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Genova uccide: Tre cadaveri per Alessandro Pinna
Genova uccide: Tre cadaveri per Alessandro Pinna
Genova uccide: Tre cadaveri per Alessandro Pinna
E-book476 pagine6 ore

Genova uccide: Tre cadaveri per Alessandro Pinna

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Info su questo ebook

Torna con la sua seconda avventura Alessandro Pinna, il nuovo personaggio di Marvin Menini accolto con entusiasmo dalla critica e dai lettori nel 2020. Un tempo, alto ufficiale dei Carabinieri che ha deciso di congedarsi volontariamente dall’Arma dopo quello che è accaduto a sua figlia Giulia. Nel presente, investigatore privato che cerca di convivere con i rimorsi e sbarcare il lunario. Tre omicidi sulla sua strada, tre casi da risolvere: un primario ospedaliero che viene trovato morto dopo un gioco erotico, un caso di pedofilia e una cinese senza nome dentro ad un container nel porto di Genova. Tre storie tra presente e passato, intrecciate con la sua esistenza tormentata, il suo carattere duro e chiuso, e le due donne che lo hanno portato a scelte difficili. Tre momenti diversi della sua vita, con a fianco l’inseparabile amico, tenente dell’Arma, Marcello Mari. E una quarta, misteriosa, vicenda di alta finanza e corruzione tra Milano e Camogli. Che cosa lega Marco Sgrò ad Alessandro Pinna?

Marvin Menini ha cinquant’anni. È laureato in Medicina e Chirurgia, e specialista in Ortopedia e chirurgia della mano e svolge il proprio lavoro presso un importante ospedale genovese. È appassionato di cucina, poker e letteratura noir. Ha giocato 23 anni a Pallanuoto e adesso si dedica al Crossfit. Nel 2015 ha pubblicato in self-publishing il romanzo Nel cuore del centro storico, la prima avventura di Matteo De Foresta, ed ha partecipato al concorso “Ilmioesordio2015”. Il libro è arrivato in finale, selezionato assieme ad altre 50 opere da scuola Holden. Nel gennaio 2017 ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori la seconda avventura di Matteo De Foresta, Poker con la morte. Il romanzo è arrivato al primo posto, nella settimana di Ferragosto 2017, nella classifica assoluta dei best seller di Amazon. Ha partecipato nel novembre 2017 alla raccolta di Fratelli Frilli Editori Una finestra sul noir con un proprio racconto. Nel febbraio 2018 ha pubblicato per Fratelli Frilli Editori la terza avventura di Matteo De Foresta, I Delitti dei Caruggi. Il romanzo è rimasto nella classifica assoluta Top 100 dei best seller di Amazon, categoria Gialli e Thriller, fino a giugno 2018. Nell’ottobre 2018 ha pubblicato un racconto nell’antologia 44 Gatti in Noir edita da Fratelli Frilli Editori. Nel gennaio 2019 ha pubblicato sempre per Fratelli Frilli Editori la quarta avventura di Matteo De Foresta, I Morti non parlano. Nel maggio 2020 ha visto la luce il suo secondo personaggio, Alessandro Pinna, con il romanzo Due Delitti sempre pubblicato da Fratelli Frilli Editori. Ad oggi, è considerato dalla critica e dai lettori uno degli autori emergenti del noir Genovese.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2021
ISBN9788869435409

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    Anteprima del libro

    Genova uccide - Marvin Menini

    21.05.2017 (Domenica)

    Genova è una donna volubile e talvolta infantile. Capricciosa, quando lascia che la primavera esploda improvvisa: e sbuca senza un apparente motivo come un cadavere trattenuto dal terreno per tutto l’inverno.

    Genova è una donna affascinante e nobile. L’aria si impregna in un baleno dei profumi delle piante; di pitosforo e gelsomino, rosmarino e timo serpillo. E il sole, grande e perfetto nella sua forma sferica in mezzo a un cielo azzurro e terso, avvolge la città nel caldo che a tratti può diventare opprimente.

    Genova è una donna accogliente. Quel giorno di maggio, in molti avevano subito approfittato del clima per riempire le spiagge lungo la costa. La città era andata a dormire con il piumone per ritrovarsi ad indossare, al risveglio, maniche corte e calzoncini. I brevi tratti di litorale fatti di ciottoli rosicchiati alle rocce e gli stabilimenti di corso Italia erano già pieni come durante i mesi estivi.

    C’era poi invece chi cercava il fresco sotto agli alberi.

    Genova, se la conosci, sa anche essere una donna tranquilla.

    Il parco del Peralto è il polmone verde della città, situato sulle alture a pochi minuti dal centro. Una collina alta e morbida, vicino al quartiere del Righi e a quello di Oregina, mantenuta intatta nella sua vegetazione ricca e variegata. Seminata di piste da jogging, percorsi fitness, aree per i picnic.

    E poi, la meta più agognata da tutti i bambini: il parco giochi al centro del bosco.

    Un prato con altalene, scivoli, la pista ciclabile e pure il piccolo campo da pallone in sintetico con le porte nuove di zecca.

