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Spider from Mars. La mia vita con Bowie
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E-book302 pagine4 ore

Spider from Mars. La mia vita con Bowie

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Info su questo ebook

Nel gennaio 2016, l'improvvisa morte di David Bowie scosse il mondo.
Per milioni di persone, Bowie ha rappresentato un'icona acclamata per la sua musica, i ruoli interpretati al cinema e a teatro, e la sua capacità di influenzare le tendenze nel campo della moda e dell'identità di genere. Ma nessuno della sua cerchia ristretta aveva mai raccontato la storia di come David Jones, giovane cantante folk, ballerino e aspirante mimo, diventò uno dei più influenti artisti dei nostri tempi.
Il batterista Woody Woodmansey è l'ultimo membro in vita della band di Bowie The Spiders from Mars che lo aiutò a lanciare il suo personaggio di Ziggy Stardust e a rendere David Bowie sensazionale.
Spiders from Mars, la prima biografia pubblicata dopo la sua morte, rivela cosa significò prendere parte all'autocreazione di una star. Con storie mai raccontate prima, Woodmansey narra dettagli sulle sessioni che portarono alla realizzazione di album come The Man Who Sold the World, Hunky Dory, The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars e Aladdin Sane, ovvero i dischi che resero Bowie una ??gura di culto. E, quando la fama diede segnali di aver consumato Bowie, Woodmansey ricorda i tour selvaggi, il carattere eccentrico e gli eccessi rock'n'roll che alla fine portarono allo scioglimento della band.
Una rievocazione vivida e unica di un'era musicale in trasformazione e dell'enigmatica e visionaria musica al centro di essa.
Con prefazione del leggendario produttore Tony Visconti e postfazione di Joe Elliot dei Def Leppard, Spider from Mars è per tutti coloro che amano Bowie da una delle persone che meglio lo hanno conosciuto.
 
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2021
ISBN9791280133625
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    Anteprima del libro

    Spider from Mars. La mia vita con Bowie - Woody Woodmansey

    Prefazione di Tony Visconti

    Da americano appena approdato in Inghilterra, ero convinto che Woody Woodmansey fosse un nome inventato da Tolkien, tipo Tom Bombadil. Non avevo mai sentito niente di simile. Ma Mick Ronson non faceva che elogiarlo: Woody era il suo batterista preferito e dovevamo importarlo da Hull, immediatamente.

    Quando dico noi intendo me e David Bowie. Qualche mese prima, io e David rimanemmo ammaliati dal modo in cui Ronson suonava la chitarra; avevamo formato una band di supporto, gli Hype, con John Cambridge alla batteria, ed era stato proprio John a suggerirci Ronson. Ironia della sorte, in quel di Hull, Woody aveva rimpiazzato Cambridge nei Rats, la precedente band di Ronson e ora, proprio per volere di Ronson, si ritrovava a sostituire Cambridge, questa volta negli Hype. Il rock è un’amante crudele.

    Io e David stavamo in un’enorme casa vittoriana a Beckenham, nel Kent, perciò Woody e Ronson si trasferirono da noi; dormivano su dei materassi per terra. A volte le ragazze venivano a trovarli da Hull e diventavamo nove in tutto, con le nostre ragazze e Roger, il roadie. Passavamo la maggior parte del tempo nel seminterrato, in una cantinetta dismessa, a provare arrangiamenti per le prime canzoni del nuovo album di David Bowie, che sarebbe poi diventato The Man Who Sold The World.

    Mick aveva ragione su Woody: era un batterista sensazionale. Le sue mani erano schegge e si adattavano velocemente ad accostamenti assurdi tra sofisticati cambi di accordi, cambi di tempo improvvisi e canzoni strutturate come operette. Io avevo importato dagli Stati Uniti concetti come il bolero jazz (vedi la parte strumentale di All the Madmen), che Woody imparò in cinque minuti. Gli ho fatto suonare strumenti dei quali non aveva mai sentito parlare, tipo il güiro o i timpani. Diventava un mostro in tutto quello che gli mettevi in mano. Meritava tutto il mio rispetto e, da bassista e produttore, sapevo bene che dovevo assolutamente guadagnarmi il suo.

