L'inganno del volo
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Anteprima del libro
L'inganno del volo - Alfonso Padula
MAGNOLIA
Narrativa
Alfonso Padula
L’INGANNO DEL VOLO
L’inganno del volo
Alfonso Padula
© 2019 – Il Seme Bianco
ISBN 9788833611457
Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.
I edizione ottobre 2019
info@ilsemebianco.it
www.ilsemebianco.it
Il Seme Bianco è un marchio distribuito da
Lit Edizioni s.a.s.
Sede legale: via Isonzo 34, 00198 Roma
A Tina,
alle mie figlie
Adriana e Silvia
Indice
PRIMA PARTE
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
SECONDA PARTE
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
PARTE PRIMA
I
«Sorridi! Non ti muovere!».
Maria sentiva un ronzio. La voce del padre le arrivava smorzata.
Pino si asciugò la fronte con la manica della camicia madida appiccicata fin sotto le ascelle. Cercò l’inquadratura giusta per la foto-ricordo. Era la primavera del 1961. Maria aveva dodici anni.
Indossava un vestitino bianco a campana con maniche corte. Stringeva nella mano, a metà gambo, un giglio altissimo. Una gran luce le faceva arricciare il naso e stringere gli occhi.
«Dai sorridi! Resta ferma così!».
Il chiarore accecante le sprigionò la fantasia di spiagge bianchissime, oltre le quali si apriva un oceano di acque limpide.
Il ronzio nelle orecchie ne era lo sciabordio, mentre le macchie scure e mobili sulla sabbia di luce erano figure di pirati che arrivavano per la sua festa di matrimonio. Tra loro c’era infatti lo sposo, capitano del Black Skull, il più grande vascello mai incontrato, neppure nei libri di Stevenson e di Salgari.
Il volto di Maria mutò espressione. Due mesi prima, per il compleanno della sorella Fausta, erano tutti in posa al taglio della torta. Perché ora nel giorno della sua Prima comunione con Cristo non le stavano accanto o a controllare che fosse in ordine per la foto ricordo? Avevano tutti altro da fare: Anna, la madre, in cucina preparava le porzioni di spumone per gli invitati nella sala d’ingresso; la nonna Esther la incalzava perché si affrettasse; Fausta in camera davanti allo specchio misurava entusiasta il reggiseno della madre.
Il fratello Nino aveva diciassette anni. Maria lo considerava strano, era scontroso e silenzioso. Pino si vergognava di lui: una sera Maria sentì che lo confessava alla madre.
«È colpa di Anna» sostenne lei, se il ragazzo era ritardato, anzi pazzo.
Faceva resistenza anche al nonno Antonio quando voleva portarlo in giro: grugniva e se ne restava imbronciato a toccarsi dappertutto, a grattarsi sulla patta, a massaggiarsi i piedi sporchi; «Però alza lo sguardo se gli passa vicino Fausta. L’hai notato?» concluse cattiva.
«Sei capace di sorridere? Ti ho detto di stare ferma!».
Maria era lì, in posa lui, mentre Nino con le tasche piene di pietre, laggiù in fondo, tra gli alberi di fico e i mandorli, inseguiva Black, il pastore tedesco raccolto dal nonno in fin di vita qualche anno prima sul ciglio di una strada.
Antonio si era informato con il prete sul da farsi e gli aveva consegnato l’obolo; aveva accompagnato la bambina alle lezioni di catechismo in sagrestia, cinque volte la settimana per due mesi; si era accordato con il gelataio su quantità e costo degli spumoni; aveva provveduto a invitare parenti e conoscenti per il rinfresco. Ora se ne stava appoggiato allo stipite della porta d’ingresso.
«No, è la strada sbagliata! Lasciatelo dire: ho esperienza di certe cose», disse a un tipo basso e calvo.
«Allora, come si fa a spingere
la domanda? Papà
, mi ha detto mio figlio, farmi carabiniere, per me è una missione!
».
Antonio socchiuse gli occhi sbuffando fumo di sigaretta. «L’unica è trovare la strada per arrivare al comando generale».
«A Roma?» lo interrogò l’uomo, spaventato.
«A Roma» confermò.
«A Roma…» ripeté l’altro deluso.
«Ho un amico al comando, mi deve un favore».
«Al tre scatto. Non muoverti!».
Maria rabbrividì, eppure sentiva di avere il fuoco addosso.
Le davano nausea il puzzo di marcio del letame negli orti attorno. La frastornavano il sibilo nelle orecchie e il guaito di Black. Un velo lattiginoso le era calato sugli occhi: «Sarà per il caldo» si disse.
Pino si decise a scattare la foto, una sola, con la Leika a soffietto.
