Beni musicali, musica, musicologia
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Anteprima del libro
Beni musicali, musica, musicologia - Enrico Careri
PARTE PRIMA
–
BENI MUSICALI E MUSICOLOGIA
1. I BENI MUSICALI
Cosa s’intende per bene musicale? Fino a qualche anno fa assolutamente nulla, per lo meno sul piano legislativo.¹ Può sembrare incredibile ma prima del decreto legislativo n. 112/1998 e del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali del 1999 le partiture musicali non erano considerate un bene al pari di un dipinto antico o di un sito ar cheologico. Il disinteresse del legislatore italiano per la musica, sulle cui ragioni torneremo in seguito, ha gravemente danneggiato il nostro patrimonio musicale, perché non essendo la musica un bene non c’era ragione di proteggerla dall’incuria e dal tempo. Molti manoscritti ed edizioni musicali a stampa hanno subito danni talvolta irreversibili perché considerati poco più che carta vecchia, sono rimasti a marcire in archivi e biblioteche senza che alcuno se ne prendesse cura inventariando, catalogando, restaurando, microfilmando un patrimonio musicale che il mondo ci invidia. In Italia si conserva infatti più della metà del patrimonio musicale di tradizione scritta occidentale, e non sorprende dunque che l’assenza di una legislazione che ne tuteli la conservazione sia stata considerata in molti paesi europei un danno all’intera cultura occidentale. Solo grazie all’iniziativa individuale di alcuni musicologi, che da decenni denunciano la situazione di degrado e abbandono delle biblioteche musicali, diversi fondi musicali sono stati catalogati e molte partiture restaurate, trascritte, pubblicate, eseguite.
Il decreto legislativo n. 490/1999 del Testo unico — oggi superato dal nuovo codice del 2004 — inserisce per la prima volta gli spartiti musicali nella più vasta categoria dei beni librari. Di beni musicali ancora non si parla, ma un pur piccolo passo avanti nel precedente vuoto legislativo è compiuto: l’articolo 2, comma 2, stabilisce che appartengono ai beni librari le carte geografiche e gli spartiti musicali aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico
. Non è chiara la ragione per cui partiture e carte geografiche sono riportati nello stesso comma, ma si tratta comunque di un tardivo quanto significativo inizio. Il criterio secondo cui solo le partiture rare e di pregio storico o artistico sono da considerarsi beni è però a dir poco impreciso: se infatti si può stabilire la rarità utilizzando cataloghi e repertori e individuando gli unica, ossia gli esemplari che esistono in un’unica copia, come si può decidere il pregio artistico? Il giudizio estetico non può essere alla base di un testo di legge, perché una composizione musicale può essere giudicata in modo assai diverso e considerarsi pregiata o meno. Del resto anche la rarità non è un buon argomento per decidere la sorte di una partitura: il fatto che di una composizione esista solo un esemplare può anche voler dire che l’autore o chi l’ha studiata o eseguita in seguito non l’ha ritenuta sufficientemente pregiata da trascriverla o darla alle stampe. Se il criterio da seguire per stabilire un ordine di priorità nel restauro dei testi musicali antichi fosse davvero la rarità si dovrebbe preferire un solfeggio di Girolamo Chiti di cui esiste un solo esemplare ad un concerto di Bach o Vivaldi del quale esistono più copie. Ma anche il pregio storico è concetto vago perché una composizione, come qualsivoglia fonte artistica o documentaria, può avere valore storico per uno studioso e non averne affatto per un altro.