    Quando entrammo negli studi di registrazione Trident e Advision, nel 1970, eravamo un bel gruppetto di musicisti. Gli sfondammo il soffitto, e ad album finito gongolavamo.

    Quel che successe in seguito verrà narrato a breve… tuttavia, nel 2014 Woody mi scrisse per chiedermi di suonare The Man Who Sold The World dal vivo, visto che ai tempi non l’avevamo mai fatto. Avevo grossi dubbi al riguardo: non sapevo mica se sarei stato capace di riprodurre quegli erculei giri di basso suonati così tanti decenni prima.

    Evitai di prendere una decisione finché non ricevetti questa e-mail da Woody:

    Ciao Tony,

    Ho detto qualcosa di sbagliato? Hai il Mac bloccato in standby? Sei in pausa?

    Woody

    Quello fu lo schiaffo morale che mi serviva. Accettai la sfida.

    Mentre scrivo questa prefazione, posso affermare di aver suonato The Man Who Sold The World almeno quaranta volte davanti al pubblico scatenato di Gran Bretagna, Giappone, Canada e Stati Uniti. Siamo ancora in tournée con i nostri Glenn Gregory, James Stevenson e Paul Cuddeford e risuoneremo quel pezzo almeno altre venti volte.

    Questa è la mia storia con Woody Woodmansey. Adesso lasciamo che Woody racconti la sua, quella del ragazzo che da una blues band del nord dell’Inghilterra è finito a suonare la batteria negli Spiders From Mars.

    Tony Visconti, 2016

    Prologo

    "Rinvenuta apparizione televisiva di David Bowie live a Top of the Pops con ‘The Jean Genie’, uno dei suoi cavalli di battaglia. Verrà trasmessa questa sera per la prima volta dopo quasi quarant’anni, annuncia Fiona Bruce al telegiornale. Il contributo si reputava ormai perduto nelle pieghe del tempo…".

    Fa un po’ strano vedere che al BBC news della sera mostrano un video di quarant’anni fa in cui ci sei anche tu.

    Mancavano pochi giorni al natale del 2011 e, dopo tutte le storie di scandali e litigi, guarda che salta fuori: una registrazione di Bowie e gli Spiders del 4 gennaio 1973 mai più vista da allora. Il nastro originale della BBC era stato perso o cancellato, ma uno dei cameramen di quel giorno, John Henshall, se l’era copiato e tenuto nascosto in un cassetto. Fino a quel momento.

    Quella sera, allo Speciale di natale di Top of the Pops, trasmisero la registrazione per intero e me la gustai con tutta la famiglia. Nonostante avessi ormai sessantun’anni, mentre guardavo me stesso ventiduenne mi prese la stessa frenesia.

    All’epoca avevamo un singolo nelle hit parade di Gran Bretagna e Stati Uniti, ‘Starman’, e l’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars, che era uscito a giugno del 1972, era ormai in classifica da venticinque settimane. ‘The Jean Genie’, uscita a novembre dell’anno prima, era al numero sedici delle classifiche (ed era pronto a scalarle). Eravamo appena rientrati dalla prima tournée negli Stati Uniti e ci trovavamo nel bel mezzo di un mini tour dell’Inghilterra, dopodiché saremmo tornati in America. Sembrava davvero che iniziasse a smuoversi qualcosa.