«Ti sei mossa!» disse irritato e il giglio sembrava ormai quasi appassito. Non potevano più starsene lì.
«Andiamo. Saranno tutti arrivati!».
Maria, con la nebbia negli occhi, raggiunse gli invitati che già gustavano lo spumone. Avanzava barcollante come se tutto quel bianco le offuscasse la mente, e così urtò contro la sedia dello zio Ascanio, il fratello del nonno, che l’attirò a sé e la baciò sulla fronte; la moglie, la zia Concetta, le augurò di crescere santa
: che voleva dire senza malizia e grilli per la testa
.
Più in là, due uomini discutevano sul volo di Gagarin attorno alla terra in una navicella spaziale. Una vicina di casa notò il pizzo del vestito di Maria, e chiese ad Anna se l’avesse ricamato lei.
«Beh, no, sai… Mia suocera. È il suo regalo».
La bambina sentì una fitta nel ventre; a un’altra più lacerante, le tremarono le ginocchia.
«Ho mal di pancia» disse alla madre, con il viso congestionato.
«Ora c’è gente!» fu la risposta di Anna, e tornò alla cugina Antonietta, per riprendere la discussione sul figlio della tal comare che il giorno prima del matrimonio, aveva ingravidato un’altra.
«Non ti dico cosa è successo!».
«Lo so: il fratello della sposa ha preso la pistola del padre…».
«Lui era già sparito. Dileguato! Dicono che abbia preso il treno per Milano, dove ha uno zio…».
«A proposito di zii: che si sa di Rita, la figlia maggiore di Ascanio?» chiese Antonietta guardandosi attorno circospetta.
«Vuoi dire che non sai?».
«Cosa? Racconta!».
«Nicola, il fidanzato che Rita lasciò per fuggire con un ufficiale americano, si fece prestare il denaro da uno strozzino e partì per l’America. Questo anni addietro…».
«Mi dici cose che conosco…».
«Beh, ho saputo, ma non posso dirti da chi, comunque da fonte certissima, che li ha trovati. I due avevano un ristorante…».
«Ma lui non è un ufficiale?».
«Sì, però poi lasciò l’esercito. Ascolta! Nicola chiese aiuto a certi parenti che vivono lì e che fanno parte di cosa nostra
».
«Oh, Dio!».
«Insomma, cerca e cerca quelli della mafia li hanno scovati. Hanno sfasciato il locale e i due da allora sono costretti a fuggire per il continente, perché se li acchiappano…».
Fausta comparve, solo allora perché in camera si era attardata a provare nuove acconciature per i capelli castani lunghissimi. Era raggiante, aveva negli occhi un luccicore sfrontato. Andò verso la consolle della radio con il giradischi. Saltellò attorno a un ragazzo e per il frastuono gli strillò il nome del cantante: «Elvis Presley!».
«Somiglia a quell’attrice americana bionda con il cognome così ridicolo…» considerò un’amica della madre.
Anna ne fu lusingata: «Ma chi?».
L’altra le si avvicinò e risero.
Maria aveva nausea.
Venne il giro del liquore.
Maria ebbe una smorfia di dolore. Se ne vergognò. Si accorse, infatti, di un ragazzo che la fissava incuriosito, un vicino di casa con un nome strano, Sante. Raccolse le forze per mangiare il gelato, le dita appiccicose di cioccolato, cercando di darsi un’aria naturale; ma sentì caldo sotto. Dapprima temette di essersi pisciata addosso, poi ebbe la sensazione che fuoruscisse da lei qualcosa di solido, come se stesse partorendo. La folgorò un pensiero: «Mi è nata una figlia!».
Allargò le gambe, sbarrò gli occhi. Le punte delle scarpe e l’orlo di pizzo del vestito si tinsero di rosso.
Sante indietreggiò disgustato. La zia Concetta lanciò un urlo, ma non ce la fece a sollevare dalla sedia i suoi novanta chili. Lo zio Ascanio scattò in piedi con un: «Perdio!» strascinando la sedia per terra. Dall’altro lato della sala, Fausta dette uno sguardo tra le teste degli invitati senza capire, poi riprese a strillare di canzoni e film assieme ai ragazzi che l’attorniavano. Anna con le mani tra i capelli sgridò Maria: «Cos’hai fatto!» fissando la lordura di sangue e cioccolato e canditi sulla ceramica a fiori.
Il nonno accorse. Gli bastò uno sguardo. Non andò verso la bambina; invece, prese la bici dall’orto e, riattraversato il trambusto nella sala, l’appoggiò al muro esterno della casa. Dopo si fece largo tra i presenti e sollevò Maria tra le braccia.
La portò via sulla canna della bici scaricando l’energia dei nervi sui pedali.
«Tieniti stretta al manubrio» disse calmo.
