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Remain in Love: I Talking Heads, i Tom Tom Club e la mia vita con Tina
Remain in Love: I Talking Heads, i Tom Tom Club e la mia vita con Tina
Remain in Love: I Talking Heads, i Tom Tom Club e la mia vita con Tina
E-book544 pagine7 ore

Remain in Love: I Talking Heads, i Tom Tom Club e la mia vita con Tina

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Info su questo ebook

Chris Frantz incontra David Byrne all’inizio degli Anni ’70 e insieme a lui e alla futura moglie, la bassista Tina Weymouth, fonda i Talking Heads. Il gruppo si costruisce rapidamente una solida reputazione grazie alle collaborazioni con i Ramones e altri importanti artisti della scena musicale dell’epoca, e conquista fan eccellenti come Andy Warhol e Lou Reed, ma il vero successo arriva nel 1980, quando Brian Eno produce l’album che è considerato il loro capolavoro, Remain in Light. Nello stesso anno Chris e Tina fondano i Tom Tom Club, caratterizzati da un’originale fusione di musica etnica, funk, disco, pop ed electro destinata ad avere un grande impatto a livello internazionale.

Caldo, divertente e sincero, Remain in Love racconta l’ascesa e il declino di una band che ha caratterizzato gli Anni ’80, ma è anche la storia di un amore di quelli che capitano una sola volta nella vita, quello tra Chris e Tina, e di una collaborazione creativa che ha dato vita a una delle più grandi sezioni ritmiche che abbiano mai elettrizzato la scena della musica pop.

LinguaItaliano
Data di uscita17 feb 2023
ISBN9788830592131
Remain in Love: I Talking Heads, i Tom Tom Club e la mia vita con Tina
Autore

Chris Frantz

Batterista dei Talking Heads, a metà degli Anni ’70 ha fondato insieme a David Byrne l’iconica band. Nel 1980 ha fondato insieme alla moglie, la bassista Tina Weymouth, e al chitarrista Adrian Belew i Tom Tom Club, considerato uno dei gruppi musicali che hanno fatto la storia del rock e del pop.

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    Anteprima del libro

    Remain in Love - Chris Frantz

    RINGRAZIAMENTI

    Un grazie speciale alle brave persone che mi hanno aiutato nella scrittura di questo libro. Ho apprezzato enormemente la vostra gentilezza: Elizabeth Beier, Lee Brackstone, Tomas Cookman, Sloan Harris, Daniel Kirschen, Megan Wilson, Rob Filomena, Frank Gallagher, Ira Lippy, Paul Wexler, Wally Badarou, Dolette McDonald, Steve Scales, Ednah Holt, Frederic Serfati, J. R. Rost, Jeff Jones, Duncan Hannah, Marc Kehoe, David Hansen, Lloyd Stamy, Gareth Murphy, Ed Bicknell, Damita Pearson, Lynn Nora, Nicola Mcquaid, Hannah Phillips, Jennifer Sarkissian e Mia Bohling.

    Fotografia dell'autore che guarda fisso in camera

    PREFAZIONE

    Sono stato molto fortunato: non solo ho contribuito a fondare uno dei gruppi rock più originali ed entusiasmanti di sempre ma l’ho anche fatto al fianco dell’amore della mia vita, Tina Weymouth. Insieme a David Byrne e, successivamente, a Jerry Harrison abbiamo creato un nuovo paradigma che abbiamo definito Dance Music dell’Uomo Pensante.

    Il nome del gruppo era Talking Heads. L’ispirazione arrivò dagli artisti che amavamo – Velvet Underground, David Bowie, James Brown, Al Green, Otis Redding, Booker T. & the M.G.’s, Kool & The Gang, Stooges e le band di garage psichedelico degli anni Sessanta – ma il sound era completamente diverso da quello di tutti gli altri. Non copiavamo lo stile di nessuno. E nessuno era in grado di copiare il nostro.

    Conobbi Tina al corso di pittura della Rhode Island School of Design e ci innamorammo. Mi sostenne nel sogno di far parte di un genere diverso di gruppo rock e, con il mio incoraggiamento, alla fine diventò un membro fondamentale di quel gruppo e un’iconica pioniera delle donne nella musica.

    Ci trasferimmo a New York con un progetto: lasciare il segno nella storia della musica e dell’arte. Scoprimmo di non essere i soli con quel sogno. I Television, Patti Smith, i Blondie e i Ramones lo stavano già realizzando e guardarli esibirsi in un club maleodorante sulla Bowery fu per noi il necessario e ulteriore stimolo a scrivere brani nuovi e originali in uno stile inconfondibile.

    Potreste definire me e Tina come la squadra che rese famoso David Byrne: fummo bravissimi a puntare i riflettori su di lui. Creammo una band che era post-punk prima che nascesse il Post-Punk, new wave prima della New Wave e alternative prima dell’Alternative. E, lungo il cammino, piazzammo anche qualche hit. Con Psycho Killer, Take Me to the River, Life During Wartime, Once in a Lifetime, This Must Be the Place, Burning Down the House e Road to Nowhere riscuotemmo un successo artistico, commerciale e di critica, una combinazione rara. Andammo in tour con Ramones, XTC, Dire Straits, B-52s, Pretenders, Eurythmics, Black Uhuru, Simple Minds, Police, Psychedelic Furs e Devo, solo per citarne alcuni.

    Suonammo al Dick Clark’s American Bandstand, al Saturday Night Live, al Late Night with David Letterman e al The Old Grey Whistle Test. Fummo presenti al lancio di MTV con il video di Once in a Lifetime.

