KEEF: Ritratto di Keith Richards a colpi di riff
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Nessuno come lui. In oltre settant'anni, ha superato davvero ogni limite. E Keith Richards è ancora qui, non smette di suonare, di creare, di interpretare la vita con quel suo stile improbabile e unico. Questo ritratto è un atto di affetto in ordine sparso, a zigzag per le sue avventure, fino al nuovo album solista Crosseyed Heart, raccontato brano per brano. Un apocalittico, un irripetibile che ha reso il mondo un posto più bello, un delinquente con la chitarra al quale davvero tutti debbono almeno un momento di felicità.
Massimo Del Papa
Faccio il giornalista dal 1990. Ho scritto alcuni libri, di preferenza in formato ebook.
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Anteprima del libro
KEEF - Massimo Del Papa
Introduzione – Keith, il bandito
Il bambino grinzoso sta accartocciato sul divano e il suo sguardo non è mai cambiato: ha visto passare ogni avventura, ma la luce brucia ancora d'impazienza malandrina, di entusiasmo curioso e un velo appena di malinconia, perché questo tempo che pare aspettarti è lì che ti insegue e tu puoi essere duro fin che vuoi, puoi rinascere dalle tue ceneri, puoi suonare fino a piegarti le dita, ma la musica stessa è fatta di tempo e tu... Tu sai che avrà ragione lui. Alla fine, anche la polvere di te volerà via, e il vento in una sola folata rimetterà in pari tutte le volte che ti aveva risparmiato. Intanto guarda la tua faccia: a forza di consumarsi, è tornata quella di un neonato. Tutta pieghe, non ha più una forma. Tanto di quel tempo le è scorso addosso, che non ha più un'età. E questo, naturalmente, può essere un vantaggio, se ci sai fare. Se la sai indossare. Chi guarda un film è destinato a sperimentare il disagio del se stesso perduto. Disagio e nostalgia: altre divise, colori, manie, altri strumenti. Dio mio, quanta vita è passata. I Rolling Stones no. Keith Richards no: il suo profilo ha cambiato mille aspetti, s'è devastato, incartapecorito, appesantito di orpelli, ma resta sempre quella luce negli occhi, sempre un filo a congiungere sponde di gesta distanti epoche. Nel 2015 i Rolling Stones hanno inaugurato il primo concerto via Periscope, la nuovissima app che consente, via Twitter, di filmarsi e trasmettersi in diretta sulla rete. Il concerto, a Los Angeles, eseguiva l'intero album Sticky Fingers, in via di ripubblicazione dopo 44 anni. Tra Periscope e l'Ed Sullivan Show corre l'intera parabola della ricostruzione capitalista, delle crisi stanziali, poi globali, della finanza liquida, della realtà virtuale e dei dispositivi che ti fanno portare il mondo in una mano. Quando Keith immaginava Satisfaction, dormendo, russando in una stanza d'albergo, sperduto in un altrove nel mondo, Cassius Clay, appena ribattezzatosi Muhammad Ali, abbatteva per la seconda volta il grande orso cattivo, Sonny Liston (destinato a morire di overdose proprio mentre gli Stones lanciavano Brown Sugar) con un pugno fantasma, che lui preferiva chiamare il pugno àncora
o il pugno lampeggiante
. Adesso Ali è una quercia silente sconvolta dalla sindrome di Parkinson, gli altri eroi della sua boxe, la migliore di ogni tempo, lo hanno preceduto e lo aspettano nel Paradiso dei guerrieri. Anche Richards ha avuto le sue devastazioni, le sue chiamate di morte, in serie, ma in un modo o nell'altro si è sempre ripreso e anche adesso che su palco ha percettibilmente ridimensionato l'energia, la grinta viceversa è sempre la stessa: scocca dagli occhi, e di tanto in tanto si dipinge sul volto l'espressione di dieci, trenta, cinquant'anni fa.