    Mentre ascoltavo Mick Ronson suonare il famoso riff di chitarra in modo molto più pesante e aggressivo che nella versione in studio, mi ricordai che quando la BBC ci chiese di apparire a Top of the Pops, Bowie aveva fortemente insistito che ci saremmo andati solo se ci avessero fatto suonare dal vivo. Durante il tour il pezzo era diventato piuttosto energico e intenso ed eravamo tutti convinti che quell’adattamento live avrebbe avuto un impatto maggiore sulla serata rispetto allo scimmiottamento di una versione pre-registrata, cosa peraltro abbastanza normale a quei tempi. Fortunatamente la BBC acconsentì e trovammo il tempo di inserire quell’apparizione tra il concerto di Manchester del 29 dicembre e quello di Glasgow del 5 gennaio. Questo voleva dire avere solo tre giorni liberi per natale, che non sarebbero davvero bastati a rilassarsi; ma dopotutto nessuno di noi si sentiva stanco quando arrivammo allo Studio 8 per registrare.

    I nostri abiti di scena erano in continua evoluzione e il costumista Freddie Burretti, che era sulla cresta dell’onda, aveva creato dei nuovi look per l’occasione. Bowie era a torso nudo e indossava una giacca a fantasia sul turchese e dei pantaloni blu. Vi aggiunse una collana e un orecchino con pendente. Mick aveva l’abito nuovo nero e oro, Trevor quello nero e argento.

    Sorrisi nel rivedere la mia giacca a righe bianche e nere con le spalline imbottite e i risvolti ampi, quei pantaloni rossi a campana stile Oxford Bags, la camicia nera e la cravatta argento metallizzato. Faceva un bell’effetto, ma Freddie tendeva a dimenticare che avevo bisogno di muovere le braccia. Le maniche erano iperaderenti e non è che fossi impaziente di suonarci, con quella roba.

    Mi avevano messo a fronte palco, che non era proprio il mio posizionamento preferito durante le performance dal vivo, ma i produttori avevano voluto lo stesso set-up di quando avevamo fatto ‘Starman’ l’anno prima, perché era stato un successone. Di diverso, questa volta, c’era che stavamo suonando una versione live del pezzo con un assolo di chitarra che sarebbe durato tanto quanto Mick avrebbe reputato giusto, quindi il contatto visivo era importante: sapevo che mi avrebbe fatto un cenno a fine assolo. Nel filmato mi si vede mentre giro la testa per riuscire a cogliere quel segnale.

    Quando la serata venne finalmente trasmessa, noi eravamo già sulla strada di Glasgow e non vedemmo mai la registrazione. Nessuno di noi ci pensò più molto da allora.

    A riguardarla, però, sembrava assurdo che uno dei tanti pezzi che avevamo suonato nel corso degli anni fosse rimasto in un cassetto qualunque. All’epoca non avevamo idea di cosa sarebbero diventate queste canzoni per la gente di tutto il mondo. Non potevo immaginare che più di quattro decenni dopo qualcuno sarebbe tornato a dirmi che guardarci gli aveva cambiato la vita e il modo di pensare. Per noi era un semplice stare in scena a suonare al meglio delle nostre possibilità.

    Se agli inizi della mia carriera mi avessero detto che, così tanti anni dopo, un video di me alla batteria sarebbe andato al telegiornale… gli avrei riso in faccia, dicendo di non fare l’idiota.

    Ed è proprio la storia che vi voglio raccontare adesso, quella di un ragazzo che da un paesino dell’East Yorkshire diventò uno Spider from Mars.

    Woody Woodmansey, 2016

    1

    ROCKER IN WAITING

    Ricordo con estrema chiarezza il momento in cui mi resi conto che sarei diventato un musicista rock.

    Era una calda giornata estiva del 1964 e avevo quattordici anni. ‘A Hard Day’s Night’ dei Beatles e ‘It’s All Over Now’ dei Rolling Stones erano in vetta alle classifiche. Io ero più un fan degli Stones, perché i Beatles erano un po’ troppo sdolcinati, per me. Piacevano a tutti, perfino ai miei genitori, il che mi faceva passare la voglia. Ascoltavo anche gli Animals, i Kinks e Johnny Kid and the Pirates. Top of the Pops era iniziato a gennaio di quell’anno e, come milioni di adolescenti, il giovedì sera mi incollavo alla tivù a guardarlo. Eppure, non furono i miei gruppi preferiti a convincermi.