    Poi, durante una pausa dai Talking Heads, io e Tina rifacemmo tutto con una nuova band, i Tom Tom Club, che aveva sonorità completamente diverse e che ci regalò i primi successi mondiali e dischi d’oro con Wordy Rappinghood e Genius of Love. Una mattina suonammo dal vivo come Tom Tom Club negli studi di Soul Train a Hollywood prima di recarci al Pantages Theater per le riprese, come Talking Heads, di Stop Making Sense con Jonathan Demme alla regia.

    Qualunque musicista professionista con oltre quarant’anni di carriera alle spalle ha vissuto un’esistenza con molte fasi alterne. In questo memoir ve le racconterò tutte, dai tempi della scuola d’arte all’ingresso nella Rock & Roll Hall of Fame. Su di noi hanno scritto diversi libri, ma la maggior parte non è un granché e nessuno ha portato davvero il lettore dietro le quinte. Con Remain in Love lo farò io.

    1

    IL MIGLIOR POSTO IN SALA

    Alle 21.00 del 17 dicembre 1980, al Palasport – meglio conosciuto come PalaEur – di Roma, in Italia, entrarono in scena i Talking Heads. Il gruppo spalla, i Selecter, nota band di 2 tone ska, aveva scaldato il pubblico fino a renderlo frenetico e quando feci di corsa l’enorme rampa di metallo che portava al palco e mi sistemai alla batteria sulla pedana, la mia Mojave Red Rogers, osservando le molte migliaia di fan, ne fui certo: avevo il posto migliore. Nella luce grigia e fredda del palazzetto la massa di ragazzi italiani, per lo più maschi, ondeggiava, vibrava e urlava come un’unica, enorme bestia selvaggia. L’aria era calda, umida e densa di fumo di sigaretta. Il rumoreggiare della folla era tanto travolgente che noi membri della band restammo spiazzati. Avevamo girato il mondo in tour, fatto il tutto esaurito ovunque, ma nessun pubblico si poteva paragonare a questo in termini di pura intensità animale. Faceva quasi paura, assomigliava a una versione moderna dell’antica plebe all’epoca del Colosseo.

    Dal mio trono – lo chiamano così lo sgabello dei batteristi – attesi che Tina Weymouth, Jerry Harrison e David Byrne fissassero le tracolle degli strumenti e segnalassero che eravamo pronti a spaccare. Si unì a noi anche l’amico e guitar hero Adrian Belew. Tina, splendida nell’abito che si era cucita da sola, un tubino bianco senza spalline con uno spacco laterale che saliva fin sopra la coscia, attaccò: bum, bum, bum, bum, bum, bum-bum-bum. La familiare introduzione di Psycho Killer scatenò un boato del pubblico così forte che fui costretto a chiedere all’addetto al monitor di alzare il volume del mio per poter sentire la band. Era la penultima data del tour europeo di Remain in Light e sarebbe stata una roba pazzesca.

    Un passaggio del concerto

    Uno dietro l’altro ci raggiunsero sul palco il fenomenale Steve Scales alle percussioni; Bernie Worrell, meraviglioso mago delle tastiere; Dolette McDonald, con la sua magnifica espressività, ai cori, e il basso aggiuntivo di Busta Cherry Jones, che avrebbe fatto ballare chiunque. Il nostro livello di energia rivaleggiava con quello del pubblico. Ecco la scaletta:

    Psycho Killer

    Warning Sign

    Stay Hungry

    Cities

    I Zimbra

    Drugs

    Once in a Lifetime

    Animals

    Houses in Motion

    Born Under Punches (The Heat Goes On)

    Crosseyed and Painless

    Life During Wartime

    Primo bis

    Take Me to the River

    Secondo bis

    The Great Curve

    Io ero il marcatempo, il signore del groove, gettavo le fondamenta su cui veniva costruita questa musica sensuale in modo divino e stuzzicante da un punto di vista artistico. Se penso a tutti i batteristi che ho ascoltato negli anni, i miei preferiti in assoluto non sono quelli che suonano le parti più difficili, veloci o tecnicamente complesse. Amo i batteristi che ti fanno venir voglia di ballare e stare bene con te stesso. Per come la vedo, la batteria va suonata nello stesso modo in cui si fa l’amore: non si dovrebbe essere frenetici. Non si dovrebbe essere narcisisti. Non si dovrebbe puntare a fare una buona impressione. Si dovrebbe, invece, essere sensibili al pezzo, al tempo, alla melodia. Mettersi al servizio sia della canzone che della band e, di tanto in tanto, sorprenderle positivamente. Esprimere potenza e, tuttavia, essere di sostegno. Diffondere l’amore.

    In quella serata romana di dicembre percepivo il mio amore per la band e in particolar modo per Tina. Quella sera sul palco erano tutti delle star, ma io rimasi folgorato da Tina come la prima volta. Ballava, ondeggiava e suonava con l’autorità di un maestro. Ero orgoglioso di lei e di come eravamo connessi musicalmente, suonando, per dirla come i musicisti rhythm and blues, in the pocket, esattamente nel tempo. Appoggiandosi sul nostro intreccio il resto della band si librava in volo. L’atmosfera trasportò ogni anima del palazzetto a un climax celestiale. Nel bis finale, sulle note di The Great Curve, Tina si spostò sul lato del palco e salì sulla gigantesca torre di amplificatori senza perdere un solo beat sul basso, un Hofner Club, fino a che non arrivò in cima, sopra tutti noi. Il pubblico, già in estasi, non aveva alcuna idea del duro lavoro fatto da lei e dalla band per raggiungere quel preciso momento, ma io sì. Per me era la realizzazione di un sogno. Talvolta qualcuno mi chiede se trovo faticoso suonare e andare in tour con mia moglie. Io rispondo che per me non è mai esistito altro modo e che lo adoro. Davvero. Ci vogliono gentilezza, pazienza e un buon senso dell’umorismo. Ma, soprattutto, disponibilità ad accettare e restituire amore. Ogni singolo uomo dovrebbe essere altrettanto fortunato.