C'è una foto celeberrima che gira da trentacinque anni, la trovi nei libri, su internet, perfino incorniciata in qualche vetrina di boutique. Trasmette bestialità e un senso di pericolo, di dannazione. Si vede un uomo tetro, un cane scarno e nudo dalla cintola in su, le costole in evidenza, piegato a sistemarsi negli stivali neri i jeans che gli fasciano le gambe nodose. È in un cupo bianco e nero, è stata scattata nei sotterranei di uno stadio americano prima di un concerto nel 1981. Bello no, brutto tanto. Ferino, i capelli d'inchiostro arruffati a nido d'aquila, una pozzanghera di rughe sulla faccia scavata, il labbro inferiore sporgente che suggerisce pessimo carattere, le mani dure, nodose, mani da uno che va per le spicce, da strette violente, da coltello. Da carpentiere
, avrebbe scritto Tom Waits decenni più tardi. Bello no, brutto tanto ma di un brutto attraente, carismatico. Uno di quelli di cui si dice: se non fosse diventato quello che è, sarebbe finito male. Keith Richards è finito male tante volte, però è nietzschianamente diventato quel che doveva essere, un chitarrista, una rockstar copilota della rockband più importante di tutti i tempi. Un'icona planetaria che non ha mai perso un'occasione per perdersi. Ostinatamente incorreggibile: denunce, arresti, violenze, risse, autodistruzione, episodi orrorifici, retroscena inconfessabili, troppo anche per il pazzo circo del rock. A un certo punto quello spaventapasseri di un metro e settantacinque era bandito da mezzo mondo. Bandito, ecco la parola giusta. Un fuorilegge che, per combinazione, sapeva suonare la chitarra, sapeva comporre. Ma comunque e sempre uno spostato, un disadattato. Anche il modo di suonarla, la chitarra, è anarchico, sta fuori dalle regole o meglio segue regole tutte sue, solo sue.
Keith Richards ha mantenuto per tutta la vita una incredibile e in fondo ingenua integrità al di là del bene e del male, anche in vecchiaia quando la sua metamorfosi piratesca è apparsa inevitabile. Come un uomo che raggiunge il suo destino. E lui è andato a fare il pirata, anzi il re di tutti i pirati, in un film d'avventura con Johnny Depp. Facendo dannare tutti anche lì, ma alla fine tirando fuori cinque minuti deliziosi. Cinque minuti, lo spazio di una canzone. Se cercavi qualcuno sobrio, hai sbagliato il tuo uomo, man
, ha detto al regista Gore Verbinski, un perfezionista sull'orlo di una crisi di nervi. Ma basta avere pazienza e Keith Richards a modo suo ti ripaga. Perfino imbottito di vicodin, roba che un altro sarebbe a vegetare in coma, dopo una operazione che gli ha rimesso insieme, con sette placche di titanio, il cervello spappolato a seguito di un incidente che solo a lui poteva succedere: spaccarsi la testa cadendo da una palma per cogliere una noce di cocco. Se poi vi chiedete perché diavolo uno di sessantadue anni deve arrampicarsi su una palma a rischio di sfracellarsi, avete sbagliato il vostro uomo.
No, non è questa la domanda da porsi. Quella giusta è: perché un artista che da mezzo secolo è abituato ad avere il mondo ai suoi piedi non si placa, non si redime, continua a vivere come se non ci fosse un domani, col coltello fra i denti e magari una pistola in tasca, perché continua a provocare la morte? Perché fa inorridire ancora una volta il mondo rutilante e dissoluto sul quale siede, pontefice della bella malavita, ammettendo di avere sniffato le ceneri del padre insieme a un pizzico di coca? Più simile a un tagliagole che ad una viziata rockstar, eccessivo per i suoi stessi compagni d'avventura, Keith ha un segreto di Pulcinella per la sua sfida alle leggi della natura. Non sta nei due fegati di cui si favoleggia o nel costante ricambio del sangue, trovate da b-movie horror. Certo, una costituzione particolare, certo un sistema immunitario tutto da studiare. Ma, più ancora, prima ancora, una disperata voglia di vivere, eternamente ribadita: La vita è splendida, io non ho mai voluto ammazzarmi
. Un eccesso di energia, di esuberanza, di entusiasmo, di incoscienza, mettetela come volete ma questo è Keith Richards: prendere o lasciare. Amore per la vita che poi consona con quello per la musica, al punto che è proprio quando la passione di suonare viene meno, quando i suoi
Rolling Stones entrano in pausa, che i demoni riprendono il sopravvento e il will, la volontà schopenhaueriana, l'elan vital di Bergson, si infognano, è lì che la scintilla non accende più l'anima e l'ombra della morte torna a condensarsi, a ghermire. Keith Richards è stato sempre salvato dalla musica, prima di tutte le sue droghe; la sua astinenza lo ha sempre, immancabilmente portato a un passo dalla fine.