Sono stati compiuti in questi ultimi anni altri tentativi di inserire la musica a pieno titolo tra i beni culturali, ma rimane ancora molto da fare perché figuri come categoria a sé, distinta dalle altre per le sue particolari pre rogative che ne rendono la tutela diversa da quella dei beni librari e degli altri beni culturali. Il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato con decreto legislativo 42/2004, per evitare l’ambiguità di cui sopra, stabilisce nell’articolo 10 (comma 3) che sono da sottoporre a tutela gli spartiti musicali in quanto tali e non più per il loro eventuale pregio storico e arti stico. Questo è certamente un fatto positivo, ma come ha osservato Annalisa Gualdani il codice "non ha ritenuto di dover sintetizzare in una categoria autonoma le cose appartenenti al ‘patrimonio della musica’. Così, l’art. 2, comma 2 del nuovo Codice, là dove afferma che «sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà», non inserisce nell’elenco qualificante le singole cose l’aggettivo ‘musicale’, ma, confermando l’impostazione del Testo Unico dei Beni culturali, che considera gli spartiti musicali come species del genus ‘beni librari’, riconduce i primi tra le cose d’interesse bibliografico. Ergo, anche la nuova disciplina sui beni culturali continua a confermare l’equazione spartiti = beni musicali."²
È ancora presto per giudicare gli effetti del nuovo provvedimento legislativo sui beni culturali, che quanto meno dovrebbe dare il via ad un ampio intervento di catalogazione e restauro di manoscritti e stampe musicali. Se infatti è importante avere leggi che — in modo ancora inadeguato — finalmente riconoscono il valore del nostro patrimonio musicale, è anche vero che da sole non sono sufficienti se non accompagnate da adeguate risorse finanziarie che coprano i costi necessari alla sua tutela. Da questo punto di vista poco è cambiato: i siti archeologici e i musei continuano ad essere per chi ci governa — indipendentemente dallo schieramento politico perché il disinteresse per la musica di tradizione scritta è trasversale
— un investimento di gran lunga migliore, perché portano soldi e visibilità politica.
Ma non è solo una questione economica e politica. Di fatto i bronzi di Riace o Pompei attirano migliaia di turisti, mentre una cantata di Scarlatti o Bononcini poche decine di appassionati. Il disinteresse del legislatore e la scarsa entità dei fondi destinati alla conservazione dei beni musicali sono evidentemente il frutto della scarsa se non nulla cultura musicale degli italiani, che è certamente il risultato di un sistema scolastico in cui l’educazione musicale è relegata alle sole medie inferiori, dove per lo più è ridotta allo studio del flauto dolce e ad inutili biografie di musicisti. Una riforma scolastica che preveda l’insegnamento della musica anche alle elementari e al liceo, ossia che consideri la storia della musica d’importanza pari a quella delle altre arti, non è mai stata neanche presa in considerazione, per la stessa ragione per cui la musica fatica ad avere pari dignità all’interno dei beni culturali. Se nessuno ci insegna ad ascoltare ed apprezzare una sonata di Mozart come altri ci insegnano a leggere un romanzo, come possiamo considerare la sonata al pari del romanzo? Il vuoto didattico è colmato dalla famiglia nei rari casi in cui si ascolta musica a casa o c’è l’abitudine di recarsi a concerto. Pochissimi studenti universitari sanno suonare uno strumento o ascoltano Mozart o Beethoven a casa, ed è raro che i loro genitori posseggano dischi o CD di musica classica. Proprio nei corsi di laurea che prevedono obbligatoriamente l’esame di musicologia emerge con chiarezza il quadro desolante dell’ignoranza musicale italiana: studenti anche brillanti e preparati ammettono nella maggioranza dei casi di non avere mai ascoltato musica di tradizione colta e di cambiare rapidamente canale quando malauguratamente finiscono per errore sul terzo canale della RAI. Comportamento chiaramente riconducibile al vuoto didattico di cui sopra.