    Mariangela Calvini conosceva bene quel posto. Aveva quarantatré anni e viveva poco sotto al parco, nel quartiere popolare di Oregina. Faceva da sempre la parrucchiera nel negozio a dieci metri dal portone di casa. Mezza giornata pagata in nero, ma le andava bene così: perché non era quello il suo lavoro principale. La sua vera professione era fare da madre a tempo pieno di due teppisti in preadolescenza: ancora innamorati del pallone e dei giochi piuttosto che delle loro compagne di classe. Sarebbe arrivato il tempo delle fidanzatine, degli appuntamenti e delle pene d’amore. Ma non era ancora quello il giorno: e al momento, a Mariangela, l’idea non dispiaceva affatto.

    Genova è una donna di casa, madre e nonna dai fianchi larghi.

    Controllò i due ragazzi, proteggendosi la vista dal sole con la mano. Sembravano non perdere mai energia e voglia di giocare. Guardò l’orologio, erano quasi le diciassette.

    Ancora cinque minuti, poi andiamo a casa, va bene?, urlò.

    Sì mamma, va bene, le aveva risposto suo figlio grande Michele.

    Undici anni di energia: assieme a suo fratello più piccolo, Lorenzo di nove, era già tre ore che giocava a rincorrersi con gli altri bambini. Schiamazzavano, inseguivano senza sosta un pallone. Erano sudati fradici e, quella domenica di maggio, sembrava davvero pieno agosto. Tutti in canottiera, a spingersi per bere l’acqua dell’unica fontanella nella zona dei giochi e a bagnarsi la testa.

    Assieme a Michele c’era un suo compagno di classe. Un mingherlino secco e slanciato di nome Andrea. Si era girato a fissarlo ed aveva sbuffato.

    Dai, Andre, abbiamo ancora poco tempo. Quella rompiscatole di mia mamma vuole che andiamo.

    Andrea Vincenti tirò fuori la pistola Nerf, con i proiettili di polistirolo e la punta di gomma morbida. Michele si allontanò annuendo complice, rovistò nella borsa di sua mamma e tirò fuori un’arma simile. Guardò suo fratello Lorenzo con ghigno sadico.

    Dai, Lollo, scappa. Ti diamo dieci secondi di vantaggio. Se riesci a tornare qui senza che ti colpiamo hai vinto tu.

    E se perdo?

    Sei nostro. Non si sfugge alla legge, criminale.

    Lorenzo mostrò finta preoccupazione, scappò e cominciò a infilarsi nel bosco.

    Polizia, sei in arresto, urlò Andrea. Iniziarono a inseguirlo mentre, nonostante gli sbraiti di sua madre, Lorenzo si era arrampicato lungo il fianco ripido e boscoso che delimitava l’area gioco.

    Si infilò in mezzo: alti pini, carichi di fronde e pigne, con spesse radici nodose che in alcuni punti perforavano il terreno e gli ricordavano orrendi artigli, pronti ad afferrarlo e a trascinarlo di sotto. L’aria era carica di muschio, muffa, urina e feci. Nei tratti in cui la vegetazione si infittiva, dove anche il sole faceva fatica a penetrare attraverso le fronde, i resti di carta igienica e pacchetti di patatine mostravano l’indecenza degli esseri umani. Si addentrò ancora nel bosco, tenendosi ai rami per non scivolare. Si sentì avvolto dal silenzio e dal freddo.

    Lolloooooo, dove seiiii?, urlò suo fratello. I suoni arrivavano ovattati, lontani.

    Lorenzo trattenne il respiro e si acquattò dietro a una felce; i suoi due rivali armati avanzavano cauti, cercando di pesare i passi senza fare rumore. Sorrise soddisfatto: lo avevano superato senza scorgerlo.

    Si mosse con cautela, all’indietro, per tornare allo spiazzo. Fece due passi. Crack. Aveva pestato qualcosa. Si morse il labbro, un a-ha di suo fratello: lo avevano sgamato.

    Sei quasi nostro, ladro.

    Le voci si avvicinavano. Provò a correre senza guardare dove stava mettendo i piedi e incespicò, forse in una radice che usciva dal terreno. Rotolò un paio di metri lungo la scarpata, sempre in mezzo al bosco. Alla fine della corsa, tirò un sospiro di sollievo: qualche graffio e niente altro. Si sollevò da terra, tornò sui suoi passi per proseguire nel suo piano di fuga e ritornare sul sentiero. E lì, capì di non essere inciampato in una radice.

    Una mano grande come la sua, senza più carne su tre delle cinque dita, spuntava appena dal terreno. Il dorso era ricoperto di muffa, la pelle grigia era secca come quella di una mummia. Sembrava voler afferrare l’aria, chiedere aiuto perché qualcuno la tirasse fuori da quel buco in mezzo ai rovi ed ai muschi.

    Lorenzo ebbe paura ed urlò. Urlò più volte attirando l’attenzione di tutti gli adulti presenti nell’area giochi.