    Ero in un deposito di riparazioni per macchine agricole a Driffield, un paese dello Yorkshire, quando tutto cambiò.

    Il posto era del padre del mio amico Frank e ci andavamo spesso per svagarci coi macchinari o giocare a calcio.

    Quel pomeriggio eravamo in quattro a inseguire il pallone su un campo di cemento all’aperto, tra enormi mietitrebbia e trattori. Un terreno abbandonato circondato da alti cespugli di ortiche. Calciai la palla verso uno degli altri ragazzi, ma andò a finire oltre un cespuglio di ortiche e sparì.

    Andai a cercarla e la trovai accanto alla porta di una costruzione in mattoni che sembrava un rifugio antiaereo, lungo forse sei metri, senza finestre. Non l’avevo mai notato prima. La palla era rotolata fino a una porta color argento; sulla soglia erano graffiate le parole The Cave¹.

    Mi chinai per raccogliere il pallone e sentii della musica arrivare da dentro. All’inizio pensai che ci fosse qualcuno con una radio a transistor, ma poi mi accorsi che era qualcosa di molto più dinamico. Anche da fuori la porta sentivo le vibrazioni che mi attraversavano il corpo. Così urlai verso Frank: Cos’è ’sta musica?.

    È mio fratello, rispose. Suona lì col gruppo.

    Che tipo di gruppo?.

    Rhythm and blues, o forse pop, che ne so. Frank fece spallucce.

    Possiamo entrare a sentire?, chiesi.

    No, puoi entrare solo se ti metti in ghingheri, mi disse.

    Quella musica mi aveva stregato, quindi lo pregai di chiedere al fratello se potessi entrare a guardare, anche solo il tempo di una canzone. Qualche giorno dopo Frank annunciò: Stasera provano, se vuoi passare. Mio fratello ha detto che puoi entrare a guardare, se ti va.

    Il forte odore di muffa fu la prima cosa che notai entrando nel Cave. La seconda fu l’oscurità, era illuminato solo da una lampadina rossa. I Roadrunners, che era il nome della band, avevano appeso al soffitto qualcosa di simile a delle reti da pesca nel tentativo di abbellire l’ambiente, il che aggiungeva spessore all’atmosfera; ai miei occhi appariva tutto molto rock’n’roll.

    In fondo alla stanza principale c’era un palco rivestito di moquette, alto meno di mezzo metro. Siccome erano in cinque a suonare, il palco risultava piuttosto angusto. In mezzo c’era il batterista, seduto dietro ai tamburi, a sinistra chitarrista e bassista, a destra un altro chitarrista, e il cantante era a fronte palco. Quando arrivai avevano già iniziato a suonare e riconobbi una canzone di Bo Diddley.

    Non avevo mai visto una band esibirsi dal vivo prima di allora e, trovandomi a soli tre metri da loro, i miei sensi vennero assaliti. Ero ipnotizzato. Era la cosa più eccitante che avessi mai vissuto. Erano tutti capelloni, ma il cantante spiccava perché aveva i capelli rossi. Indossava pantaloni a zampa d’elefante e suonava le maracas, seguendo il batterista sul tempo di Bo Diddley. Sembravano tutti molto fighi e sicuri di sé.

    Io ero un tipo timido, ed entrare lì a guardare i Roadrunners già mi snervava. Ma dovevo farlo: c’era qualcosa che mi attirava. Seguivo addirittura il ritmo col piede e scuotevo la testa a tempo di musica, che per i miei standard era un gran segno di esibizionismo. Ero così felice; l’impatto della musica mi colpì appieno. Pensai: Ecco. È questo che voglio fare, voglio entrare in una band e suonare.

    Fino a quel momento, le rare volte in cui ci pensavo, credevo che avrei passato il resto della vita a Driffield. Una cittadina vivace in una parte pittoresca dello Yorkshire, circondata da terreni agricoli, tacchini, pecore e mucche in ogni direzione, e campi di grano. C’era pure un minimo di zona industriale, ma niente che fosse degno di nota: in periferia c’era il mulino di Bradshaw. E avevamo un paio di fabbriche: la Dewhirst, che realizzava camicie per Marks & Spencer, e la Vertex, che produceva occhiali.