I cittadini italiani non riconoscono il patrimonio musicale italiano come bene collettivo. Il Foro Romano è di tutti, fa parte del nostro patrimonio comune, rappresenta nella coscienza collettiva un pezzo importante del nostro passato, mentre una messa di Palestrina non è considerata tale perché non viene consumata né produce vantaggi economici o politici. Se fin da bambini fossimo educati ad ascoltare la musica, con la testa e non come sottofondo, i tesori musicali del passato avrebbero nella coscienza comune pari considerazione della cupola di San Pietro. Allora c’è da chiedersi perché l’ordinamento scolastico italiano non ha mai dato alla musica l’importanza che le spetta, e perché nelle stesse università molti corsi di laurea non prevedono corsi di musicologia e storia della musica. Se infatti in ambienti colti come quello accademico si riscontra pari insensibilità nei confronti della musica —e ad esempio il docente di filologia romanza non ritiene necessario che i propri studenti sostengano l’esame di storia della musica — allora si deve necessariamente concludere che il pregiudizio affonda le sue radici nel nostro lontano passato ed è difficile da estirpare.
Una pur breve digressione sul terreno dell’estetica musicale ci porterebbe troppo lontano, ma alcune nozioni di base sono probabilmente necessarie. Fino alla fine del diciottesimo secolo nella gerarchia delle arti la musica era posta all’ultimo grado, perché i suoni non erano considerati capaci di esprimere significati precisi come le parole. Un quadro o una poesia rappresentano infatti situazioni e affetti ben chiari a chi osserva o legge, mentre una gavotta non ha alcun senso. Ancora ai tempi di Mozart (17561791) il compositore era considerato un artigiano, abile e stimato quanto si vuole ma pur sempre sullo stesso piano di un cuoco o un falegname, mentre il poeta e il pittore godevano già da secoli di ben altra considerazione. Nel diciannovesimo secolo, a partire da Beethoven (1770-1827), la situazione si rovescia e la musica diviene la prima delle arti. Secondo l’estetica romantica, elaborata da filosofi e scrittori tedeschi verso la fine del ’700, essa sola riesce ad esprimere l’assoluto, l’ineffabile, l’infinito. Il compositore non è più visto come semplice artigiano ma come artista, talvolta come nel caso di Beethoven è considerato un genio. Ciò avviene però in area tedesca, dove soprattutto si sviluppano i principali generi strumentali dell’epoca (sinfonia, sonata, quartetto, etc), che proprio perché privi delle parole possono esprimere al meglio la concezione romantica dell’arte. In Italia la situazione è diversa. La musica strumentale, che nei secoli precedenti era presa a modello dai compositori d’oltralpe, basti pensare al successo europeo di compositori come Antonio Vivaldi o Arcangelo Corelli, per tutto l’800 rimane ai margini dello spettacolo operistico. La tradizionale superiorità delle arti figurative e letterarie non viene in Italia messa in discussione, e la musica continua ad essere un bel gioco di sensazioni
— come la definisce Kant — sostanzialmente inutile perché priva di significato. Ciò può avere forse contribuito ad escludere l’educazione musicale dai programmi scolastici: se la musica non ha significato può al massimo considerarsi un hobby da praticare privatamente fuori dalla scuola, come la pesca o l’equitazione. E infatti nei collegi d’istruzione del ’700 la musica e l’equitazione erano materie opzionali a pagamento che solo pochi potevano permettersi, autentici status symbol dell’aristocrazia del tempo.
Si comprende allora il disinteresse del legislatore nei confronti di un’arte che la collettività non ha mai considerato un bene comune, perché non è mai stata posta nelle condizioni di poterla apprezzare. L’ascolto di un madrigale di Monteverdi o di un quartetto di Haydn richiede un minimo di competenza musicale, esattamente come la lettura della Divina commedia richiede quanto meno la conoscenza dell’italiano. Non è necessario essere musicisti o musicalmente alfabetizzati per provare piacere all’ascolto di Haydn, però occorre avere alle spalle un’adeguata educazione all’ascolto critico, perché la musica non è sottofondo, si deve ascoltare con la testa. Dovrebbe essere compito della scuola consentire a tutti di poter gioire ascoltando Mozart esattamente come è suo compito metterci nelle condizioni di apprezzare Dante e Leopardi.