    Fu così che venne ritrovato, dopo sei mesi di vane ricerche dalla sua scomparsa, il corpo senza vita del piccolo Davide Moretti. Il suo cadavere era sbucato dal terreno senza un vero motivo, come la primavera.

    Genova è una donna strana: che sa essere anche misteriosa, cattiva, matrigna e assassina.

    06.12.2017 (Mercoledì)

    Alessandro Pinna era entrato nella vasca della piscina di Albaro pochi minuti dopo le diciassette. Aveva nuotato un’ora e mezza, distendendo la muscolatura a ogni bracciata lenta e costante.

    Il silenzio dell’acqua, i rumori ovattati, l’assenza di pensieri. Quelle due ore in vasca erano, per lui, una specie di medicina. Non c’era giorno della sua vita, feste comandate incluse, in cui non percorresse almeno cinque chilometri nuotando. A suo dire, il nuoto teneva in forma e soprattutto raddrizzava la schiena ed i pensieri.

    Uscì dall’impianto qualche minuto prima delle diciannove. L’aria era fredda ma l’assenza della tramontana gli stava donando un senso di pace e tranquillità. Si accese una Camel e tolse la modalità aerea dal cellulare. Un messaggio in segreteria.

    Signor Pinna buonasera. Mi chiamo Matteo Gennari e sono un avvocato. Necessito di parlarle quanto prima. Ho un lavoro per lei.

    Si appoggiò al muretto in cemento, sotto ai pini marittimi che circondavano l’impianto. L’inverno stava ormai lanciando il suo attacco, il freddo iniziava a farsi sentire ma lì sotto e a quell’ora si poteva ancora trovare un po’ di riparo dal vento. Terminò la sigaretta, fissando il display. Poi, compose il numero di cellulare.

    Pinna, rispose al pronto.

    Ah, buonasera. Sono Gennari. Ha sentito il mio messaggio?

    Beh. O quello, oppure ho doti di telepatia e preveggenza. Mi dica, avvocato.

    Già.

    Un colpo di tosse, come per nascondere un momento di imbarazzo. L’avvocato riprese il discorso.

    Ho un incarico da affidarle. Molto delicato. Posso contare sulla sua discrezione?

    "Boni pastoris est tondere pecus. Non deglubere."

    Ah, è latino, vero?

    No, boscimane antico. Certo che è latino. Un buon pastore tosa la pecora, non la scanna. Ma non ha fatto il liceo?

    Il suo interlocutore si schiarì la voce.

    Ci posso contare quindi?, domandò.

    È il mio lavoro essere discreto. Fissiamo un appuntamento? Io ho l’ufficio vicino a via San Lorenzo, in via Chiabrera.

    Sì, so dove ha l’ufficio. Ma preferirei di no.

    Come crede. Facciamo da lei allora?

    Un altro colpo di tosse.

    Ecco, veramente sarebbe meglio incontrarci in un bar. Le va a genio quello in fondo a Galleria Mazzini?

    Come crede. Non vuole che nessuno ci veda assieme, per lo meno non nei nostri luoghi di lavoro abituali. Deve sembrare un caffè tra amici. Ho capito bene?

    Una breve pausa.

    Per l’appunto, rispose Gennari abbassando la voce.

    Quindi non è per un suo cliente. È lei che ha bisogno di me. Per sua moglie? La tradisce, avvocato?

    Gennari attaccò a ridere.

    No, no. Non fraintenda. È per un cliente. Ma è meglio se ne parliamo vis-à-vis. Comunque non sono corna. Nulla è più distante dalla realtà. Le va bene domattina per le dieci?

    Affare fatto. Buona serata. E ripassi il latino.

    Alessandro andò a recuperare la sua golf blu scuro. Un’auto al limite della decenza, con una lunga riga sul fianco e un borlo sul tetto. I vetri erano così sporchi da far dubitare che l’autista fosse in grado di vedere la strada.

    Salì, attaccando la radio su Rai Classica. Ascoltò la sinfonia in onda, mettendo in moto, e pensò che potesse essere Haydn o Brahms. In pochi minuti, giusto il tempo che il concerto finisse, Pinna parcheggiò sotto casa sua in corso Firenze. Afferrò il mazzo di rose rosse sul sedile del passeggero, fasciate in cellophane e carta stagnola e con un bel nastro rosso, e le strinse. Sospirò, avvertendo il magone prendere forma. Oggi era il compleanno di sua moglie Eleonora.

    2.

    La casa era come sempre pulita, con i mobili lucidi e un buon profumo di detersivo alla lavanda che emanava dalla graniglia alla genovese del pavimento in salone. Muri dipinti di bianco, semplici, con un Luzzati alla parete e altre opere d’arte. Un vaso di chiara foggia orientale, porcellana lucida a inchiostro blu. Un grande quadro incorniciato che raffigurava degli ideogrammi cinesi, tracciati con un pennello sinuoso e con china nera.