    2

    HOW DID I GET HERE?

    Quando mi chiedono da dove vengo la mia risposta è: dal Kentucky. Sono nato l’8 maggio del 1951 all’ospedale militare di Fort Campbell, Kentucky. Mio padre, Robert Lewis Frantz, era un giovane ufficiale dell’esercito, alto, di bell’aspetto e brillante, e mia madre un vero schianto, una bellezza del Sud il cui nome da nubile era Suzanne Holton Allen. Le presentazioni le fece lo zio Jim, compagno di corso di mio padre all’accademia di West Point, a nord di New York. Mia madre e i suoi genitori erano arrivati dal Kentucky con il treno per trascorrere le vacanze di Natale insieme a Jim. Ai cadetti non era permesso di lasciare West Point per le feste, così si organizzavano lì ricevimenti e balli per i cadetti e le loro famiglie. I miei si conobbero in questa atmosfera molto formale. Tra di loro dovette scoccare una grossa scintilla: mia madre ballò con diversi cadetti quel Natale, ma mio padre fu l’unico con cui iniziò una romantica corrispondenza a distanza. Ogni settimana venivano spedite lettere da New York al Kentucky e viceversa. Nel 1946, dopo il diploma a West Point, la prima destinazione di papà fu Fort Knox: lì fece l’addestramento di base e riuscì a frequentare mia madre che studiava all’Università del Kentucky. Era contentissimo anche perché poteva mettersi al volante della sua nuova Buick, regalo di diploma del padre, e andare a corteggiare la mamma a casa dei suoi, nella vicina Louisville. I miei nonni, riconoscendo le buone intenzioni di Bob, gli diedero la loro benedizione e presto lui e Sue annunciarono il fidanzamento. Si sposarono a Louisville con un grande matrimonio in chiesa il 20 novembre del 1948.

    Foto della coppia in barca a vela

    Mio padre portò la fresca sposina in luna di miele al Cloister a Sea Island, in Georgia, e, subito dopo, si stabilirono a Fort Buchanan, alla periferia di San Juan, a Porto Rico, dove lui prestò servizio nel 18º Cavalleria. Si divertirono un mondo a Porto Rico, facevano nuotate in mare, bevevano rum Don Q e ballavano sugli ultimi dischi di calypso e mambo con gli altri giovani ufficiali e le loro mogli. Ricevettero come regalo di nozze da parte dei soldati semplici un cucciolo di cocker spaniel bianco e nero che chiamarono Missy, lo stesso nome con cui tutte le donne del posto si rivolgevano a mia madre.

    Mi piace pensare di essere stato concepito a Porto Rico. E credo sia andata proprio così. Sembra molto romantico! Nel profondo devo essere un tipo da isola. Alla fine del 1950 mio padre fu trasferito a Fort Campbell, in Kentucky, proprio al confine con il Tennessee, vicino a Clarksville. Era una base del 18º Cavalleria, il che significava un gran numero di camion, jeep e carri armati. Papà mi raccontò la storia di un suo amico che, seduto sulla torretta di un carro armato con i postumi di una sbronza dopo la serata folle trascorsa alla Dunbar Cave, di proprietà della stella del country Roy Acuff, durante delle esercitazioni fu troppo lento a spostarsi e fu colpito a una gamba da uno dei suoi uomini. «Mio Dio, mi hanno sparato» disse, abbassando con calma lo sguardo sul sangue che gli zampillava dalla gamba. Fort Campbell diventò anche la sede della 101ª Divisione aviotrasportata. Il comando era costituito da piloti e paracadutisti dell’Esercito e le loro attività, sia in servizio che no, includevano sempre una buona dose di stravaganza. Jimi Hendrix prestò servizio come paracadutista a Fort Campbell nei primi anni Sessanta. Ve lo immaginate?

    Al momento della mia nascita mio padre era capitano. Ho l’assoluta certezza che i miei fossero profondamente innamorati e che entrambi i rami della famiglia accolsero con entusiasmo il mio arrivo. Mi chiamarono Charlton Christopher Frantz, come il padre di mio padre. Mia nonna, Ruth Allen, arrivò con il treno da Louisville per aiutare la mamma con il piccolo. Mi insegnarono a chiamarla Mammy e con lei creai un legame speciale che è sempre rimasto tale. Da che ho memoria, Mammy mi diceva che venivo da una famiglia rispettabile e che non dovevo abbassare la testa davanti a nessuno. Non molto dopo il mio arrivo a mio padre fu chiesto se avrebbe voluto studiare legge alla Harvard Law School a spese dell’esercito. Non dovettero ripeterglielo due volte. I miei impacchettarono i loro averi e li spedirono nel Massachusetts, a Cambridge. Mentre papà si dirigeva a nord sulla station wagon di famiglia, io e la mamma raggiungemmo Boston in aereo. I miei trovarono una bella casa in affitto ad Arlington, che è stata lo scenario dei miei primi ricordi.

