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Le note blu
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E-book251 pagine3 ore

Le note blu

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Info su questo ebook

Tutti abbiamo le nostre note blu segrete, la tristezza la solitudine la fantasia, tutti ce li portiamo chiuse dentro senza saperlo. "Forse anche Francesca, Mariolina, Massimo, Tannie e Renzo e tutti, tutti hanno il loro angolo blu nascosto in fondo. Solo che non si può costruirci sopra una vita senza rischiare di fare un terribile male a se stessi e agli altri".
LinguaItaliano
EditoreGAEditori
Data di uscita10 gen 2023
ISBN9791222046211
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    Le note blu - Brunella Gasperini

    Brunella Gasperini

    LE NOTE BLU

    PARTE PRIMA

    1.

    Sulla soglia della saletta sotterranea, tappezzata di ritagli di giornali incollati, scritte umoristiche a carbone e allarmanti vignette di sapore goliardico-surrealista, Renzo si fermò guardandosi lentamente in giro. Lei non c’era. Non poteva esserci: di pomeriggio il Buco non era aperto al pubblico, era riservato agli iniziati: quelli dell’orchestra, i ballerini del numero e i loro intimissimi. Lei non era un’iniziata, e non era intima di nessuno. Ma ogni volta lui pensava che potesse essere lì, seduta in un angolo col mento appoggiato alla mano e la sua aria assente, ad aspettarlo. Erano dieci giorni che non la vedeva. Meglio, pensò tra il sollievo e lo spasimo. Meglio così. Non sono d’umore.

    In mezzo alla piccola pista, i ballerini fissi – tre ragazzi e tre ragazze in calzoni attillati e larghi camiciotti a scacchi – stavano provando il numero per la sera. Erano molto bravi, ma freddini: come sempre durante le prove del pomeriggio. Per scaldarsi veramente avevano bisogno di pubblico, del loro consueto fanatico pubblico serale, delle ovazioni, dei fischi (fischiare invece di applaudire faceva molto America e molto jazz), dei battipiedi collettivi, dei tavolini rovesciati, dei lanci di bottiglie. Allora i sei diventavano dei veri demoni scatenati. Adesso erano solo una buona imitazione tecnica di demoni scatenati. I quattro dell’orchestra (lui era il quinto, quando c’era), facevano del loro meglio per sembrare quaranta. Come rumore, ci riuscivano. Quando lo videro lo salutarono con gli occhi e con la testa, senza smettere di dimenarsi sugli strumenti. Renzo fece una smorfia (Fate schifo). I quattro si strinsero nelle spalle (Lo sappiamo). Il numero di rock-and-roll finì, i ballerini sedettero sbuffando sui tavolini e Renzo traversò la pista verso l’orchestra. Col doppiopetto grigio, la cravatta blu, gli occhi chiari da bravo ragazzo borghese, sembrava fuori di posto, al Buco. Ma sembrava soltanto. Le tre ragazze lo seguivano affettuosamente con gli occhi. Che spalle che aveva.

    «Ehi sciur!», lo redarguì Oscar, sassofono e direttore, detto anche il Terrone.

    Era l’unico meridionale del gruppo, e ci teneva a sottolineare l’ormai sancita adozione milanese infiorando la propria larga, melodiosa dizione di vocali strettissima e locuzioni meneghine storpiate.

    «Ehi sciur, lo sai o non lo sai che sono le sett e un quart? È questa l’ora di venì giò?».

    Renzo si chinò a infilare la spina della chitarra elettrica. «Avevo un esame», disse.

    «O Signur», disse il Terrone schifato. Lo guardò in faccia e si interruppe, oscurandosi.

    «Su, proviamo il mambo, adesso», disse bruscamente ai ballerini.

    «Provatelo tu il mambo», gli risposero i sei. «Siamo mica sansoni, noialtri». Se la squagliarono su per la scaletta di legno, brontolando.

    «Rammolliti!», gli gridò dietro il Terrone. «Lendenuni!».

    «Fanno troppo all’amore» si lamentò in tono virtuoso Roberto, il batterista. Fu subissato: in quanto a far l’amore, Roberto batteva notoriamente tutti.

    Solo Renzo non partecipò alla gragnuola di versacci, manate e salaci apprezzamenti: con la testa china pizzicava macchinalmente le corde della chitarra traendone dei suoni bassi, staccati.