    Son sicuro che questa descrizione la faccia sembrare una città noiosa, ma alle volte sapeva essere eccitante: c’erano alcuni gruppi rock del posto e ogni tanto ci venivano a suonare band più importanti provenienti da Londra. C’erano anche un paio di bei bar col jukebox, e lì passavamo il tempo.

    Driffield era a soli 20 Km dalla costa, con le località balneari di Bridlington e Scarborough, e Hull era la città più vicina, a circa 50 Km. Forse non sembrerà una grande distanza se uno guida o prende il treno ma, credetemi, il divario culturale tra Driffield e Hull era immenso sotto vari punti di vista. La prima aveva un corso e una sola sala ricevimenti, il municipio, mentre Hull era una città in fermento che ospitava quello che all’epoca era il terzo porto principale del paese, per quanto destinato a cambiare drasticamente negli anni Settanta, dopo che la Guerra del Merluzzo con l’Islanda vide il declino dell’industria ittica locale. C’era l’università, l’istituto di belle arti, club e teatri. Tutti i grandi nomi dell’epoca andavano a suonare all’ABC Theatre a Hull: i Beatles, gli Stones, Roy Orbison e Jimi Hendrix, per citarne alcuni.

    Mio padre, Douglas Woodmansey, era nato a Langtoft, un villaggio a circa 10 Km a nord di Driffield. Da ragazzo si arruolò nell’esercito insieme a un amico, con la voglia di vedere il mondo. Non ricordo in che reggimento fosse, ma so che ha combattuto in Estremo Oriente e ha passato un periodo a Hong Kong.

    Mia madre, Annie, era nata in una grande famiglia di Driffield. Diventò infermiera lavorando poi in città, all’ospedale East Riding, e conobbe mio padre mentre era in licenza. Non parlavano molto di quel periodo, forse perché non gli piaceva ammettere che lei rimase incinta. Mamma e papà non si sposarono, perché non sapevano se sarebbero restati insieme a lungo. Lui voleva che diventasse la moglie di un soldato e che lo seguisse in giro per il paese, ma lei adorava fare l’infermiera e non voleva smettere. Entrambi stavano intraprendendo le loro carriere professionali e non erano certo nelle condizioni di prendere decisioni così importanti. Ci dovettero pensare a lungo, soprattutto con lo stigma di avere un figlio al di fuori del vincolo del matrimonio. Fatto piuttosto grave per una comunità piccola e tradizionalista come quella di Driffield all’epoca.

    Mamma continuò a lavorare fino alla fine della gravidanza e nascondeva la pancia con una specie di corsetto stretto intorno all’addome. Lo teneva così stretto che un giorno svenne in corsia; io venni fuori poco dopo, il 4 febbraio del 1950.

    In seguito scoprii che mio nonno materno voleva cacciarla di casa per il fatto di essere rimasta incinta. Anche lui era stato nell’esercito ed era un patito della disciplina. Ma la nonna, che era una donna molto pratica, si intromise: Annie resta in questa casa e il suo bambino nascerà. Mio nonno era tosto, ma lei lo era ancora di più.

    Così i primi anni di vita li passai a casa dei nonni, al 18 di Eastfield Road, dove vivevano anche mia madre, suo zio Edward, sua sorella Deanie e i loro due fratelli, Harold e Ernest. Stavamo in un nuovo agglomerato di case popolari e io andavo in giro col triciclo rincorrendo i camion dei vigili del fuoco; mi allontanavo così tanto che i miei poveri parenti dovevano perlustrare le strade per cercarmi e riportarmi a casa. Mia madre faceva parecchi turni di notte e mio padre mancava la maggior parte del tempo, quindi in pratica è stata la nonna a tirarmi su, perlomeno fino ai cinque anni, quando mio padre si congedò. Per quanto fossi stato battezzato Michael Woodmansey, mi chiamavano Mick Bradley, che era il cognome di mia madre.