    Ricordo la mamma che mi implorava di fare silenzio mentre papà studiava legge nell’ufficio nel seminterrato. Ricordo che stavo sulle scale e mettevo sul giradischi a manovella i 78 giri da venticinque centimetri di diametro di Teddy Bears on Parade di Jack Arthur e Rudolph the Red-Nosed Reindeer di Gene Autry. Ricordo i giri sulle swan boat, le barchette a forma di cigno, nel giardino pubblico del Boston Common e le feste di Natale per i bimbi alla Harvard Law School. Ricordo mio padre che mi sollevava e mi sistemava sulle sue spalle, dopo che mi avevano infagottato in una tuta da sci, mentre uscivamo di casa per andare a costruire un pupazzo di neve. Ricordo che stavo seduto sul seggiolone mentre la mamma mi imboccava con le delizie che si faceva consegnare a domicilio da S.S. Pierce – almeno finché papà non scoprì quanto costavano le consegne. Ricordo che un anno a Pasqua mi regalarono due pulcini, e che li rincorrevo per tutto il cortile. Ricordo la prima volta che ho assaggiato cibo indiano, quando Jeri Irani, l’amica di mamma, ci preparò la cena. Avevo un’amichetta, Candy Chimples, e anche suo padre studiava alla facoltà di legge. I nostri genitori diventarono buoni amici. Anni dopo suo fratello John si sarebbe occupato delle proiezioni del tour e del film di Stop Making Sense. Fu un periodo molto felice per tutti e so che ai miei dispiacque molto andarsene dopo la laurea di papà. Alla mamma, soprattutto, sarebbero mancate le mogli degli altri studenti di legge, con cui aveva legato, e la pittoresca atmosfera di Cambridge negli anni Cinquanta.

    L’esercito assegnò mio padre al Pentagono e ci trasferimmo a Fairfax, in Virginia. Il più bel ricordo di quel periodo è l’arrivo di mio fratello Roddy. Nacque all’ospedale di Fort Belvoir nel gennaio del 1955. Mentre mamma era in ospedale, la babysitter, una dolcissima ragazza dalla pelle scura, mi lasciava guardare la TV per tutto il tempo che volevo. Avevo tre anni e mezzo, quindi guardavo soprattutto Capitan Kangaroo, Mighty Mouse e Howdy Doody. Ascoltavamo anche la radio. Le mie canzoni preferite erano Rock Around the Clock di Bill Haley & His Comets, Tutti Frutti di Little Richard e The Ballad of Davy Crockett di Bill Hayes. Quando mia madre portò Roddy a casa dall’ospedale, ci toccò abbassare un po’ il volume, ma non troppo. I miei mi regalarono un berretto di procione con la coda alla Davy Crockett che indossai per anni.

    Non molto tempo dopo la nascita di Roddy, mio padre ricevette l’ordine di andare in Corea. Era un avvocato dell’esercito adesso e, dopo la guerra di Corea, c’erano parecchie questioni legali da sbrigare. Gran parte dei combattimenti erano terminati, ma l’operazione di bonifica, sia legale che fisica, era immensa. Mentre papà era all’estero, io, la mamma e Roddy andammo a stare dai nonni. Dal Kentucky si erano trasferiti dall’altra parte del fiume, a Indianapolis, nell’Indiana. Il nonno, che chiamavamo Pappy, era diventato un mediatore federale e la nonna, Mammy, era una buyer di intimo femminile per la catena di grandi magazzini L.S. Ayres. Mammy adorava fare viaggi di lavoro a New York e a me piaceva andare a trovarla in ufficio, dove a volte la raggiungevamo per il pranzo. Nella mensa dei grandi magazzini c’era un enorme forziere e, dopo mangiato, mi era permesso di prendere qualcosa del tesoro che conteneva. I piccoli gingilli che recuperavo erano fonte di incredibile entusiasmo per un bimbo di quattro anni con una fervida immaginazione.

    Mia madre m’iscrisse alla scuola materna Peter Pan, gestita da due sorelle molto gentili e senza marito che rispondevano entrambe al nome di Miss Walters. Erano gobbe tutte e due. Imparammo la musica, l’arte e la geografia. Ci insegnarono a disegnare e a cantare. Una volta memorizzate le parole e la melodia della Marsigliese, facemmo una sfilata intorno alla scuola, sventolando la bandiera francese. Imparammo molte cose sul cibo francese e a pronunciare correttamente café e croissant. Poi, la settimana successiva, cominciammo a conoscere meglio l’Italia, e poi la Spagna e così via… Una scuola materna splendida che frequentai nei due anni in cui mio padre prestò servizio oltreoceano.

    Dopo scuola, di solito, tentavo di convertire il mio carrettino giocattolo della Radio Flyer in un aeroplano, usando il vialetto di casa come pista. Quando non riuscii a spiccare il volo, ricordo di aver chiesto a Pappy di aiutarmi a sollevarlo e trasportarlo sul tetto con una scala, in modo da poter decollare da lì. Il nonno non mi disse di no, ma rispose che prima avrei dovuto ottenere il brevetto da pilota.

    Chris da piccolo

    Il giorno in cui mio padre tornò dalla Corea ci fu una grande festa. Portò regali per tutti. Il mio era una grande nave da guerra di legno, a batterie, che sarebbe rimasta sul comò della mia stanza fino alla partenza per il college.

    Papà annunciò che il suo prossimo incarico sarebbe stato alla Judge Advocate General’s School dell’Università della Virginia a Charlottesville. Ci saremmo trasferiti lì entro un paio di settimane.

    All’epoca Charlottesville era una sonnolenta città universitaria del Sud dove i miei genitori comprarono la loro prima casa, una villetta giallo paglierino in stile ranch su un mezzo acro di terreno a Bennington Road, all’interno di un nuovo quartiere chiamato Hessian Hills. Mio padre montò un’altalena fantastica, e un’altra più piccola per mio fratello Roddy, e costruì una casetta sull’albero per me e i miei amici.

