Lo strano caso del maestro di violino
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Info su questo ebook
Mentre le prime avvisaglie della pandemia cominciano a preoccupare il mondo, Adalgisa Calligaris riceve in commissariato la denuncia di Filippo Acquacheta: qualcuno avrebbe rubato dalla tenuta della sua famiglia lo spartito di un’antica opera lirica, chiamata Rosamunda. Lui e suo zio Fortunato l’hanno cercata ovunque, ma senza successo. Peccato che dell’esistenza di quest’opera non ci sia alcuna prova. Lo zio di Filippo ne sarebbe infatti venuto a conoscenza in sogno, su indicazione nientemeno che di Giuseppe Verdi. Adalgisa, impossibilitata ad accettare la denuncia del furto di qualcosa che probabilmente non esiste, manda via il ragazzo. Ma quella che sembrava una storia strampalata si trasforma ben presto in qualcosa di più. Malachia Capoccetti, membro della squadra che gli Acquacheta avevano ingaggiato per cercare l’opera, viene trovato morto pochi giorni dopo: nonostante l’assurdità della storia, Adalgisa non può che cominciare a indagare…
Un’antica opera lirica. Uno strano furto.
Un’indagine inquietante per il commissario Calligaris.
Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Fino all’ultimo tante ipotesi, tanti sospetti e una soluzione inaspettata che non si era presa in considerazione. Davvero bello!»
«Ben fatto, ben scritto, scorrevole e con il colpo di scena finale.»
«Sensibilità, intuizione psicologica e profonda umanità permettono alla protagonista di risolvere i casi. L’autrice ha saputo rendere veri e credibili i suoi personaggi.»
Alessandra Carnevali
È nata a Orvieto ed è laureata in Lingue. Ha partecipato, in veste di autrice, al Festival di Sanremo 2002 con il brano All’infinito eseguito da Andrea Febo. Nel 2007 è stata la prima blogger accreditata al Festival di Sanremo. Ha curato il blog Festival, sulla musica italiana e Sanremo, per il network Blogosfere. Si occupa di promozione web per eventi e artisti emergenti. La Newton Compton ha pubblicato Uno strano caso per il commissario Calligaris, libro vincitore del Premio ilmioesordio nel 2016, Il giallo di Villa Ravelli, Il giallo di Palazzo Corsetti, Delitto in alto mare, Il mistero del cadavere nella valigia e Lo strano caso del maestro di violino.
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Anteprima del libro
Lo strano caso del maestro di violino - Alessandra Carnevali
Prologo
Il 31 ottobre del 2019 alle prime ore del mattino Adalgisa Calligaris fece un sogno bizzarro.
Si trovava in un grande spiazzo. Quel posto assomigliava, anche se in maniera assai approssimativa, alla piazza principale di Rivorosso Umbro.
Non c’erano alberi e nemmeno macchine in sosta o di passaggio. In compenso la piazza era affollatissima, tanto che si faceva una gran fatica a camminare e le persone si muovevano avanti e indietro in modo confuso, come se non si rendessero davvero conto di dove stessero andando. Sembrava di essere a un concerto rock dove nessuno era in grado di capire dove fosse il palco. Adalgisa si guardò intorno, ma non riuscì a scorgere nemmeno un volto conosciuto. Strano, perché quel posto le sembrava abbastanza familiare e si sarebbe aspettata di incrociare qualche faccia amica.
All’improvviso, qualcuno iniziò a gridare.
In principio era un suono indistinto e non si capiva che cosa stesse urlando quella voce. Adalgisa si mosse allora nella direzione da cui sembravano provenire le grida, facendosi largo tra le persone che a quel punto iniziarono a muoversi con maggiore velocità, spintonandosi e sbattendo fra di loro, come animali impazziti ammucchiati dentro una gabbia.
Quando finalmente raggiunse il centro della piazza, Adalgisa vide che si era creato uno spazio vuoto, dal quale tutti tendevano ad allontanarsi spaventati.