    Entrò in casa, il sole aveva ormai terminato la sua marcia quotidiana oltre il promontorio di Arenzano e il buio, fuori, avviluppava ogni cosa. Posò la borsa del nuoto vicino alla porta. Catullo, il certosino di casa, gli si strusciò contro i jeans e crollò a terra a pancia all’aria attendendo le coccole. Grattò la pancia del gatto che avviò il motorino delle fusa e poi si diresse verso la cucina, reggendo in mano il mazzo di rose. Eleonora stava controllando qualcosa nel forno, china in avanti, e annuiva soddisfatta. Nell’aria si stava diffondendo un appetitoso odore di arrosto.

    Si girò, guardò Alessandro e spalancò un sorriso pieno di gratitudine e sorpresa vedendo il mazzo di rose.

    Buon compleanno, amour.

    Ah, ma allora aveva ragione Giulia. Non ti sei dimenticato..

    Alessandro provò il desiderio di prendere il mazzo di rose e sbatterlo contro il muro. Farlo con furia, urlando, finché ogni singolo petalo non fosse caduto sul pavimento, screziando di rosso le pareti. Rosso come il sangue che iniziò a colare sull’indice della mano sinistra: aveva stretto troppo il mazzo per la rabbia e una delle spine gli si era conficcata nel dito. Fissò Eleonora, accennando un no con la testa.

    E come avrei potuto scordarmene? Cento di questi giorni. Porse le rose alla moglie, che le portò al petto chiudendo gli occhi e annusandone il profumo.

    Grazie, amour. Grazie davvero. Eleonora spalancò gli occhi, con aria compiaciuta. E che cosa mi regali? L’intervento di chirurgia estetica che mi prometti da almeno dieci anni?

    Si indicò il voluminoso neo che, a tre dita dalla bocca, occupava il centro della guancia. Assomigliava a un’isola in mezzo al mare, con una fine peluria sovrastante che ricordava la lanugine sulla testa dei lattanti.

    Mi piace il tuo neo, Ele.

    Lei lo baciò.

    Sai?, disse. Abbiamo fatto la torta io e Giulia. Me l’ha detto lei. Vedrai che papi si ricorda e stasera festeggiamo. Vieni a vedere.

    Lo afferrò per un braccio, con l’intento di tirarlo verso il frigo. Oppose un minimo di resistenza.

    Non, serve, Ele, mi fido. Lo so che sei brava.

    La moglie insistette, aumentando la presa e la forza.

    Ma no, dai. Davvero. Guarda qui.

    Alessandro si arrese. Nel lavandino, oltre alla planetaria e alle ciotole bianche di plastica utilizzate per gli amalgami degli ingredienti, c’erano due marise in silicone. Una sporca di crema e una intonsa, senza neanche un segno. Eleonora aprì il frigo. Sul primo ripiano in basso c’era una torta glassata con il cioccolato fondente.

    Vedi? L’ha tutta ricoperta Giulia. Guarda quanto è stata brava.

    Alessandro avvertì una fitta al petto. Sentì la rabbia montare ancora, un qualcosa di incontrollabile come un’onda anomala che tracima oltre il molo e spazza via tutte le piccole barche.

    Non farlo, pensò.

    Eleonora indicò un punto della torta. Nel cioccolato c’era un piccolo solco largo quanto un suo dito.

    Ha pure dato una ditata quella piccola farabutta, disse ridendo.

    L’onda era arrivata. Aveva travolto tutto. Alessandro afferrò il dolce mettendo la mano sotto e lo scagliò contro il muro dall’altra parte della cucina. Cioccolato e pan di spagna iniziarono a colare lungo la parete.

    Pinna si mise a piangere e a urlare.

    Non c’è Giulia. Hai capito? Giulia non c’è più.

    Afferrò per le spalle Eleonora, iniziò a scuoterla. La donna era rimasta immobile, con gli occhi e la bocca spalancati. Pinna continuò con le sue mani grandi e le spalle da nuotatore a scrollarla.

    L’hai fatta da sola la torta. Giulia non è più qui. Basta, Ele. Basta. Non ne posso più.

    Si accasciò, con la schiena contro una delle ante della cucina. Con le mani sulla faccia, rannicchiato. Continuò a piangere mentre Eleonora, sempre inebetita, restava in piedi di fronte a lui. La donna ebbe un sussulto. Un lampo di consapevolezza sembrò quasi scuoterla. Lo guardò con aria severa.

    Perché l’hai fatto? Perché hai rovinato il mio compleanno? Non dovevi.

    Alessandro alzò la testa e la studiò. Aspettava una reazione. Una qualsiasi. Eleonora aveva gli occhi a fessura, mostrava i denti in una specie di ghigno pieno di rabbia.

    Ci abbiamo messo tre ore per farla, io e Giulia. Perché? Perché hai rovinato tutto? Rovini sempre tutto, tu.

    Amour, non è così. Ascoltami.

    Che cosa devo ascoltare? Che pensi solo al lavoro? Prima viene l’Arma, certo. E poi forse la tua famiglia.