    Il giardino sul retro confinava con un grande bosco antico e ombroso che potevo esplorare a mio piacimento. C’era fauna selvatica a profusione. Ricordo conigli, procioni e cervi, ma in particolare le tartarughe scatola. Le potevo acchiappare facilmente e portarmele a casa. Costruii un piccolo recinto con della rete metallica e le nutrii con palline di hamburger crudo e foglie di lattuga fresca. Ricordo anche serpenti testa di rame velenosi che vivevano all’interno e attorno alle foreste e ai ruscelli. Mio padre mi mise in guardia e m’insegnò come evitarli. Facevo incubi ricorrenti in cui guadavo torrenti che pullulavano di letali testa di rame e serpenti corallo.

    Possedevo una radio a transistor e scoprii Elvis Presley. Non era ancora noto come The King, ma come Elvis the Pelvis e alla radio spaccava. Hound Dog era la grande hit del momento e la radio la trasmetteva con devozione, ogni ora, sia di giorno che di sera. Mi piaceva molto Hound Dog ma la mamma alzava sempre gli occhi al cielo e mi diceva: «Oh, Chris! Elvis è così banale!».

    Iniziai l’asilo alla Belfield School quell’autunno. Era una scuola privata nuova di zecca costruita su un terreno agricolo. Non era insolito vedere le mucche al pascolo proprio accanto al cortile. Le classi erano piccole e io feci qualche nuova amicizia. Facevo il carpooling con i vicini. Una bambina e suo fratello venivano a casa dopo la scuola per giocare. Lei aveva un anno più di me e, se pioveva, ci spostavamo nel seminterrato. Strisciavamo sotto la scrivania che mio padre si era costruito da solo e lei si sollevava la camicetta e mi chiedeva di poppare dai suoi capezzoli. Mi domandava se mi arrivava il latte e io mi fermavo e rispondevo: «No, non ancora». Allora lei mi chiedeva di continuare a provare. Era il suo gioco preferito. Ma lo faceva solo con me, mai con suo fratello. Mi disse che sarebbe stato sbagliato.

    Avevo una piccola bicicletta con le rotelle su cui imparai a pedalare. Un giorno uno dei bambini del quartiere mi chiese se mi sarebbe piaciuto provare la sua bici da grandi. Avrei dovuto domandargli come funzionavano i freni prima di iniziare a scendere per la ripida collina su cui vivevamo. Ricordo che, quando mi resi conto che non riuscivo a fermarmi, mi prese il panico. Continuai a pedalare sempre più veloce finché, alla fine, attraversai la trafficata Barracks Road ai piedi della collina, mancando di poco un camion agricolo, e mi schiantai contro un recinto di filo spinato elettrificato. Mi procurai un bel po’ di tagli, e il parafango anteriore della bici era tutto storto e pieno di graffi. Le auto mi sfrecciarono accanto, ma io coraggiosamente riportai la bicicletta su per la lunga collina, dove il ragazzo mi aspettava insieme a mia madre davanti casa nostra. Sollevata nel vedermi ancora vivo, mi medicò tagli e graffi con mercurio cromo e cerotti. La bici del ragazzo la facemmo riparare, io invece su una palpebra ho ancora la cicatrice lasciata da quell’episodio.

    Mamma fece amicizia molto rapidamente a Charlottesville. Anche se era impegnata a crescere due bambini, si offrì volontaria per lavorare a Monticello, la casa di Thomas Jefferson, che era nel bel mezzo di un restauro continuo e molto meticoloso. Eppure, ci furono più di duecentomila visitatori nel 1957. Da bambino di sei e più anni ero felicissimo di poter girovagare per i campi e il bosco circostante senza supervisione. C’erano cose di ogni genere da esplorare, come siti di costruzione, scavi archeologici e sentieri tortuosi sulle colline. Mia madre mi raccontò, piena di orgoglio, che Thomas Jefferson era un nostro cugino alla lontana e la notizia rese i pomeriggi estivi da sogno trascorsi lì per me ancora più significativi.

    Nei fine settimana di quell’autunno mio padre racimolava un po’ di denaro extra come arbitro di football americano alle scuole superiori. S’infilava la maglietta a righe bianche e nere, si appendeva un fischietto al collo e andavamo con la Ford station wagon in scuole come la Woodberry Forest, la Randolph-Macon Academy e la Staunton Military Academy. Per me era esaltante vederlo, sempre in ottima forma, correre su e giù per il campo. Era un bravo arbitro. Al ritorno andavamo a mangiare un boccone da qualche parte. Mio padre sapeva sempre come dedicare del tempo a noi figli. Suo padre, Charlton, era stato l’esatto opposto e, pur essendo sposati, in realtà non aveva mai vissuto con la nonna, Gladys. Aveva scelto, invece, di stabilirsi nell’elegante Athletic Club di Pittsburgh. Possedeva un panificio e anche una distilleria di whiskey a Berlin, in Pennsylvania, che si chiamava Old Man Frantz Whiskey. Quando nacque mio padre a Pittsburgh, la nonna prese il bambino e si trasferì dai suoi genitori. Suo padre, John Lewis, era arrivato a Pittsburgh da Terranova, dove cinque generazioni prima si era trasferita la sua famiglia dall’Isola di Jersey. Erano pescatori delle Grand Banks che alla fine erano emigrati a sud, in Pennsylvania, dove gli inverni non erano lunghissimi. Non ho mai sentito papà pronunciare una sola parola cattiva su suo padre, ma mi raccontò che era stato suo nonno, John Lewis, a crescerlo, a dargli amore e a fargli da guida.