Si affacciò nella sala d’aspetto dello studio medico senza spiegarsi con chi faceva anticamera. Le sussurrò: «Tranquilla, è un amico».
Scalciò contro la porta fin quando non gli fu aperto.
«Diamine!».
Il medico sussultò, sgranò gli occhi: era stupito e confuse le parole: «Ma… è… tu, tu…».
Si volse alla donna seduta sul lettino che sbraitava isterica, la schiena nuda, le braccia sul seno, il capo ripiegato in avanti, i lunghi capelli sul viso. Il medico richiuse la porta alle spalle.
«Cos’hai nella testa?».
Antonio fece segno alla scia di sangue ai suoi piedi: «È un’emergenza!».
«Dovevi portarla in ospedale!».
«Non ho l’automobile, non ho il telefono: come avrei potuto fare?».
Il medico fissò sconcertato la bambina tra le braccia del nonno; poi si rivolse turbato alla paziente: «Si rivesta, in fretta» mentre raggiungeva la scrivania con il telefono.
«Pronto… pronto… Sono il dottor Lomartire».
Chiese un’autoambulanza, subito.
Quando a sera Pino e Anna si presentarono in ospedale, le luci nel corridoio e nelle camerate erano state spente. Antonio nel corridoio era appoggiato allo stipite di una finestra e guardava fuori i lumi della città, il viso sbiancato dal chiarore lunare. Anna non andò nella stanza della figlia.
«Riposa» si premurò comunque Antonio di comunicare.
Anna sbottò d’improvviso: «Cosa potevamo fare: mandarli via, i tuoi
parenti? Dopo che li abbiamo invitati, ci hanno portato i regali e sono stati premurosi con noi? Eh, no, bisogna dare soddisfazione! Proprio non ce la sentivamo di cacciarli di casa».
Antonio non rispose. Scrutò invece gli occhi scuri e acquosi del figlio. Gli chiese: «Hai parlato con il tuo capoufficio dello straordinario che non ti ha pagato?».
Pino abbassò gli occhi: «No, papà».
Lo guardò andare via, e scosse la testa.
«Nonno, sei qui?» lo chiamò Maria.
«Vuoi sentire la storia di quando…» subito iniziò Antonio sedendosi sul letto accanto a lei. «Però sottovoce» bisbigliò, «gli altri dormono».
Due giorni dopo, uscì dal reparto con le dimissioni in mano e si diresse verso il centralino dell’ospedale.
Chiese al telefonista: «Te lo ricordi il numero di tuo zio Dino?».
L’uomo compose il numero e gli porse la cornetta.
Finito di telefonare, Antonio se ne tornò da Maria. L’aiutò a rimettersi in piedi e a vestirsi. La bambina vedeva vibrare ogni cosa nella stanza, e un secondo dopo ritornare ferma. Aspettarono un poco, seduti sul letto. Antonio le raccontò di quando nella Grande Guerra si era trovato faccia a faccia con un crucco ferito a un piede e terrorizzato. Era giovanissimo quanto lui. Quando gli fu addosso con la baionetta premuta sul cuore, non se la sentì di costringerlo a seguirlo e se ne tornò verso la trincea senza neppure requisirgli il fucile.
«Non poteva spararti contro!» sostenne Maria con un filo di voce.
«No, non poteva».
Antonio guardò l’orologio.
«Tra poco dovremo andare» disse. «Te la senti?».
Maria fece segno di sì, fissandolo con gli occhi lucidi e dilatati.
«Cosa c’è, ora?» chiese lui.
La bambina non rispose. Aveva voglia di raccontargli quello che le era successo: che le era nata una figlia, che era uguale a lei e che cresceva bene, tanto che giocavano assieme, loro due; ma al momento non ne ebbe il coraggio: si sentiva troppo debole per affrontare con lui un argomento così impegnativo.
Poco dopo si affacciò l’infermiera.
«È arrivato» gli comunicò vezzosa.
All’aperto, lo sguardo di Maria si ancorò in alto alla nuvola che trascorreva indolente, sfilacciata come la lana dei cuscini che la nonna districava. Dino era appoggiato all’auto. Di mestiere faceva l’autista e anche Antonio se ne serviva, all’occorrenza. Li vide arrivare e aprì la portiera. Dette un’occhiata incuriosita a Maria, prima di rassicurare: «Ho avvisato la signora Anna… e anche sua moglie; come mi ha chiesto, maresciallo».
«Andiamo a casa».
Antonio scrutò il viso sbiancato della bambina, la fronte imperlata di sudore, gli occhi grandi e lucidi, mobilissimi e voraci, quasi chiedessero alle cose attorno di lasciarsi penetrare dallo sguardo.
«Ma vai