    Mio nonno faceva l’ingegnere all’officina di produzione del gas, in centro. Da piccolo sono andato un paio di volte a lavoro con lui; ricordo di essermi bruciato una mano con le condutture. Mia nonna era casalinga e si occupava di me e dei suoi quattro figli. Fu un periodo splendido. Ero un bambino felice.

    Il vecchio stereotipo dei vicini che entrano ed escono l’uno dalla casa dell’altro era assolutamente vero per le famiglie del posto in cui vivevamo. La gente lasciava le porte aperte e tu potevi entrare a prenderti un tè. Erano tutti così su quella strada, tranne alcuni, dai quali non si andava mai. Ricordo chiaramente che c’era malanimo tra la nostra famiglia e la loro. Un giorno del 1954 questi vicini antipatici si lamentarono con i miei perché li tenevo svegli di notte con la batteria, per quanto non ne avessi ancora una. Non so se e cosa avessero sentito, ma l’evento ispirò i miei zii: uscirono e comprarono rullante, bacchette e piedistallo, poi mi portarono al piano di sopra, nella camera confinante con quella di quei vicini.

    Adesso noi chiudiamo la porta, mi dissero. Tu fai più macello che puoi!.

    Ci diedi dentro per davvero e suonai i tamburi fino a scoppiarli; a ripensarci, quello fu l’inizio della mia carriera da batterista. Mi piace pensare di aver maturato una certa delicatezza nella tecnica, da allora, ma magari non è vero.

    Quando avevo cinque anni, i miei genitori si sposarono. Credo lo fecero di nascosto perché non ne hanno mai parlato. Erano infine arrivati alla conclusione che mio padre, e non mia madre, avrebbe abbandonato la carriera, così avremmo potuto vivere come una famiglia normale, a Driffield. Di conseguenza, papà si congedò dall’esercito e andammo ad abitare tutti e tre al 49 di Westgate, in una villetta a schiera divisa in due appartamenti: noi avevamo piano di sotto e giardino, un gabinetto a una trentina di metri dalla casa e un bagno, sempre fuori, distante una ventina di metri. Questa stanza col pavimento in cemento aveva tre vasche di latta di diverse dimensioni, appese al muro. C’era pure una caldaia, per riscaldare l’acqua per il bagno, che saturava tutto di vapore: non riuscivi neanche a vederti i piedi, figurati lavarli.

    Dopo aver fatto il bagno, diventava tutto così madido che era impossibile vestirsi, quindi dovevi avvolgerti in un asciugamano e correre a casa attraversando vento, pioggia e neve, pensando solo Cazzo!. Essere puliti era una cosa da temerari! C’è da dire che all’epoca era normale; non eravamo poveri, per quanto non avessimo molti soldi da spendere. (Dopo un paio d’anni ci spostammo nell’appartamento al piano di sopra, un posto molto più carino e con il bagno in casa!)

    Lasciare i Bradley fu uno shock non indifferente, perché ero parte di una famiglia grande e calorosa che mi prestava un sacco di attenzioni.

    Dopo un annetto dal matrimonio dei miei nacque mia sorella Pamela, un’altra novità alla quale adattarsi. Ma la cosa più difficile di tutte era vivere con un padre che conoscevo a malapena, avendolo visto solo quando era a casa in licenza. Era piuttosto rigido: non potevo saltare sui mobili né mettere i piedi sui muri, come fanno tutti i bambini. Credo mi fossi abituato all’atmosfera più rilassata di casa di nonna, dov’ero l’unico bimbo in famiglia. Secondo lui ero viziato. Mi sembrava John Wayne, un uomo tutto d’un pezzo. Avevamo una relazione travagliata. Mi tenne il muso per un bel po’ di tempo, come se fossi stato io a decidere di interrompere la sua carriera. Nell’esercito aveva un sacco di amici e al paese neanche uno, ed essendo un giovane padre non aveva una gran vita sociale. In pratica, io ero l’oggetto della sua frustrazione e mi ci volle tanto ad abituarmici. È difficile, per un bimbo, sentire che il padre prova rancore nei suoi confronti, per quanto oggi comprenda quanto fossero estenuanti le circostanze.