    Conoscendo la mia passione per gli animali di ogni tipo, i miei mi regalarono un coniglio bianco con gli occhi rosa. Lo chiamai Pinky. Papà mi costruì una bella conigliera nel giardino sul retro, che si poteva spostare all’interno quando iniziava a fare freddo. Quanto adoravo quella creatura! Lo nutrivo con cibo per conigli e acqua. Giocavamo in giardino ogni giorno finché una volta il Dobermann pinscher del vicino, che normalmente era al guinzaglio, non piombò su Pinky, lo afferrò per la gola e lo scosse fino a ucciderlo. Ci fu molto sangue e violenza e mi rimproverai per non aver protetto il povero coniglietto. Ma avevo solo sei anni e il Dobermann stava solo facendo ciò per cui era stato addestrato. Non molto tempo dopo nelle aiuole di pervinca di mamma trovai un coniglietto selvatico. Quando nessuna madre venne a salvarlo, la mia mi permise di tenerlo. Era un coda di cotone e visse con noi per un bel pezzo.

    Mio padre completò l’incarico alla JAG School e si ritirò dal servizio attivo nell’esercito ma rimase un ufficiale della forza di riserva. Entrò in uno studio legale come socio junior nella sua città natale, Pittsburgh, dove aveva molti potenziali clienti. Ci trasferimmo lì alla fine del mio primo anno delle elementari. La mamma era contenta del nuovo lavoro di mio padre, ma non impazziva all’idea di trasferirsi a Pittsburgh. Amava la sua vita a Charlottesville e tutti gli amici che si era fatta. Era un mondo ricco di storia, società, antiquari, scrittori, gentiluomini e signore del Sud. Era anche una cittadina piena di personaggi folli e interessanti. William Faulkner era l’artista-in-residenza. Quando i fan si fermavano a fissare casa sua, sperando di intravedere il grand’uomo, Faulkner attraversava la porta d’ingresso, si slacciava i pantaloni e pisciava sul prato dal portico anteriore. Teddy Kennedy, fratello di JFK e futuro senatore progressista, frequentava la facoltà di legge dell’Università della Virginia. La sua ammissione alla scuola di legge fu controversa perché era stato espulso da Harvard per aver copiato. Mia madre si scandalizzò quando seppe che Ted aveva abbandonato una delle sue fidanzate in una buia strada di campagna, a tarda notte, quando si era rifiutata di fare sesso con lui.

    Detestammo tutti lasciare Charlottesville. La nostra ultima notte lì, dopo che i traslocatori avevano riposto tutti i nostri averi dentro degli scatoloni, la trascorremmo dall’amica di mamma, Smitty, un’agente immobiliare, che mi mandò al ruscello nel suo cortile posteriore a raccogliere crescione per i panini. Ero molto piccolo e non mi rendevo conto di quanto fosse grave il suo problema con l’alcol. A me sembrava solo molto allegra. Più tardi quella sera, dopo che eravamo andati tutti a letto, fummo svegliati da urla agghiaccianti e dal suono di passi che correvano avanti e indietro per i corridoi. I miei mi dissero di rimanere a letto mentre andavano ad aiutare Smitty, in preda a un attacco di delirium tremens in piena regola. La cosa terrorizzò me e Roddy, anche se la mamma continuava a tornare da noi per dirci che sarebbe andato tutto bene. Il figlio di Smitty soccorse la madre e la portò in ospedale. Il giorno seguente, durante il lungo viaggio verso Pittsburgh, mi accorsi che mamma piangeva, ma cercava di non farcelo notare.

    La nostra prima casa a Pittsburgh era un piccolo terratetto con due camere da letto, all’interno del McKnight Village, un complesso residenziale a North Hills dove vivevano molte famiglie giovani. C’erano un sacco di bambini della mia età e insieme ci divertivamo. Andavamo in bicicletta per chilometri. Scavalcavamo massicci muri di granito. Ci arrampicavamo su alberi alti e a volte cadevamo, rimanendo senza fiato.

    Musicalmente, era il periodo d’oro della novelty song. The Purple People Eater di Sheb Wooley e Itsy Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini di Brian Hyland dominavano l’etere, ma nessuna ebbe un impatto maggiore di The Twist di Chubby Checker. Tutti ballavano il twist. C’erano feste e gare di twist.

    Per molto tempo fui felicissimo di ascoltare la collezione di 78 giri dei miei genitori. C’erano i Mighty Sparrow, Harry Belafonte, Blind Blake e molti altri lavori di grandi artisti di calypso dentro degli scatoloni nel seminterrato. Mi avevano regalato un giradischi portatile che riproduceva dischi a 78, 45 e 33 giri. Mi diedero anche una piccola radio a transistor di plastica rossa che sintonizzavo sulle stazioni radio rock’n’roll, come la KQV, e sulla WAMO, la stazione R&B. Come molti altri bambini della mia età, ascoltavo la radio la sera, a letto, immaginando che un giorno avrei avuto una band con una canzone alla radio.

    Nel 1961, quando avevo dieci anni, avevo un amichetto con una grande passione per il canto. Aveva una bella voce, profonda per la sua età, ma era timido e non voleva cantare in pubblico. Così prendeva un lungo tubo per innaffiare e cantava in un’estremità da dietro qualche cespuglio mentre io e i miei amici ascoltavamo la sua voce dall’altra estremità. Quel ragazzino sapeva proprio cantare come un professionista ed era disposto a rifare una canzone più e più volte finché non ci veniva a noia. Un giorno ci cantò un brano dal titolo Big Bad John. Era uno spoken word, una specie di storiella su un grande e potente eroe delle miniere di carbone. In Pennsylvania ce n’erano tante e la canzone a noi ragazzi sembrava molto autentica. Il mio amico aveva memorizzato ogni parola e mi piaceva molto la sua versione a cappella. Qualche ora più tardi, quello stesso giorno, sentii la canzone alla mia radiolina e il DJ disse che era stata incisa da Jimmy Dean. La base strumentale era sincopata, rilassata e ricordava il calypso, con il suono di uno scalpello che colpisce una roccia in un pozzo di miniera a segnare gli accenti. Salii sulla mia bici a tre marce e andai ai grandi magazzini Gimbels e chiesi la versione a 45 giri del singolo di Big Bad John. La donna che me lo vendette disse che era il disco numero uno nel Paese. Fu il primo disco in assoluto che comprai.