    Il Terrone voltò via di nuovo lo sguardo e prese il sassofono, accennando con la testa agli altri tre. Non aspettavano che quello.

    Suonare per far ballare gli altri era una cosa, divertente e utile (mille lire per sera son meglio di una pedata), ma suonare per suonare, suonare per se stessi era tutt’altra cosa: Triste appassionante e bella. I vecchi blues di Armstrong e di Bechet gravitavano nella saletta sotterranea: sopra il mormorio base del piano e degli altri strumenti planava la voce sofferente e ispirata del sassofono.

    Accucciati sui gradini superiori della scaletta a chiocciola, i sei del numero ascoltavano, senza farsi vedere né sentire.

    Se l’erano squagliata apposta: al contrario di loro, quelli dell’orchestra non avevano bisogno di pubblico per dare il meglio di sé: anzi, avevano bisogno di esser soli.

    Specialmente Renzo. In Lawd, la sua voce profonda, rauca alla maniera negra ma calda e dolce, si levò sopra il gemere sommesso della chitarra. You made the night too long...

    «Gli deve essere andato di nuovo male l’esame», disse Rita, una delle tre ragazze.

    «Ma che esame», disse il suo partner baciandole pigramente la nuca rasata. «È la cotta nera che ha per quella tizia, in due mesi non ci deve aver combinato niente».

    «Cosa ne sai tu», disse Rita, chinando la testa per farsi baciare meglio.

    «Quella», disse il partner eseguendo, «non è dei nostri».

    «Neanche lui, in fondo», disse pensosamente Rita.

    «In un anno che viene al ‘Buco’ non sono ancora riuscita a catalogarlo».

    «Tu cataloga me e sta’ contenta», disse il suo compagno fermandole le labbra sull’orecchio.

    «Sssst, voi due», mormorarono gli altri.

    Continuarono ad ascoltare in silenzio, baciandosi piano ad occhi chiusi. Era impossibile non baciarsi, quando il sassofono del Terrone e la voce di Renzo cantavano i blues in quel modo.

    O baciarsi o mettersi a piangere. La vita era così strana e tragica e ignota. Lawd si spense su una gonfia, lirica nota blu e dopo un momento la voce del Terrone, ancora un po’ ingolata, disse:

    «Ehi sciuri! Sono le ott men cinc».

    I sei sui gradini si alzarono alla svelta. Le otto meno cinque, e si doveva essere di ritorno alle nove e mezza. E tutti loro avevano uno straccio di famiglia, più o meno normale, a cui rendere più o meno conto. Si sparpagliarono via nella sera fredda di febbraio, correndo a passo di danza, voltandosi a salutarsi con un gergo ostentato. I loro fiati fumavano sopra le sciarpe buttate alla teppista. La gente si girava guardarli -proprio come loro si aspettavano- e scuoteva la testa.

    Ragazze con calzoni e sigaretta. Ragazzi con capelli alla deficiente e chewing-gum. Gioventù bruciata. Che tempi. Nella saletta del Buco, il Terrone guardava accigliato Renzo che ci metteva un secolo a riporre la chitarra nella fodera.

    «E sbrigati!», disse, si sentiva colpevole. «Arriverai a casa alle otto e mezza».

    Renzo alzò le spalle.

    «Tuo padre andrà in bestia», disse il Terrone inquieto.

    Renzo non rispose.

    Sicuro, suo padre sarebbe andato in bestia. Ehi!, gli avrebbe detto agitandogli contro un grosso indice inferocito. Ehi tu!. Avendo avuto otto figli, di cui sette maschi suo padre non riusciva mai ad azzeccare il nome al momento buono. Per non sbagliare li chiamava tutti tu, o coso, e qualche volta in particolari momenti di commozione o di plauso, ragazzo.Lui comunque era sempre e soltanto tu e coso. Tu, avrebbe dunque tuonato il papà corrugando i cespugli delle sopracciglia sotto la pelata imponente. Tu, credi forse che questa casa sia un albergo?". Diceva sempre le stesse cose.E lui zitto: il che faceva imbestialire del tutto il papà. Lui lo sapeva, e teneva strette le parole sotto i denti. Guardando inquieti da lui al papà e viceversa, i tre fratelli grandi si mettevano a raccontare facezie idiote e i tre fratelli piccoli a fare una russia d’inferno per stornare su di sé l’attenzione e le ire paterna: spesso ci riuscivano, anche. Ma lui non gliene era fatto grato.

