acquistati dopo tanti risparmi e protetti con tanta cura, fossero andati smarriti incastrandosi nella pancia tenebrosa dell’aereo. Invece, eccoli lì; dentro la valigia più grande, quella che le aveva regalato Adele per il ventottesimo compleanno. La aprì per controllare che ci fosse ancora tutto dentro, che nessun pennello si fosse spezzato. Ma Tutto era al suo posto, compresi i trincetti che aveva avvolto nella carta dei giornali vecchi del padre. Pronti, lo erano lei e i suoi attrezzi, compagni di una vita deliziosamente incominciata.

    Riuscì a farsi spiegare da un ometto racchiuso dentro una tuta da sci, che piuttosto pareva un involucro fosforescente, come arrivare alla fermata dell’autobus che l’avrebbe portata a casa dei Fuchs, un’anziana coppia che da qualche anno affittava a bassissimo prezzo la propria dépendance ad artigiani stranieri. Il sito spiegava che lo facevano in nome di un progetto culturale di cui erano fondatori. Che all’artigianato ci tenevano (per davvero).

    Bianca non aveva ricevuto nessuna foto del bilocale, né aveva insistito per via di quella buffa paura di passare da maleducata. Si erano, però, scambiati qualche e-mail nel corso dell’estate precedente per finalizzare le procedure, che erano pochissime ma che agitavano Bianca, che una cosa così non l’aveva mai fatta (mai). E figuriamoci, se poteva contare sui genitori. Certo, s’intendevano di polli, maiali, cavoli, e patate. Non è che fossero ignoranti, anzi. Da qualche anno erano persino riusciti ad aprire un piccolo, socievole agriturismo. Ma il loro spirito imprenditoriale si fermava alla terra dei loro campi. Bianca aveva dovuto far da sé.

    Era salita sul numero 53, pagando un extra all’autista per le sue due grosse valigie. Dopo un numero esagerato di curve, finalmente erano spuntati gli abeti. Decine, centinaia, migliaia di abeti, e così tanto verde tutto insieme, come a formare una moquette ruvida per chilometri. Bianca aveva tirato giù il finestrino per sentire quell’aroma diverso di aria fresca che c’era. Un’aria abbondante, che mescolava gli odori degli animali a quelli delle piante. Un aroma nuovo, più alto, più possente di quello a cui era abituata.

    Arrivata. Inviò il messaggio a Guglielmo, che in meno di un secondo le concedeva l’OK di condanna, di rosario mormorato all’infinito dalle vedove alla messa delle 18:00. Ma Bianca voleva dirglielo, eccome; strizzarlo nella sua invidia molliccia. È, infatti, un sollievo carissimo non dover aspettare messaggi da chi non vuole scriverli. Eppure, a quel punto assolutamente distinguibile dagli altri di totale libertà, Bianca ancora non ci era arrivata.

    * * *

    «Buona, la tua pizza?».

    «Ne ho mangiate di migliori».

    Il volto di Guglielmo era mosso dall’ossessivo e ingegnoso bisogno di apparire superiore; a Bianca, alla gente che mangiava la pizza in quel ristorante in riva

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