    I miei genitori decisero di costruirsi una casa a O’Hara Township. Kerrwood Farms era un altro nuovo insediamento con molti ragazzini della mia età. Mi iscrissero alla Kerr School, che si trovava a pochi passi dalla nuova casa. Quel periodo me lo ricordo benissimo. Avevo undici anni e stavo andando a scuola in un mattino rigido e umido di Pittsburgh, Pennsylvania. Il cielo era grigio e piatto. Stava per venire giù del nevischio. Indossavo la fascia bianca della pattuglia di sicurezza e avevo il compito di assicurarmi che gli altri ragazzini non venissero investiti da un’auto. Mi ci vollero circa dieci minuti per arrivare a scuola a piedi e gli altri dovevano essere in anticipo o in ritardo perché in giro non vedevo anima viva. Nella testa continuava a girarmi della musica, Walk Like a Man dei Four Seasons. Non mi sentivo per nulla figo perché mia madre quella mattina mi aveva fatto mettere le galosce. Ma pensavo: Forse stamattina non sono figo, ma un giorno lo sarò! Sarò un artista e forse suonerò addirittura in una band! Sento che un giorno sarò rispettato e avrò qualcosa di interessante da dire. Le ragazze mi noteranno! Me ne andrò lontano da qui e viaggerò molto e quando tornerò le ragazze rimarranno incantate dai miei successi e vorranno parlare con me! Penseranno che sono figo e vorranno sedersi vicino a me!

    Purtroppo per il momento, tuttavia, sono un figo unicamente per i bambini che mi guardano con ammirazione solo perché faccio parte della pattuglia di sicurezza e dico loro quando possono attraversare. Poi, appena volto l’angolo, vedo Christine e Benedicte dirette a scuola. Le osservo camminare insieme e penso che sono le ragazze più carine del vicinato. Poi scorgo Dave, il mio migliore amico all’epoca. Dave aspetta che lo raggiunga. Noto che anche sua madre gli ha fatto indossare le galosce, così adesso non ci sto più troppo male. Siamo entrambi un po’ nerd con pantaloni di velluto a coste foderati in flanella e cappotti pesanti, squadrati e marroni. Sotto i cappelli di lana, abbiamo i capelli a spazzola. Dave porta l’apparecchio fisso per denti, io quello mobile. Dave è bravo in matematica e scienze, mentre io non sono ancora certo di essere bravo in qualcosa. Quando raggiungiamo Christine e Benedicte, diciamo «Ciao» e noto che loro non sono costrette a portare galosce, ma vedo anche che hanno i mocassini bagnati e freddi, e ci è rimasta attaccata su della cenere. A quei tempi, sulle strade ghiacciate veniva sparsa la cenere delle fornaci dell’acciaieria per dare aderenza e impedire alle automobili di sbandare. Comunque sia, a Christine e Benedicte non interessa. Sono allegre, ridacchiano e ci salutano uno alla volta chiamandoci per nome. Christine è altissima, bionda e slanciata. Il corpo ha già le prime tracce di una figura femminile. Ha anche un fantastico senso dell’umorismo. Benedicte si è trasferita nel nostro quartiere dalla Francia. È bruna, piccolina e sottile, con un atteggiamento un po’ beatnik. Veste molto di nero, insolito per una ragazzina all’epoca, e sembra essere a conoscenza di cose ancora ignote agli altri. Benedicte è cool e Christine è uno schianto! Ho una cotta per entrambe. Mentre arriviamo al portone della Kerr School, le ragazze si voltano verso di noi e dicono: «Ci vediamo alle prove!».

    C’era più di una ragione per cui amavo le prove della banda della scuola, e le adoravo sul serio. Facevamo un paio di lezioni di gruppo a settimana, durante il normale orario scolastico, e poi provavamo tutti insieme come una banda nell’auditorium dopo scuola. Appena arrivato alla Kerr, avevo provato a suonare la tromba, ma proprio non mi riusciva. E non era per mancanza di pratica. Facevo ore e ore di esercizi ma proprio non concludevo nulla con i fiati.