    Il suo mostrarsi così infastidito a volte mi intimoriva: mia madre apparecchiava la tavola per il pranzo della domenica e lui, se era di cattivo umore, prendeva un lembo della tovaglia e gettava tutto per aria. All’improvviso, il piatto che avevo davanti colava dalle pareti. Era terrificante.

    Un po’ lo capisco, perché anch’io ho tre figli: nonostante li ami e abbiamo un bel rapporto, essere padre è un mestiere difficile; e credo che per lui lo fosse particolarmente, visto che era giovanissimo e la sua vita era stata stravolta dal mio arrivo. Per fortuna, c’erano anche dei lati positivi: aveva un grande senso dell’umorismo, che ho ereditato. Entrambi adoravamo ascoltare The Goon Show e guardare Hancock’s Half Hour in tivù e mi portò a vedere il comico Jimmy Clitheroe a Bridlington. Ricordo che Jimmy si venne a sedere accanto a me durante lo show e mi spaventai a morte perché, nonostante fosse un adulto, era poco più alto di un metro e venti. Io e papà giocavamo alla lotta, mi portava a pescare e faceva un sacco di altre cose da padre. C’erano momenti belli e altri che lo erano molto meno.

    Mio padre aveva un disco, una collezione di brani blues di Muddy Waters e altri, ma credo lo ascoltasse dalla nonna, perché non abbiamo avuto un giradischi a casa fino a molto tempo dopo. Di sicuro, volevo fare musica e non solo ascoltarla, perché ricordo che a otto anni feci una scenata al Woolworth. Sembra volessi una tromba, per quanto non riesca a immaginarne il motivo, visto che non ho mai voluto suonare gli ottoni. Scatenai l’inferno, mi misi a strillare disteso per terra, dovettero portarmi fuori di peso. E neanche mi presero la tromba. Quella fu la fine delle mie aspirazioni musicali fino all’età di quattordici anni, quando iniziai a capire un po’ di più di musica, più che altro ascoltando Radio Luxembourg, per quanto la BBC Light Programme avesse trasmissioni tipo Picks of the Pops dove potevi sentire i pezzi delle classifiche del momento.

    Pur vivendo in un paese piuttosto piccolo, sono sempre stato attratto dal mondo esterno. Verso la fine degli Anni Cinquanta, la RAF di Driffield faceva da base al personale dell’aviazione americana e io avevo un paio di amici statunitensi; era strano averli in classe, perché erano molto diversi da noi. Ricordo le partite a baseball nel cortile della scuola con George Smith, che aveva i tipici capelli a spazzola dei soldati americani e indossava scarpe da ginnastica e jeans molto più fighi delle cose che portavamo noi, sembravano comodi ed erano molto più stilosi.

    George era simpatico, ma i nostri compagni non stavano mai con lui perché era diverso, e ai tempi alla gente non piacevano le cose diverse. Ma c’era qualcosa dell’America che mi ha affascinato fin da ragazzo: mi immaginavo come sarebbe stato andare in una di quelle trattorie del Texas a ordinare una cena. Quando vivi in una cittadina agricola dello Yorkshire, anche l’idea di fare una cosa così semplice sembra inimmaginabile.

    Quello che all’epoca non sapevo era che gli americani come il padre di George vivevano a Driffield perché gli Stati Uniti volevano dispiegare i loro missili balistici Thor in Gran Bretagna. La RAF di Driffield ospitava tre di queste testate nucleari capaci di arrivare fino a Mosca. Considerando che ciò ci rendeva un potenziale obiettivo nel caso in cui l’Unione Sovietica avesse voluto attuare un attacco nucleare, sono contento di esserne stato inconsapevole. Ma ricordo bene la Crisi dei Missili di Cuba

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