Alla scarsa importanza attribuita alla musica corrisponde però un consumo quotidiano di suoni impressionante, che riguarda tutte le fasce d’età ma soprattutto i giovani. La musica ha sempre avuto un ruolo essenziale per l’uomo e dalle origini della specie — come testimoniano le ricerche etnomusicologiche — è stata sempre una presenza costante del nostro vivere quotidiano; oggi grazie ai progressi tecnologici che dal fonografo hanno portato al lettore CD è di gran lunga l’arte più fruita e consumata, sebbene spesso decisamente male. Ascoltiamo musica dal dentista, in bar e ristoranti, nei supermarket, in macchina, al telefono in attesa di comunicare, e brandelli di Carmen, Quattro stagioni, Beatles o Ramazzotti quando suona un telefonino. Nella maggior parte dei casi non l’ascoltiamo, la subiamo — come vedremo meglio nel sesto capitolo — eppure anche lo sfruttamento commerciale della musica per vendere, intrattenere clienti, indurli a comprare o la diffusione di musica nelle sale d’attesa degli studi medici è un segno che essa è per tutti noi molto importante. Appare allora ancor più grave che tale bisogno di musica — innato nell’uomo — sia soddisfatto spesso dalla sola musica di consumo, prodotta per fare cassa utilizzando procedimenti compositivi elementari che al fruitore non richiedono sforzo. Se non si interviene al più presto con un’adeguata riforma dell’ordinamento scolastico, ciò porterà in breve alla definitiva rottura del legame e della continuità col nostro passato musicale.
Da molto tempo musicisti e musicologi sostengono l’urgenza di una ri forma scolastica che impedisca questa rottura col passato e restituisca alla musica il suo valore e ruolo culturale. La cultura musicale — osserva Giuseppina La Face-Bianconi — è parte integrante, addirittura elemento fondante, della formazione culturale del cittadino. Non può dunque essere ignorata dalla scuola. Ma nelle scuole italiane l’educazione musicale s’interrompe (almeno finora) all’ultimo anno della Scuola media, e manca del tutto nel curricolo della Secondaria di secondo grado. Al giovane cittadino dai 14 ai 19 anni — età delicatissima per lo sviluppo degli aspetti cognitivi, emotivo-affettivi e per la costituzione della personalità individuale — viene sottratta la frequentazione dei capolavori musicali e si nega la possibilità di fare esperienza musicale in termini di comprensione, confronto e produzione
.³ E poco oltre: "il giovane potrà tanto più orientarsi nello sfaccettato mondo dell’offerta musicale odierna — le tante musiche etniche, rock, pop e via dicendo — quanto più avrà esercitato gli strumenti della comprensione musicale sui capisaldi della storia musicale occidentale. La musica classica fornisce cardini strutturali per la comprensione della cultura occidentale tout court: scopo, questo, al quale la nostra scuola non si può certo sottrarre proprio in una fase come l’attuale, in cui essa deve, per altro verso, aprirsi alle istanze, sacrosante, dell’interculturalità. La scuola da un lato deve valorizzare il patrimonio di conoscenze storicamente consolidato; dall’altro, deve adeguarlo alle sfide culturali del mondo contemporaneo".⁴
Consapevoli del ruolo fondamentale dell’educazione musicale nelle scuole e dello stretto rapporto tra cultura musicale del cittadino, consumo di musica colta e sua tutela, i musicologi denunciano da decenni l’inadeguatezza del nostro ordinamento scolastico e recentemente hanno anche cercato attraverso la stampa di sensibilizzare l’opinione pubblica contro il decreto che sancisce la scomparsa della musica anche dall’indirizzo pedagogico delle superiori. Quell’indirizzo — scrive Marco Mangani — raccoglieva l’eredità dell’istruzione magistrale, e la scelta del ministero è dunque chiarissima: la musica non farà più parte dell’orizzonte culturale dei futuri insegnanti. Né consola l’istituzione dei licei musicali: in gioco non è la formazione professionale dei musicisti, ma la presenza della musica nel percorso formativo del cittadino; in gioco è il futuro di un patrimonio inestimabile della nostra civiltà, che di questo passo perderà i suoi ascoltatori nel giro di poche generazioni (forse una)