    Fui fortunatissimo ad avere un fantastico insegnante di musica, Jean Wilmouth. Anche lui era un tipo da strumenti a percussione: suonava marimba, xilofono e vibrafono. Quando gli accennai che con la tromba non facevo alcun progresso mi disse che pensava che avevo un buon senso del ritmo, per cui perché non provare con la batteria? Io volevo solo suonare quindi dissi di sì all’istante e lui mi diede un paio di bacchette e un drum pad per fare esercizio, che consisteva in un cuscinetto di gomma montato su un pezzo di legno. Poi mi fece un rapido riassunto dei rudimenti della batteria, mi diede una guida per principianti e mi disse di cominciare a fare pratica. Mi esercitai e lo feci con grande impegno. S’inizia con una rullata singola, poi s’impara una rullata doppia, poi il rullo a cinque, poi il rullo a sette. Diventai bravissimo a eseguirli prima di passare ai paradiddle e ai ratamacue. Cos’è, mi chiederete, un paradiddle? È quando si colpisce il tamburo una volta con la bacchetta sinistra e un’altra con quella destra e poi due volte di nuovo con la sinistra. Poi lo si colpisce una volta con la bacchetta destra, un’altra con la sinistra e poi di nuovo due volte con la destra. SDSS, DSDD, si ripete la sequenza mentre lentamente si aumenta la velocità, preferibilmente con un metronomo, finché non si ottiene una sequenza fluida e ripetitiva. Il ratamacue è una rullata singola con un drag all’inizio della sequenza. È un ottimo fill di base per la batteria. SDSD, DSDS. Diventai bravo anche con questi. Dopo un paio di mesi, ottenni un posto nella sezione percussioni della banda della scuola. Cavolo, se ero felice! Ora, non stiamo parlando di una vera batteria, tantomeno di rock’n’roll. Parliamo di un rullante singolo montato su un supporto. Fanno sempre suonare la grancassa al tizio più grosso, per cui non faceva per me, anche se di tanto in tanto ebbi occasione di battere i piatti. Imparammo a suonare brani di George Gershwin, Aaron Copland e Scott Joplin. I miei preferiti erano, in modo particolare, Stranger in Paradise di Aleksandr Borodin e Begin the Beguine di Cole Porter. Suonavamo anche Java, canzone sempre in testa alle classifiche. Fu incisa da Al Hirt, trombettista di New Orleans, e composta dal grande Allen Toussaint. In quel brano suonavo solo il piatto, ma fu la mia introduzione alla percezione del ritmo sincopato, che mi aprì davvero le orecchie. Ora potevo immaginare beat con sorprese ritmiche che spingevano la gente a voler far dondolare le anche e ballare.

    Quando avevo dodici anni nacque Ruthie, la mia sorellina. Era domenica 2 maggio e la mattina avevo fatto il chierichetto in chiesa. Quando papà parcheggiò nel vialetto, il nonno, Pappy, si precipitò giù dalle scale del cortile posteriore per dirci che era il momento di portare la mamma in ospedale. Non l’avevo mai visto muoversi tanto velocemente. Io e Roddy eravamo così eccitati che ci mettemmo a fare dei veri e propri salti di gioia. Più tardi, quella sera, ricevemmo una telefonata di papà, che con grande orgoglio ci disse: «Chris e Roddy, avete una sorellina!». Ruthie, che ricevette la bellezza e il cervello! Sarebbe diventata una donna bella e brillante con un’ottima testa per gli affari, che non manca mai di essere gentile, disponibile e comprensiva.

    Una domenica sera del 1964, dopo cena, la mia famiglia guardava l’Ed Sullivan Show come quasi ogni altra domenica. Quando Ed Sullivan presentò i Beatles all’America in un teatro di ragazze deliranti e urlanti, come molti altri ragazzi ebbi un’illuminazione. Quel gruppo dava a ognuno la sensazione che ogni canzone si rivolgesse direttamente a lui. Io li guardai seduto sul divano di casa sul televisore portatile in bianco e nero con l’antenna a dipolo e venni trasportato immediatamente in un posto migliore. Provai sensazioni di calore e di deciso ottimismo. I Beatles piacquero persino alla mamma, il che fece dire a mio padre: «Oh, Suzanne, quanto sei anglofila!». Sullo scuolabus il mattino seguente, le ragazze già cantavano all’unisono le canzoni dei Beatles. L’avvento dei Beatles e la British Invasion che ne seguì fu, e lo è ancora, uno degli eventi culturalmente più importanti della mia esistenza.

    Nel 1964, alla Aspinwall Junior High School, Mr. Springman, il mio insegnante di musica, era convinto che le lezioni con la banda fossero importanti quanto ogni altra materia accademica, se non addirittura di più, e con lui si rigava dritto. Se non seguivi il programma ti buttava fuori. Fui contentissimo quando mi chiese di creare una cadenza di marcia per l’apparizione della banda alla parata del Memorial Day. E me la ricordo ancora.

    Mi unii a un gruppo di amici della banda della scuola per suonare un po’ di rock’n’roll e fare colpo sulle ragazze. Lloyd Stamy era, e lo è ancora, un tipo molto intraprendente. Insieme a qualche altro compagno della banda, creò il primo gruppo rock di cui feci parte. Lloyd era il cantante e suonava anche la tromba. Ernie Maynard suonava il trombone. Ray Bayer, che nella banda suonava il clarinetto, era alla chitarra elettrica. Herbie Purcell suonava il basso. A un certo punto entrò Tom Kleeb, anche lui alla chitarra. Ci limitavamo soprattutto a fare molte prove, imparando un repertorio di brani di Beatles, Beach Boys, Dave Clark Five e Ventures, ma anche Louie Louie dei Kingsmen e Secret Agent Man di Johnny Rivers. Avendo i fiati, potevamo anche suonare i successi di Herb Alpert & The Tijuana Brass.

    Ritratto di famiglia, 1963 - ambientazione borghese, con la mamma seduta in poltrona con in braccio il figlio più piccolo, ai lati i più grandi e dietro il papà che si appoggia alla poltrona sorridendo.

    Ritratto di famiglia, 1963.

    Il nome del gruppo era Lost Chords, che penso ancora sia un nome figo. Una domenica pomeriggio d’estate facevamo le prove a casa mia con le finestre aperte. Ci stavamo mettendo tutto il nostro cuore di tredicenni quando si presentò un poliziotto. Disse che dovevamo smettere perché aveva ricevuto lamentele da un vicino. Mia madre prese il controllo della situazione e disse all’agente: «Si dovrebbe vergognare. Sono bravi ragazzi che suonano buona musica. A nessuno dovrebbe dare fastidio in un pomeriggio d’estate. Non ha cose più importanti da fare?». Il poliziotto, imbarazzato, rispose: «Be’, non suonate troppo a lungo» e se ne

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