    No, la sua casa non era un albergo. Era piuttosto una caserma. Con un padre generale e sette figli reclute. (Francesca, essendo femmina, era sempre stata un caso a parte). Sette reclute, sette galeotti: col numero sulla schiena.

    Per la mamma loro non erano mai stati reclute, mai numeri, mai tu e mai coso: ognuno aveva avuto il suo sicuro, caldo posto speciale nel suo cuore, nei suoi teneri allegri occhi.

    Anche lui: lui più di tutti. Ma la mamma era morta, adesso.

    Renzo finì di chiudere la custodia e si voltò. La faccia sensibile del Terrone (pelle olivastra, fronte stretta e dolci occhi mediterranei) era preoccupata. Renzo gli mise una mano sul braccio:

    «Avevo bisogno di suonare un po’», disse.

    Questo lo sapeva anche il Terrone. Non ci voleva molto a capirlo. «Ma se per punizione non ti lascia venire stasera?». Era già successo, più d’una volta.

    Ma adesso non era una volta. Renzo ritirò la mano dal braccio del Terrone e cominciò a salire la scaletta.

    «Ci vengo lo stesso», disse quietamente.

    «Sicuro che devi venirci», disse dietro di lui la voce di Giuliano, il pianista. «A parte l’orchestra e le mille lire, sei atteso dalla dama color nocciola. È capitata giù oggi pomer…». Gli occhiacci del Terrone lo interruppero.

    Continuando a salire senza voltarsi, Renzo chiese: «E allora?».

    Giuliano fece una smorfia al Terrone e alzò le spalle.

    «E allora è capitata giù, ecco tutto. Ha sceso la scaletta senza che neanche la sentissimo e ce la siamo trovatalì, tutta nocciola, capelli occhi pelle vestito pelliccia, che chiede se c’è Renzo. No, diciamo, lo vedi che non c’è? Lei si siede su un tavolo come se pensasse a tutt’altro e se ne sta lì un po’, col mento sulla mano, a guardare noi e il numero come se fossimo trasparenti e lei fosse in Cocincina, mica lì a quel tavolo. Poi si alza e si chiude la pelliccia. Ciao, dice, sempre in Cocincina. Ciao, diciamo. Verrò stasera, dice. E va. Tutto qui. E non so perché questo terrone debba farmi le brutte facce per…», questa volta fu una gomitata a interromperlo.

    «Maledetto!», disse premendosi la costola offesa.

    «Stupidera» disse il Terrone.

    «Era sola?», chiese Renzo. Gli costava molto chiederlo.

    «Sola», disse Franco, il contrabbasso, con un’aria dubbiosa «Sola solissima».

    «Almeno, qua dentro», disse Roberto.

    È fuori?, si chiese Renzo. Era una domanda odiosa. Una domanda che non voleva farsi e che si continuava a fare da due mesi, quando la vedeva e quando non la vedeva. A lei non l’aveva mai fatta: né quella né altre. Pensava che sarebbe morto, piuttosto.

    Erano in strada. Faceva un freddo cane, ancora.

    «Ciao, ci vediamo», Franco, Roberto e Giuliano si allontanarono in fretta. Anche loro avevano uno straccio di famiglia da qualche parte.

    Il Terrone, che di famiglia non ne aveva e viveva in una soffitta ammobiliata (sarebbe stato più esatto dire che ci dormiva, piuttosto saltuariamente e ancor più saltuariamente ci mangiava) accompagnò Renzo fino al tram.

    «Cosa vuoi soldi?», chiese Renzo.

    Il Terrone chiedeva soldi a tutti, e non li restituiva mai: ma dato che tutti lo sapevano in partenza, la cosa rimaneva onesta.

    «Be’, se hai qualche mille lire che ti avanza», disse.

    Con gli altri tirava sempre fuori dei pretesti melodrammatici (fame, malattie, possibile sfratto, fratellino da far studiare al paesello, madre canuta e indigente), che meritavano un compenso se non altro per la dovizia di fantasia e di gesti. Con Renzo, no. «Mi farebbero comodo», disse.