.⁵
Ma veniamo finalmente ai beni musicali, a ciò che attualmente rappresentano per la legge italiana e a ciò che dovrebbero essere secondo il parere di molti musicologi. Il Testo unico del 1999 e il nuovo Codice del 2004 parlano come si è visto solo di spartiti musicali, utilizzando un termine oggi errato, intendendosi per spartito la trascrizione per pianoforte, o per canto e pianoforte, di una composizione per orchestra o per voci e orchestra; nell’uso corrente partitura
.⁶ I fondi musicali delle biblioteche contengono anche trascrizioni per pianoforte o per canto e pianoforte di partiture per orchestra ed altri organici, ma sono ovviamente i testi originali a dover essere principale oggetto di tutela, dai più antichi codici musicali alle parti e partiture manoscritte e a stampa del secolo scorso. Può essere utile precisare che la parte contiene solo le note musicali che devono essere eseguite da uno strumento o una voce, mentre la partitura comprende tutte le diverse parti strumentali e/o vocali previste per l’esecuzione di quello stesso brano. Così ad esempio nella partitura di un concerto per pianoforte e orchestra si trovano allineate verticalmente le parti del pianoforte e di tutti gli strumenti che compongono l’orchestra (flauto, clarinetti, fagotti, corni, violini primi, violini secondi, viole, violoncelli, contrabbassi), mentre nelle singole parti ciascun musicista trova scritto solo ciò che riguarda il proprio strumento. Il compositore scrive preferibilmente in partitura per avere sotto gli occhi l’effetto d’insieme, il direttore d’orchestra legge la partitura per poter guidare contemporaneamente tutti gli strumenti, mentre i professori d’orchestra e i solisti utilizzano le parti staccate. Lo spartito è invece la trascrizione di tutte le parti allineate in partitura in due soli pentagrammi da eseguirsi al pianoforte, e nel caso di melodrammi o altre composizioni per una o più voci tanti pentagrammi quante sono di volta in volta le voci. Ha la funzione pratica di consentire ad un solo esecutore di eseguire (per studio o diletto) una composizione originalmente concepita per più strumenti e/o voci, e in particolare è utile al cantante per studiare la propria parte. Secondo la legge italiana si dovrebbe perciò tutelare l’edizione Ricordi del 1961 dello spartito per canto e pianoforte della Cenerentola (1817) di Gioacchino Rossini e non l’autografo rossiniano.
Ma sarebbe anche limitativo sostituire spartito con partiture e parti, perché in realtà oggetto di tutela dovrebbero essere tutte le testimonianze musicali scritte dalle origini della notazione musicale ai giorni nostri, quindi anche i codici più antichi, anche le intavolature, ossia i testi musicali notati con numeri o lettere al posto delle note per indicare la posizione delle dita sullo strumento, anche manuali e trattati musicali, fondamentali per risalire alle antiche prassi esecutive e comprendere le teorie musicali che stanno alla base dei diversi stili e generi musicali dei secoli passati, e ancora gli abbozzi che spesso permettono agli studiosi di ricostruire la genesi di un’opera. Se dunque è vero che partiture e parti (e non gli spartiti) costituiscono la porzione più consistente del nostro patrimonio musicale scritto, non si deve escludere quanto il Testo unico e il nuovo Codice non menzionano per l’evidente incompetenza di chi li ha redatti e approvati.
Si è parlato finora solo dei testi musicali, ma secondo i musicologi dovrebbero essere considerati beni musicali — ed essere dunque soggetti a