    Pinna si alzò. Avvertì il peso della resa. L’angoscia che lo attanagliava quando la rabbia cedeva il passo alla rassegnazione. Accarezzò la guancia di sua moglie e la strinse forte a sé, baciandole la testa.

    Scusa, scusami amore mio. Ho avuto una brutta giornata. E non so come mi sia successo. Perdonami. Ho rovinato la vostra torta e la tua festa.

    La donna lo allontanò.

    Va’ in camera di Giulia e chiedi scusa a lei. Io qui devo pulire tutto adesso. E siamo senza dolce.

    Alessandro sospirò, mettendo le mani sui fianchi.

    Non ti preoccupare. Scendo giù dal pasticcere e ne prendo una.

    Uscì dalla cucina ed entrò nella cameretta, come sempre ordinata e pulita. Le lenzuola bianche gli ricordarono il centro in cui il corpo di Giulia era tenuto in vita da un respiratore automatico e da tutti i tubi che entravano e uscivano dal suo corpo.

    Si stese sul letto della figlia, abbracciando Winnie the Pooh e inspirando a pieni polmoni. L’orsacchiotto era ancora pregno del suo profumo. Un qualcosa che sapeva di innocenza, pulizia, ottimismo e gioia di vivere. Tutte quelle cose che lui non aveva più.

    Iniziò a piangere di nuovo. Stretto nel pupazzo, con le gambe rannicchiate sul petto, Alessandro cercava un perché. E la risposta che non trovava da più di tre anni, sempre alla stessa domanda. Avrebbe potuto evitarlo? Sarebbero bastati quindici minuti. Forse dieci.

    Sarebbe bastato anche un solo cazzo di secondo.

    Si asciugò le lacrime e fissò il soffitto. Pensò a lungo se fare quella telefonata. Se avrebbe avuto senso. Già. Sarebbe bastato non essere con lei. Si diresse in bagno, mentre Eleonora continuava a sfregare il muro per togliere il cioccolato. Seguitò a rimuginare, indeciso.

    Poi sospirò: afferrò il cellulare e compose un numero. Oggi non era solo il compleanno di Eleonora.

    3.

    Luciana Verdi aveva appena finito di fare un lungo bagno rilassante a casa. La luce era tenue e soffusa. Seduta sul bordo della vasca, si stava passando una crema idratante sulle lunghe gambe lisce e con solo un filo di cellulite sulle cosce.

    Un qualcosa che, alla soglia dei quaranta, poteva essere considerato accettabile da molte donne. Non per lei.

    Sul bordo della vasca c’erano ancora cinque candeline accese di colore rosso e un altoparlante bluetooth collegato al suo smartphone che riproduceva Waitin’ on a Sunny Day di Bruce Springsteen.

    Mentre pensava alla dieta e a qualche nuova tisana drenante, la musica cessò di colpo e il cellulare iniziò a squillare. Guardò il nome sul display, la mano esitò nel rispondere. Poi, storcendo la bocca in una smorfia di perplessità, fece scorrere il dito per avviare la conversazione.

    Ciao.

    Un secondo di esitazione.

    Ciao, Lu. Volevo farti gli auguri. Come vedi non mi sono dimenticato.

    Luciana lasciò esplodere una risata sarcastica e continuò a passarsi la crema idratante sulle gambe, reggendo il telefonino tra la guancia e la spalla.

    Lo credo bene. Sono nata lo stesso giorno di tua moglie. Come potresti dimenticartene, Pinna? Sei davvero sfigato. O forse, la sfigata sono io. Non so.

    Avvertì lo scatto dell’accendino e la prima boccata di fumo.

    Non è per quello che me ne ricordo. È inutile ribadire l’ovvio.

    Eh già. Per te è sempre tutto ovvio. Tutto scontato. Ti trascini nel silenzio e nell’ignavia. E le cose non cambiano mai.

    E come dovrebbero cambiare? Lo sai quello che vivo ogni giorno.

    Luciana si alzò. Prese una salvietta di cotone color pesca e si pulì le mani.

    Non ti ho chiesto di sposarmi, di andare a vivere insieme. A Sarzana due mesi fa ti ho chiesto solo di esserci. Di non sparire di nuovo. Di ricominciare ad avere un rapporto di qualche tipo. Mi basterebbe un qualcosa simile all’amicizia.

    Alessandro sospirò.

    E tu l’hai fatto?, gli chiese Luciana.

    In qualche modo sì, mi pare.

    La dottoressa Verdi rise.

    Una telefonata a fine novembre. Un caffè al volo tre settimane fa. Mi sembra un po’ pochino, Pinna.

    Lo so. Hai ragione.

    Luciana scagliò la salvietta con rabbia nel cesto della biancheria sporca.

    Non mi dare ragione. Lo sai che non me ne faccio un cazzo della ragione. Sai come passerò la sera del mio compleanno?

    No.

    Afferrò un asciugamano e iniziò a strofinarsi i capelli.