Keith Richards nel cuore
Se chiedete a un qualsiasi fan dei Rolling Stones quale sia il Keith Richards che preferisce, vi risponderà quasi infallibilmente: quello di Tattoo you
, quello del tour 1981-82. Scriverà un fan sul sito IORR – It's only rock and roll
, uno dei più autorevoli di tutta la rete, a proposito di uno spezzone dal vivo proprio di quell'avventura live: Questa è la band di cui mi innamorai. A volte suonano in modo terribile, ma in qualche modo non importa. Qui c'è tutto, loro cinque, un pianoforte e nient'altro. Sono orrendamente fantastici e Keith è al suo massimo
. Quello della foto negl'inferi dello stadio. Quello che ha ripreso il controllo sul gruppo dopo anni di dannazione. Quanto a dire un Richards che non c'è. Tattoo you
è un disco postumo, fatto di momenti, abbozzi, idee, frammenti accumulati in un generoso passato fra il 1972 e il 1980, in particolare nelle fantastiche sessioni del 1978 e poi rimesso a nuovo in studio dalla paziente devozione del produttore, ingegnere e (nel pianeta Stones succede anche questo) topo di archivio Chris Kimsey. Della sola Start Me Up esistono trentadue versioni una più strampalata dell'altra e Kimsey, dice la leggenda, fu abile a recuperare la più ispirata, uscita dagli studi Pathè Marconi di Parigi lo stesso giorno in cui fu portata a compimento Miss You. Roba da camparci dieci vite. Gli annali rivelano di un Keith Richards inusualmente coinvolto in consolle, tutto preso in un va e vieni dalla sala comandi avendo intuito che qualcosa di grosso stava succedendo. Poi, nella babelica confusione del mondo Stones, Start Me Up venne travolta dal solito confusionario oblio e ci volle la stasi creativa susseguente ad Emotional Rescue per spingere verso un recupero di quello che poi s'imporrà come uno dei classici di sempre, probabilmente l'ultima grande hit per i Rolling Stones.
Il Keith Richards di Tattoo You, dunque, non esiste, è una proiezione. La leggenda dice che neanche si fece vedere all'epoca della rifinitura in studio dell'album, cui avrebbe partecipato il solo Jagger ricantando alcune parti. Quello del tour invece c'è ed è lui ad essersi impresso a fuoco nella nostalgia dei più fanatici. In quel momento Richards vive un passaggio fondamentale della sua incredibile avventura: è uscito dal girone più profondo del suo inferno, ha quasi 38 anni – li festeggerà sul palco in un concerto memorabile - e la sua tempra indistruttibile gli permette recuperi prodigiosi a dispetto degli abomini trascorsi: appena tre anni prima, languiva sul divano di Mick in cura narcotica, obbligato da una sentenza di una corte canadese: ed era quella l'ultima spiaggia, o uscirne o entrare in prigione. Per sempre. Ma Keith le ultime spiagge se le mangia a colazione: lentamente ripresosi (Ce ne accorgemmo perché una mattina lo trovammo in giardino che tirava coltelli contro gli alberi
, ricorda Jerry Hall, all'epoca nuova fiamma di Jagger), ricomincia a suonare e il suo ritorno coincide con la nuova credibilità ritrovata da tutto il gruppo: Some Girls è il disco che spazza via ogni attacco dai punk, fa giustizia di insinuazioni e malignità, così duro, secco, eccitante: rilancia la nuova stagione degli Stones con alcuni infuocati concerti che chiudono gli anni Settanta e annunciano il gigantismo della decade seguente. Sarà lo Still Life tour, con repertorio largamente pescato proprio da Some Girls e dai successivi Emotional Rescue e Tattoo You.
Sul palco l'aspetto di Richards ora tradisce un decadimento spaventoso ma seducente perché cristallizzato: l'energia, dopata, isterica, folle, ne esce clamorosamente moltiplicata rispetto a buona parte degli anni Settanta. Se Wood si addormenta in scena, completamente sbronzo, Keith lo sveglia a forza di pugni davanti a centoventimila persone esterrefatte. Se un esaltato si arrampica sul palco puntando