Lì in mezzo c’era una donna ossuta e con la pelle raggrinzita, tutta vestita di nero, i capelli bianchi e lunghi, sciolti sulle spalle. La vecchia puntava un dito minaccioso verso la folla in fuga e con quanto fiato aveva in corpo urlava: «Andate a casa, andate tutti a casa! Siete dei pazzi a stare qui. Andate a casa vostra o morirete tutti».
Mentre gli altri si allontanavano, Adalgisa, spinta dal desiderio di capire chi fosse quello strano personaggio che prediceva morte certa a tutti i presenti, fu l’unica a spingersi nella sua direzione. Quando arrivò a pochi passi di distanza, quella specie di uccello del malaugurio puntò il dito verso la Calligaris, glielo piazzò proprio sotto il naso e con la voce dei mostri dei sogni ruggì: «Se non corri a casa, anche tu morirai!».
Adalgisa si svegliò di soprassalto e a stento trattenne un grido di terrore per la brutta sensazione che le aveva provocato quel sogno. Un brivido le corse lungo la schiena, come se qualcuno l’avesse afferrata con una mano da dietro, alla base del collo.
Si mise seduta sul letto, si guardò intorno e solo allora capì di aver sognato.
Gualtiero non si era accorto di nulla e le dormiva sereno accanto.
Bromuro ronfava nella cuccia ai piedi del letto.
Non era ancora l’alba, era presto per alzarsi. Adalgisa si sdraiò di nuovo e provò a riprendere sonno, ma senza riuscirci. Piuttosto restò con gli occhi aperti a fissare il soffitto, cercando di dare un senso a quella strana visione onirica che, non avendo la sera prima ecceduto nel bere o nel mangiare, non poté far altro che catalogare come sogno premonitore.
Quando poco più di due mesi dopo, verso la fine delle feste natalizie, si cominciò a parlare della strana e pericolosa epidemia di influenza con gravi complicazioni polmonari che aveva colpito la zona di Wuhan in Cina e i telegiornali iniziarono a diffondere immagini di strade deserte e di gente barricata in casa per paura del contagio, a Adalgisa tornò in mente quel sogno.
«Pensa, due mesi fa ho fatto un incubo tremendo», raccontò Adalgisa al marito una mattina mentre facevano colazione seduti al tavolo della cucina.
«Hai sognato l’abito da sposa di Paris Picchio?», chiese Gualtiero ridendo, riferendosi alle nozze annunciate dalla fashion blogger di Rivorosso.
«No, magari! Era una situazione strana, angosciante, con la gente che scappava da un pericolo imminente… boh, una cosa senza capo né coda. Era così intenso, però. Secondo me c’entrava ’sta cosa cinese. Magari l’incubo voleva dirmi che questa epidemia potrebbe arrivare presto anche qui».
Fontanella squadrò la moglie: «Da quando in qua sei diventata veggente, Adalgi’?».
Il commissario Calligaris scosse la testa: «Ti assicuro che nel sogno avevo una sensazione terribile, che mi è rimasta addosso a lungo anche quando mi sono svegliata…».
Gualtiero non diede troppo peso alle parole della moglie. Si alzò dalla sedia e andò a prendere un biscotto per Bromuro, che da un buon quarto d’ora lo osservava con la solita espressione supplicante da morto di fame, nonostante avesse da poco finito di divorare la sua ciotola di carne con il riso soffiato.
«Animale brutto e ciccione», lo rimproverò Fontanella, grattandogli amorevolmente la testa in mezzo alle orecchie. Poi, rivolto a Adalgisa: «A giugno voglio andare in pensione e dedicarmi solo a questa bestia immonda».
«Intendi me o il cane?»
«Te, ovviamente!».
«Cretino!», reagì ridendo la Calligaris, poi tornò seria e lo guardò dritto negli occhi: «Ti sei stufato fino a questo punto? Mi pare un po’ presto per ritirarti».