    Stasera passerò il mio cazzo di compleanno con le solite amiche. A bere come una cretina, dire scemenze e sentirmi dire oh cara come stai bene, sei sempre meravigliosa e non invecchi. Per poi tornare a casa ubriaca con tre o quattro nuove cazzate in regalo di cui non mi farò nulla. E a piangere perché sto invecchiando da sola. Innamorata dell’unico uomo che non posso avere.

    Sentì la finestra spalancarsi e un altro sospiro di Alessandro.

    Ti passerà prima o poi. Il tempo è una buona cura.

    Sei un figlio di puttana, Pinna.

    Luciana chiuse la conversazione. Trattenne il desiderio di afferrare il telefono e scagliarlo contro il muro. Si mise di nuovo a sedere, con la testa tra le mani, e a singhiozzare. Sentì la vibrazione del telefono. Alessandro la stava chiamando ancora. Una volta, due volte. Alla terza, Luciana spense il telefonino.

    Si alzò, cercando di non pensarci più, e si guardò allo specchio, di profilo, consolandosi grazie all’addome piatto e l’ombelico piccolo e appena incavato. Sua nonna diceva che era perfetto come un tortellino fatto in casa: secondo la tradizione emiliana, per essere perfetti, dovevano ricordare l’ombelico di Venere.

    Continuò a prepararsi, indossando un tubino nero senza maniche e gli anfibi neri. Poi riaccese il cellulare. Un messaggio di Pinna.

    Scusami, sono uno stronzo. Buon compleanno Lu.

    Luciana si morse il labbro, scuotendo la testa, e infilò il cellulare nella borsa. Si sentì ancora una volta un’imbecille, incapace di trovare quel pulsante dentro di lei che le permettesse di spegnere tutto e cancellare Alessandro Pinna dalla sua vita. Uscì di casa salutando Boss, il suo gatto tigrato, con una carezza. Covando ancora quel desiderio frustrante e inutile: dimenticarlo per sempre.

    4.

    Claudia, la migliore amica di Luciana, aveva organizzato le cose in grande. C’erano Francesca, la Donatella. La Roby e anche la Manu che, da quando aveva partorito il secondo, non usciva poi così tanto. Essere lì, per lei che aveva così poco tempo, era una specie di miracolo.

    Si strinsero attorno a lei, abbracciandola e baciandola, sciorinando i soliti complimenti che aveva previsto. Claudia le aveva porto un mazzo di tulipani rosa, i suoi fiori preferiti. Luciana ne amava la grazia e l’eleganza. La loro semplicità e la capacità che avevano di sopravvivere agli inverni più duri ed alle estati afose. Era una pianta dotata di forza ed ottimismo, senza perdere delicatezza. Quando era giovane, si sentiva come i tulipani. Adesso, se ci pensava, forse assomigliava di più a una ninfea: un fiore bello e appariscente, che però galleggia in acque stagnanti.

    Le ragazze presero posto all’aperto, sotto all’ombrellone bianco del Muà in centro storico. Il locale era situato in una piazzetta tranquilla dove la luce del sole non faticava ad arrivare nelle ore del giorno.

    Anche se ormai era buio ed inverno, si stava bene fuori ed era un peccato chiudersi nel locale. E poi, sia la Dona che la Fra avevano ancora quel cazzo di vizio del fumo.

    Ragazze, io ho una fame blu e mi butto sul cibo, disse toccandosi la bocca dello stomaco. Claudia attaccò a ridere.

    Non ti smentisci mai, Lu. Aspetta che ordiniamo e arriviamo anche noi. Che cosa prendi?

    Uno Spritz con l’Aperol.

    Entrò nel locale, dirigendosi al buffet. Nella testa aveva ancora la voce di Pinna. Avvertiva in fondo alle viscere quella sensazione dolce e amara allo stesso tempo, tipica di quando pensava a lui. Sentiva anche il peso per ciò che doveva dirgli ormai da troppo tempo. Il suo segreto. Il dolore che aveva tenuto per sé troppo a lungo. Per un attimo si sentì in colpa. A che cosa sarebbe servito? A vendicarsi? A stare meno male? A cancellare il dolore di ciò che, alla fine, il destino aveva scelto per lei? Lo pensò ancora. Se lo immaginò seduto a tavola con Eleonora. A far finta che Giulia fosse lì con loro. A recitare quello strazio quotidiano. A darle, come ogni sera ed ogni mattina, le medicine che la sedavano e le permettevano di vivere in quella specie di limbo. Un incubo, per meglio dire. Provò pena, poi di nuovo rabbia. Il tempo è una buona cura. Che pezzo di merda. Basta, si disse. Non stasera. Che si fotta lui, le sue paranoie e la sua mente buia e stipata di cose inutili e marce come uno sgabuzzino di campagna. Non gli avrebbe permesso di rovinarle la serata.

    Scrutò le varie portate alla ricerca delle ostriche. Riempì un piattino con due pezzi di pizza e delle carote a bastoncino con la salsa rosa. Con la coda dell’occhio intravide quanto cercava all’inizio. Si girò di scatto. Due delle carote, intinte nella salsa, presero il volo dal piatto e si stamparono contro la camicia blu scuro di quello che era dietro di lei in coda. Spalancò gli occhi e si mise la mano sulla bocca.