    Anche a Renzo facevano comodo: specialmente quella sera. Ma lui aveva il pasto pronto e abbondante, in caserma. Sai che bello essere reclute: si mangia sempre gratis. Suo padre glielo faceva notare spesso. Renzo si frugò in tasca. «To’», disse.

    Cinquecento lire: o Signur . Il Terrone le intascò. Meglio che una pedata.

    «Grazie», disse. «Però non è mica per quello che son venuto fino al tram».

    «Lo so», disse Renzo. E basta.

    Erano arrivati alla fermata. La faccia del Terrone era commovente.

    «Avanti, chiedimelo», disse Renzo. «Così, guarda: prendi un’aria indifferente e chiedi giulivo: " E allora, com’è andato l’esame ?. E io, pure giulivo: Come doveva andare "».

    «Dic…?», mormorò il Terrone. Il diciotto intero non gli venne fuori.

    «Non dic. Bocc», disse Renzo.

    «Bocciato», disse il Terrone. «O San Gennaro». Quando era triste o arrabbiato dimenticava l’adozione milanese. Mannaggia agli esami. Mannaggia a quella là.

    «Tuo padre lo sa?», chiese.

    «Non ancora», disse Renzo. Ma l’avrebbe saputo presto: libretto alla mano. Del resto era probabile che se lo aspettasse. Non s’aspettava altro, da lui.

    «Mica glielo dici stasera?», chiese il Terrone spaventato. Senza averlo mai visto, aveva un sacro terrore di quel padre borghese. Medico. Con otto figli. E i baffi. Che avesse i baffi non glielo aveva detto nessuno, ma era certo che li aveva. Mannaggia ai baffi.

    «Non stasera», disse Renzo. «La settimana prossima ne ho un altro, tanto vale dargli i due colpi insieme. E poi domani si sposa mia sorella, non voglio guastare la bella aria di vigilia».

    «Si sposa tua sor…? E vi lascia tutti quanti lì senza…?».

    «Oh, c’è la donna di servizio», disse Renzo amaro.

    «E poi le reclute se la cavano sempre benone».

    Adesso il Terrone sentiva di odiare quella sorella mai vista. Che si sposava. E lasciava sette ragazzi in balìa di quel padre. E Renzo in balìa di se stesso. Mannaggia alle sorelle. Mannaggia ai matrimoni.

    «Ecco il mio tram», disse Renzo. «Ciao, ci vediamo alle nove e mezza».

    Aveva già un piede sulla predella quando il Terrone lo afferrò per la manica:

    «Renzo», mormorò alle sue spalle. «Renzo, lasciala perdere, a quella là. Non è per te…».

    Renzo liberò la manica. «Chi?», chiese. La portiera si richiuse dietro di lui.

    Il Terrone lasciò cadere le braccia. San Gennaro, mettici una pezza tu.

    Il tram partì senza che Renzo si voltasse. Avrebbe voluto farlo, sorridere al Terrone e salutarlo con la mano, ma non poteva. Non sopportava che gli parlassero di lei e la chiamassero quella là. Non lo sopportava da nessuno, neanche dal Terrone.

    Cosa vuol saperne, pensò facendosi strada nella calca del tram. Crede che sia colpa di lei se mi bocciano alla sessione di febbraio come mi hanno bocciato a quella di ottobre e come mi bocceranno a quella di luglio. Era un’ipotesi romantica: ma sballata. Lui era per natura portato a farsi bocciare, ecco tutto. Che senso c’era a studiar legge? Che senso c’era a studiare qualsiasi cosa?

    Un tempo, quando c’era la mamma, il senso c’era. E lui studiava come un dannato. Però i risultati non erano brillanti lo stesso. A differenza di tutti i suoi bravi fratelli reclute, che avevano medie tali da ottenere l’esonero dalle tasse e spesso anche borse di studio, lui, la recluta scadente, il coso degenere, fin dal ginnasio non era mai riuscito a passare una classe senza qualche esame a ottobre. E senza i conseguenti sarcasmi del papà. "Non pretendo da te l’esonero dalle tasse, diceva. Ognuno ha il cervello che può. Ma se quel pezzetto di cervello che ti ritrovi lo sprecassi un po’ meno in bambanate tipo jazz e simili, forse, chissà mai, la media del sei la potresti anche tirar fuori. Almeno una volta. Almeno per sbaglio. Tu ! Parlo con te , mi senti? Mi sei costato più tu da solo in ripetizioni che tutti gli altri insieme in libri e tasse. Ma già, io sono Rockefeller, vero?".