Non era la prima volta che Gualtiero esprimeva il desiderio di smettere di lavorare e anche se Adalgisa non capiva fino in fondo tutta quella fretta, sapeva che avrebbe dovuto accettare, suo malgrado, la decisione del marito. Era comunque preoccupata: se lo immaginava già in pigiama a ciabattare tra il salotto e la camera da letto, o in tuta color carta da zucchero a portare a spasso il cane nelle vicinanze di casa. Nella migliore delle ipotesi lo vedeva ai fornelli a sbizzarrirsi in varianti delle ricette della cucina tradizionale pugliese o davanti al televisore a ubriacarsi di serie
TV
di qualsiasi genere, ormai ridotto a una figura mitologica, metà divano e metà uomo superdotato. Di telecomando.
Il commissario scacciò dalla mente quell’immagine così poco attraente di Mister Inutili Occhi Azzurri, si infilò le scarpe e lo spolverino, lanciò nell’aria un «Ci vediamo stasera» e uscì di casa.
Era una splendida mattinata di gennaio, con l’aria gelida trafitta dal sole che filtrava tra i rami del viale alberato della provinciale. L’autobus per Rivorosso arrivò quasi subito.
Capitolo 1
Quando giunse la telefonata di Tamara Paris Picchio, Adalgisa era appena entrata in commissariato.
Collina gliela aveva annunciata a gesti da dietro il vetro della guardiola, agitando le dita aperte della mano sinistra sopra la testa, a mimare un copricapo piumato, poiché era proprio quello che la Picchio indossava la prima volta che l’agente se l’era ritrovata davanti qualche anno prima. Non si era più ripreso dallo shock e da quel momento il gesto delle piume in testa era diventato un segnale cifrato tra Collina e la Calligaris per avvisare dell’incursione telefonica o della presenza di Tamara.
Adalgisa sbuffò e si diresse verso il proprio ufficio.
Era da oltre due mesi che Paris aveva dato a Adalgisa, ma anche a tutto il popolo del comune di Rivorosso e al mondo, la grande notizia del suo matrimonio, e non smetteva più di chiamarla per parlarne.
Ne avevano scritto anche i giornali e i più importanti siti di moda, quelli di gossip e tutti i blog specializzati in viaggi e life style. Tamara Picchio era un personaggio conosciuto e le sue nozze con il rampollo di una ricchissima famiglia, proprietaria di due catene di alberghi a cinque stelle sparsi tra Italia, Svizzera, Spagna e Francia, non potevano passare sotto silenzio.
Il nome del fortunato futuro marito era Albino Junior Bonconvento, trentotto anni, figlio di Albino Senior Bonconvento. Albino jr era uno degli scapoli d’oro del jet set italiano, o almeno lo era stato fino al fatidico incontro di sei mesi prima con Tamara, all’inaugurazione hollywoodiana di un resort a Chamonix.
Il coup de foudre era scoccato e poco dopo i due erano fuggiti insieme alle Maldive. Al ritorno parlavano già di matrimonio, a ottobre avevano già deciso data e location: il 15 marzo 2020 poco lontano da Rivorosso Umbro. Trecento invitati, tra cui numerosi
VIP
. Cerimonia religiosa nella cappella privata del castello dei principi Dominici di Pertugio e banchetto nuziale nel salone principale a cura dello chef stellato Duccio Fracci del celebre ristorante Duccio’s di Porto Cervo.
«Adalgisa carissima, ti ricordi che succede il 15 marzo?», squittì Tamara dalla cornetta del telefono.
«E come potrei mai, tesoro mio. Mi telefoni ogni due giorni per ricordarmelo!», ribatté il commissario.
«Lo so, ma tu non sarai un’invitata come gli altri, tu sei la mia testimone. Hai un ruolo importantissimo. Tu e Attilio dovrete essere perfetti».
L’altra vittima sacrificale designata insieme a Adalgisa a certificare il lussuoso «sì» di Albino e Tamara era infatti il giornalista Attilio Lungimirante. Una vecchia conoscenza della Picchio a cui la donna riconosceva il merito di aver dato inizio alla sua folgorante carriera da blogger.