    Oh, mi spiace. Le chiedo davvero scusa. Sono un’imbranata.

    L’uomo aveva lo sguardo caldo e castano. Emanava un profumo fresco come di maggiorana. Spalancò un sorriso bianco.

    Non si preoccupi.

    No, davvero. Aspetti che l’aiuto.

    Afferrò dal tavolo del buffet una salvietta di carta e la intinse in un po’ d’acqua frizzante. La passò sulla piccola macchia, creando un alone ancora più grosso.

    Mi scusi. Accidenti, che cretina che sono. Come posso farmi perdonare? Aspetti, me la faccia avere che la lavo e gliela stiro.

    L’uomo si mise a ridere.

    E che faccio? Me la tolgo adesso? E poi, se tanto mi dà tanto, me la brucia anche.

    Lo fissò imbarazzata, sentendo le guance diventare rosse e calde.

    Sto scherzando, aggiunse. E condì la frase con un altro sorriso. Comunque piacere. Mi chiamo Paolo.

    Luciana. Piacere mio.

    18.04.2009 (Sabato)

    Il teatro della scuola elementare Giano Grillo di Genova emanava un odore di chiuso e stantio tipico dei locali utilizzati poco. Un sentore molto vicino alla muffa, di cui sembravano anche pregne le poltroncine ribaltabili in velluto rosso situate in platea. Alessandro ed Eleonora erano seduti in terza fila, attendendo l’ingresso in scena di Giulia e degli altri bambini per il secondo atto della recita.

    Il sipario si sollevò, mostrando una scenografia grezza costruita con il polistirolo e il compensato. Un qualcosa che ricordava un grande albero frondoso, con grossi pomi rossi, era situato alla sinistra. Al centro c’era un castello grigio dipinto sopra ad un lenzuolo, con merli dozzinali ed asimmetrici. A fianco, Giulia era già in scena vestita da fata. Un lungo abito azzurro e argento. Sulla testa portava un buffo cappello a punta e in mano reggeva una bacchetta magica che terminava con una stella dorata.

    Attendo il mio cavaliere già da tanto tempo. Arriverà mai per salvarmi?

    Eleonora strinse forte la mano di Alessandro.

    Un altro bambino entrò in scena. Indossava quella che doveva somigliare ad un’armatura medievale, tenendo tra le gambe una scopa sormontata da una testa di cavallo bianco, con la criniera lunga e setosa, fatta in polistirolo. Saltellò imitando il galoppo dell’animale immaginario e raggiunse Giulia.

    Alessandro pensò che sembrava più un asino deforme.

    Oh, messere. Siete giunto alfine.

    Per servirvi, mia dama. Ma abbisogno della vostra magia.

    Ad Alessandro iniziò a vibrare il cellulare in tasca.

    Eleonora lo fulminò con lo sguardo.

    No, bisbigliò.

    Controllo solo chi è. Va bene?

    Sua moglie distolse lo sguardo adirata. Riprese a sorridere guardando Giulia.

    Tirò fuori il cellulare dalla tasca. Sullo schermo, lampeggiava il nome Marcello. Alessandro scivolò lungo la poltroncina per abbassarsi e nascondersi. Schiacciò il pulsante verde.

    Dimmi.

    Perché parli piano?

    Perché sono alla recita pasquale di Giulia.

    Un silenzio arrivò dalle loro spalle. Eleonora gli tirò una gomitata nel costato.

    Ma Pasqua era domenica scorsa.

    Eh vabbè. Sempre recita pasquale rimane.

    Un altro e basta da dietro.

    E mi sa che te la devi perdere, Alex. C’è un morto.

    C’era anche venerdì scorso ma è resuscitato domenica. Si sa mai.

    Boja fauss. C’è un possibile omicidio.

    Ammazzano un sacco di gente ogni giorno, maresciallo capo Mari.

    Così, proprio no.

    Giulia aveva allargato le braccia e sollevato la bacchetta magica.

    Per i poteri della luna e delle stelle, o mio cavaliere, io ti dono la forza per sconfiggere il drago con la tua spada.

    Sei sicuro che non posso fare a meno di venire? Qui mi scoppia un casino.

    Fissò Eleonora che in apparenza lo ignorava. Ma aveva smesso di tenergli la mano.

    Anche qui, Alex. Dai, ti farai perdonare. Come al solito.

    Alessandro sbuffò.

    Aspetta che esco e mi spieghi.

    Si alzò in piedi, tra le proteste degli altri spettatori. Sua moglie continuava a non degnarlo di uno sguardo. Incrociò lo sguardo di Giulia, che aveva capito e bloccò la sua battuta successiva. In pochi istanti era fuori dal teatro.

    2.