    No, non era Rockefeller. Era un medico: il più bravo, il più cocciuto, il più onesto dei medici. Era suo padre: grande, burbero e amato.

    Lui lo rispettava molto, allora: e quei commenti lo facevano star male per delle settimane intere, anche se non apriva bocca. Papà, sono una bestia, avrebbe voluto dirgli; papà, non riesco a digerire il greco e il latino e non capisco un accidenti di matematica e i miei temi fanno schifo, lo so; ma sarò un bravo medico lo stesso, quasi come te, lo sento, lasciami provare, papà, e vedrai. La bocca restava chiusa.

    Ma c’era la mamma, allora, e tutto diventava più sopportabile.

    Lascialo blaterare, Renzo, gli diceva la mamma, lo sai che se non blatera un po’ non riesce a digerire… Ma è buono. Ancora un po’ di pazienza, Renzo. Quando farai medicina tutto andrà bene, io ne sono sicura: e anche tu.

    Sì, lui ne era sicuro, allora. Medicina… Andava verso la maturità a denti stretti, come un forzato verso la liberazione. Aveva perfino rinunciato alla chitarra, quell’anno, e non era stato un sacrificio da poco. Ma alla maturità l’avevano respinto in pieno. Quello che aveva detto il papà gli chiudeva lo stomaco ancora adesso, a pensarci.

    Non prendertela così, Renzo, gli aveva detto la mamma. La sua voce era tranquilla e la sua spalla morbida come un nido sotto la sua fronte sudata.

    Io e te sappiamo che hai fatto del tuo meglio… Non è stata colpa tua. Un po’ di sfortuna. E un po’ di esaurimento, ecco tutto. Era ridicolo essere esauriti quando si è alti uno e ottantacinque e larghi in proporzione e campioni di rugby, ma a sentirlo dire dalla mamma non era ridicolo, lo giustificava e consolava. Rifarai il tuo anno in santa pace, gli aveva detto. Non è mica un delitto: né un disonore. E poi zitto zitto ti iscriverai a medicina come i gemelli e Giorgio, e sarai il più bravo di tutti: scommessa?.

    Non aveva potuto vincerla, la scommessa. Era morta prima. Lui aveva passato gli esami (per miracolo o per pietà, non lo sapeva), ma la mamma era morta, e non gli importava più di niente. Neanche della medicina. Bella buffonata, la medicina. Era servito molto, alla mamma, avere un marito medico. Preso com’era dai suoi pazienti, dalle sue preoccupazioni, dalle sue digestioni, dalle sue dittature, non s’era neanche accorto che sua moglie era malata. Malata, sfinita, sfiancata da otto figli turbolenti e da un marito ancor più turbolento dei figli, e non si lamentava mai.

    Fino all’ultimo aveva tirato avanti la grossa barca della sua famiglia, senza riposarsi un giorno; aveva appianato difficoltà, sedato risse, risolto problemi d’ogni genere, affrontato fatiche d’ogni tipo, li aveva nutriti, educati, consigliati, rappacificati, presi in giro, consolati, loro e il papà con la sua tenerezza e il suo tranquillo umorismo, e lui l’aveva lasciata morire. Il grande medico. Il patriarca. Il buffone.

    Renzo scese alla sua fermata e si incamminò verso casa, non troppo in fretta, con le mani in tasca. C’era anche il libretto universitario, in tasca.

    Con un bel dodici in più.

    E adesso, camminando lungo il Naviglio, rivedeva la faccia di suo padre che lo guardava al di sopra degli occhiali abbassati, pochi giorno dopo la maturità (la seconda, a ottobre). Una grossa faccia scontrosa, con gli occhi arrossati ai bordi. La mamma era morta da quattro mesi.

    «Tu! Devi andare a iscriverti», gli aveva detto. Non una parola di lode, non un ragazzo, niente. Solo va’ a iscriverti. Tu.

    " Iscrivermi a cosa?», gli aveva chiesto, senza guardarlo. Teneva i pugni nelle tasche, come adesso.

    «A legge, no?», aveva detto il papà, come fosse una cosa già scontata.

    Sicuro: legge. Anche i suoi fratelli glielo dicevano spesso: «Ma va’ a far legge!», era un vecchio scherzo. Il papà

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