«Ma mancano più di due mesi… abbiamo tutto il tempo», le fece notare Adalgisa.
«Sì, vabbè, non hai idea di come fa presto a passare, il tempo…», incalzò Paris Picchio e infervoratissima aggiunse: «Devo farvi anche prendere le misure per gli abiti… dovrete essere elegantissimi e soprattutto en pendant con l’abbigliamento degli sposi!».
Adalgisa a quella frase si sentì mancare e si immaginò subito incartata in qualche chilometro di stagnola paillettata con festoni pitonati a cascata e in testa una sorta di pettinatura ad anfora rovesciata da aliena di Mars Attacks!
Deglutì rumorosamente e riuscì solo a dire: «Ma Attilio che dice?»
«Entusiasta, ti dico solo che è en… tu… sia… sta!», trillò Tamara.
«Eh, me lo immagino!», commentò Adalgisa con malcelata ironia.
Paris Picchio non sembrò afferrare e riprese a parlare a raffica.
La Calligaris la interruppe: «Ti devo lasciare purtroppo, il lavoro mi chiama…».
«Sì, sì, certo… ma prima ti devo aggiornare…».
«Altri
VIP
invitati?», domandò Adalgisa.
«Ti faccio solo due nomi… Clara e Teodorico!».
«E chi so’?»
«Come chi so’!? La Fustagni e Tedex!».
«Me co… Accipicchia!», esclamò il commissario trattenendo una risata. Poi aggiunse: «Mo ci vengo pure più contenta».
«Ti richiamo presto per l’appuntamento con la stilista!», preannunciò Tamara.
«Non vedo l’ora», mentì Adalgisa e riattaccò.
Capitolo 2
«Buongiorno, dottoressa Calligaris. Mi chiamo Filippo Acquacheta e sono il nipote di Fortunato, il proprietario dell’azienda agraria Acquacheta».
L’uomo che si era appena presentato era sui trentacinque anni, con i capelli rossi, gli occhi verdi e il naso cosparso di piccole lentiggini. Una faccia da adolescente su un corpo magro e muscoloso. Un giaccone imbottito e un paio di jeans scoloriti gli conferivano l’aria di un bravo ragazzo, semplice nei gusti e non troppo attento alle mode del momento.
Strinse la mano al commissario e rimase in piedi guardandosi intorno con un’espressione un po’ spaesata.
«Si accomodi!», disse Adalgisa indicandogli la sedia più vicina. «Acquacheta… siete quelli dell’olio? Lo uso spesso a casa mia. Un po’ costoso, ma di altissima qualità. Complimenti!».
Il giovanotto abbozzò un mezzo inchino e dietro un sorriso tirato mostrò una dentatura imperfetta e ingiallita: «Grazie, la mia famiglia lo fa da oltre un secolo e ci fa piacere che venga apprezzato. Non abbiamo solo gli ulivi, anche il frantoio è di nostra proprietà. Controlliamo tutte le fasi della produzione, dalla raccolta all’imbottigliamento e siamo molto soddisfatti dei risultati».
Aveva descritto l’azienda come se fosse stato costretto a imparare un testo a memoria e mentre pronunciava quelle parole la sua voce era tesa, l’occhio destro si chiudeva a scatti impercettibili come percorso da un tic nervoso.
Adalgisa se ne accorse e si domandò il motivo di quella tensione.
«Come posso esserle utile? Mi hanno detto che mi cercava con urgenza. È successo qualcosa di grave?», chiese, dando un taglio ai convenevoli.
«Sono qui per mio zio Fortunato. Da qualche tempo è in preda a una specie di delirio, perché sostiene di essere stato derubato».
«E cosa gli hanno rubato? E perché dice sostiene
?».
Il giovane Acquacheta sembrava abbastanza in imbarazzo e sporgendosi verso Adalgisa sussurrò: «Un’opera lirica».
La Calligaris pensò di aver capito male e ripeté: «Un’opera lirica? Tipo Traviata, Rigoletto…?».