    L’ospedale San Giovanni di Genova era uno dei più vecchi e degni di lustro della città. Un edificio dell’ottocento lungo e rettangolare, costruito a metà del diciannovesimo secolo per volontà di una delle famiglie nobili della Superba e destinato, secondo le volontà dei Conti Adorno, alla cura dei poveri e degli indigenti. Nel tempo era diventato un’eccellenza della sanità Ligure, attirando professionisti di alto livello e mantenendo la fama di uno dei nosocomi migliori.

    Alessandro Pinna entrò che erano quasi le diciassette e trenta, attraversando il grande atrio affrescato e il pavimento di ardesia nera. Nel soffitto a volta, i tenui colori ormai sbiaditi in alcuni punti raffiguravano la resurrezione di Lazzaro. Gesù era in piedi, di fronte a una casa costruita in mattoni. Dalla porta un uomo stava uscendo in mezzo alla sorpresa delle donne presenti. A fianco del Cristo, con le mani aperte in preghiera e lo sguardo verso l’alto, riconobbe la Maddalena in ginocchio.

    Pinna pensò che se non fosse stato per il megaschermo in alto sopra la porta e per lo sportello del Bancomat, avrebbe giurato di essere stato spedito indietro nel tempo. E che la resurrezione, per un ospedale, era un bel biglietto da visita.

    Cercò con lo sguardo il suo collega, che doveva aspettarlo lì. Dopo qualche istante scorse la figura tozza e corpulenta del maresciallo capo Marcello Mari. Indossava la divisa e mostrava un certo nervosismo camminando avanti e indietro, dall’altra parte dell’atrio dove iniziava il lungo corridoio con le degenze. Gli andò incontro: Mari aveva già iniziato a sbuffare.

    Ciao Marce.

    Sei in ritardo, boja fauss.

    Dai, di cinque minuti. Non essere così pignolo adesso.

    Mi hai detto che ti dovevi andare a cambiare. E invece non ti sei messo nemmeno la divisa.

    Pinna sorrise.

    Eh, sai che il cotone della camicia di ordinanza mi fa venire l’orticaria.

    A te fanno venire il prurito le regole, altro che.

    "Può darsi. Quaedam iura non scripta."

    Ecco il latinorum di Don Rodrigo. Mi mancava.

    "Il latinorum era di Don Abbondio caso mai. E tu non sei Renzo.

    Ma questo comunque è Seneca: esistono diritti non scritti. Quale, ad esempio, il fatto che io possa non indossare la divisa per un’indagine fuori orario di lavoro e di sabato. Ero a vedere la recita di Giulia come avrai capito. Mi hai chiamato, io sono corso. Eleonora ovviamente è diventata una bestia e mia figlia mi terrà il muso per qualche secolo. Ma adesso smettiamo di parlare del mio abbigliamento e portami dal cadavere. Ci sono già passati i RIS?"

    Mari annuì e gli fece cenno di seguirlo.

    Stanno finendo proprio ora.

    C’è Angelini?

    Sì.

    Alessandro emise un grugnito di disapprovazione.

    Gli ho detto che prima di portarlo via tu avresti voluto dargli un occhio.

    Hai fatto bene.

    Mari arricciò le labbra, la barba fitta si sollevò dalle guance come le punte di un istrice.

    Perché ti sta sulle palle? Non l’ho mai capito. Voglio dire, con me ha sempre fatto lo spocchioso fin dal primo giorno. Ma con te si è sempre comportato in modo decente.

    Lo trovo raffazzonato e superficiale.

    E ti sta sui maroni. Dai, ammettilo. A te le persone stanno antipatiche già al primo sguardo. Basta un atteggiamento che non ti va a genio e ti sale subito la voglia di litigare.

    Pinna sorrise.

    Va bene, lo ammetto. Mi sta antipatico. Solo un po’ però. Di base detesto il suo tono di voce e la velocità con cui parla e sputacchia. E poi, con quell’accento veneto. Sembra sempre che abbia delle biglie in bocca come gli ubriachi.

    Vedi che ho ragione? E ti piace stuzzicarlo.

    Eh, quello sì. Tantissimo.

    Iniziarono a percorrere il corridoio in silenzio. Il pavimento era un lastricato a rombi alternati di ardesia e granito chiaro, lucido nei punti di maggior passaggio e venato dal tempo in altri. La luce, adesso tenue, durante il giorno irrompeva dalle grandi finestre che davano sul giardino interno: alte ed ampie vetrate con l’intelaiatura di ferro battuto, alternate da colonne di marmo in stile ionico che reggevano la volta in canniccio intonacato. Nelle ore di sole si creava un riverbero intenso sui muri dall’altro lato, dipinti di bianco, e la luce naturale risultava amplificata. Lungo il corridoio, nella parte interna rispetto al chiosco, si aprivano le sale delle degenze come i denti di un pettine.

    A quell’ora non vi era un grande passaggio, incrociarono solo qualche dottore e un infermiere che spingeva una barella. Un paio di degenti con delle flebo infilate nel braccio stazionavano sulle sedie lungo il corridoio e chiacchieravano con i parenti.

    I passi dei due militari

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