Filippo annuì: «Sì, proprio così», poi, guardandosi intorno come se temesse di essere ascoltato da orecchie indiscrete, aggiunse a bassa voce: «Ma lasci che le spieghi bene tutta la storia…».
«Prego!», lo esortò Adalgisa mettendosi comoda.
Il giovane tirò un profondo respiro e iniziò: «Il nonno di mio padre Filiberto e di mio zio Fortunato, che poi sarebbe il mio bisnonno, la buonanima di Furio Acquacheta, ai suoi tempi – parliamo dei primi del Novecento – per desiderio della madre, aveva frequentato il conservatorio ed era diventato un discreto musicista. Suonava il pianoforte, cantava con voce tenorile e pare che in gioventù avesse composto anche delle arie d’opera».
«Che bello! E divenne famoso?», domandò il commissario.
«No, no, per carità… anzi! La sua carriera di musicista finì praticamente prima di iniziare. Suo padre, che era stato sempre contrario allo studio della musica, alla morte della moglie lo mise subito a lavorare in campagna, sostenendo che la terra fosse cosa ben più concreta delle note. Così Furio fu obbligato a dedicarsi agli ulivi e alle vigne di famiglia e mise da parte i suoi sogni d’artista».
Adalgisa a quel punto si sentì di trarre una frettolosa conclusione: «Immagino però che voi abbiate conservato le sue opere giovanili e suo zio pensa che una di queste sia stata rubata!».
«No, è questo il punto…», reagì quasi indispettito il giovanotto dai capelli rossi. «Dei suoi spartiti non è mai stata trovata traccia e devo dire che a nessuno di noi in fondo è mai importato veramente di cercarli».
«Quando dice noi, a chi si riferisce di preciso?», indagò la Calligaris.
«Da quando i miei genitori sono morti, qualche anno fa, nel casale dentro l’azienda viviamo solo in tre. Mio zio Fortunato che non si è mai sposato, Primia, la domestica, e io. Nei fine settimana ci viene a trovare Marcella, la mia fidanzata, che lavora a Roma come infermiera alla clinica delle Rose».
Adalgisa volle sapere quale fosse il motivo per cui nessuno si fosse mai interessato alle composizioni dell’antenato musicista.
Filippo allora spiegò: «Si diceva che il padre di Furio, per mettere fine una volta per tutte alle fantasie artistiche del figlio, ne avesse fatto un bel falò nel caminetto del salone al termine di una scenata epocale. Così nessuno si è più chiesto dove fossero, almeno fino a quest’estate».
La Calligaris si fece curiosa: «Perché, cos’è successo quest’estate?».
Dopo una breve pausa, il giovanotto sussurrò: «Mio zio una notte ha fatto un sogno strano».
«Pure lui?», sbottò Adalgisa, ripensando all’incubo di due mesi prima.
«Come, scusi?», chiese Filippo Acquacheta.
«No, niente. Vada avanti».
«Mio zio dice di aver sognato Giuseppe Verdi. Era con lui nel salotto della nostra casa di campagna e conversavano amabilmente di vari argomenti agricoli. Mio zio gli spiegava le fasi della produzione del nostro olio e il maestro sembrava molto interessato. Più che altro era inebriato dagli assaggi di pane casareccio intinti nel prezioso condimento che gli venivano offerti dalla cameriera su un vassoio d’argento».
Filippo tacque improvvisamente. Adalgisa lo esortò a proseguire.
Il giovane si alzò in piedi e riprese con tono infervorato: «Prima di andarsene, pare che Verdi abbia detto a mio zio che doveva assolutamente ritrovare e far mettere in scena Rosamunda, l’opera scritta dal nonno Furio Acquacheta, preannunciandogliene il successo assicurato. Mio zio, dalla porta, aveva allora gridato al grande musicista che si allontanava: Dove devo cercare, maestro?
».
Il commissario, coinvolta dall’enfasi di quel racconto, quasi gridò: «E Giuseppe Verdi cosa gli ha risposto?».
Filippo assunse