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Stracci e ossa
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E-book257 pagine3 ore

Stracci e ossa

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Info su questo ebook

Il protagonista del romanzo è un cinquantenne che torna a Udine, sua città natale, insieme alla compagna e al loro cane, poco dopo aver perso l’impiego nel mondo editoriale, per nulla dorato. La sua famiglia era arrivata nel Nord-Est al seguito del padre militare, di stanza in una delle caserme poste a ridosso della “cortina di ferro” durante la Guerra Fredda, una Fortezza Bastiani che ormai non ha più Tartari o altri barbari da aspettare. Inseguendo i suoi ricordi – memorabili quelli delle scorribande di quartiere comuni allo storico gruppo di amici ritrovati – torna al caseggiato dove abitava da ragazzo, ormai disabitato. Mentre la relazione con la compagna si logora, inizia a entrare di nascosto nella palazzina finendo per rinchiudersi nell’appartamento che molti anni prima era stato della sua famiglia. Il sinistro palazzo, infestato di presenze e rumori immaginati o temuti, funziona come una straordinaria macchina della memoria che stravolge percezioni e volontà e altera il corso del tempo, compreso quello della narrazione, mentre anche il mondo esterno sembra in balia di un evento che investe subdolamente la vita di tutti.
Stracci e ossa è un fiume in piena di parole che travolgono il lettore con la loro forza viva e sincera, e un romanzo che racconta l’impossibilità di ogni ritorno, insieme al bisogno vitale di ricordare, per trovare qualcosa di quel che siamo anche se non abbiamo più radici.
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2022
ISBN9788833862132
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    Anteprima del libro

    Stracci e ossa - Giorgio Olmoti

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Introduzione di Alessandro Ajres

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Trentadue

    Trentatré

    Trentaquattro

    Trentacinque

    Trentasei

    Trentasette

    Trentotto

    Trentanove

    Quaranta

    scafiblù

    (18)

    giorgio olmoti

    stracci e ossa

    © 2022 Miraggi edizioni, Torino

    www.miraggiedizioni.it

    In copertina: disegno di Giorgio Olmoti

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Chivasso nel mese di maggio 2022

    da A4 Servizi Grafici snc per conto di Miraggi edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstock Materica Acqua 180 gr

    Prima edizione digitale: maggio 2022

    isbn

    978-88-3386-213-2

    Prima edizione cartacea: maggio 2022

    isbn

    978-88-3386-211-8

    SINOSSI

    Il protagonista del romanzo è un cinquantenne che torna a Udine, sua città natale, insieme alla compagna e al loro cane, poco dopo aver perso l’impiego nel mondo editoriale, per nulla dorato. La sua famiglia era arrivata nel Nord-Est al seguito del padre militare, di stanza in una delle caserme poste a ridosso della cortina di ferro durante la Guerra Fredda, una Fortezza Bastiani che ormai non ha più Tartari o altri barbari da aspettare. Inseguendo i suoi ricordi – memorabili quelli delle scorribande di quartiere comuni allo storico gruppo di amici ritrovati – torna al caseggiato dove abitava da ragazzo, ormai disabitato. Mentre la relazione con la compagna si logora, inizia a entrare di nascosto nella palazzina finendo per rinchiudersi nell’appartamento che molti anni prima era stato della sua famiglia. Il sinistro palazzo, infestato di presenze e rumori immaginati o temuti, funziona come una straordinaria macchina della memoria che stravolge percezioni e volontà e altera il corso del tempo, compreso quello della narrazione, mentre anche il mondo esterno sembra in balia di un evento che investe subdolamente la vita di tutti.

    Stracci e ossa è un fiume in piena di parole che travolgono il lettore con la loro forza viva e sincera, e un romanzo che racconta l’impossibilità di ogni ritorno, insieme al bisogno vitale di ricordare, per trovare qualcosa di quel che siamo anche se non abbiamo più radici.

    BIO AUTORE

    Giorgio Olmoti, è uno storico dei linguaggi mediali e uno storyteller, attività che svolge da anni in lungo e in largo per tutta l’Italia, spesso accompagnato da musicisti e cantautori. Si occupa professionalmente del rapporto tra media e storia attraverso pubblicazioni e un’intensa attività con i principali editori italiani e con strutture didattiche e museali. Realizza prodotti multimediali, video, audio e foto e tiene corsi e seminari sulla didattica digitale e il trasferimento di contenuti attraverso la narrazione orale. Ha insegnato e insegna a ragazzi di tutte le età, dalle elementari all’università, perché raccontare è un modo perfetto per spiegare e trasmettere.

    Vive tra Torino, un bosco friulano e un’isoletta sperduta nel Mediterraneo. Ha una famiglia composta di persone e cani. Va in giro con vecchie macchine, una Guzzi e passa l’inverno a smontare motorini Ciao che a primavera partono a stento.

    A Pietro e agli altri.

    Sappiate che il vostro peccato vi ritroverà.

    Nm 32,23

    E io piangerò e saranno lacrime di silicone, perché il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell’emozione.

    Blughost

    Introduzione di Alessandro Ajres

    È un romanzo sul confine, quest’ultimo di Giorgio Olmoti, in senso geografico e tematico. Il confine è ben diverso dalla periferia, che è tale rispetto a qualcos’altro, ovvero rispetto a un centro ipotetico: il confine è, piuttosto, il centro stesso dell’esistenza. E ci vuole un enorme coraggio per andare a scavare laddove il passato e il presente, la morte e la vita si mescolano incessantemente fino a non capire più quale di questi si stia attraversando.

    Il protagonista di Stracci e ossa, in cui molti riconosceranno per vari aspetti l’Autore stesso, al contrario del sottotenente Drogo è riuscito ad abbandonare la propria Fortezza Bastiani; quando la morte avanza tutto intorno a lui, però, non può fare altro che ritornare alla prima casa e ai primi affetti. « Ci ha divisi tutti la vita a un certo punto. Siamo partiti, ognuno per un mondo suo, e ci siamo dimenticati i nostri nomi. Per ritrovarli scritti su un muro quando quei mondi avevamo scoperto che non esistevano e che non eravamo andati da nessuna parte. Eravamo rimasti sempre seduti sui gradini del portone la notte d’estate. » La pandemia nel mondo sta iniziando a mietere le prime vittime; mentre, sul piano individuale, è la fine del rapporto con la compagna di una vita a spingerlo a ritroso.

    La narrazione è certamente un modo per fare i conti con quanto è accaduto durante il percorso, che è un po’ come guardare ai destini dei protagonisti di Stand by me (o, se preferite, Il corpo) dopo essersi lasciati alle spalle quei momenti d’estate; ma è anche il disvelamento di un terribile inganno alla fine del percorso. Le amicizie dell’infanzia e dell’adolescenza, fatte di interminabili momenti vissuti assieme per costrizione o volontà, si sono trasformate nel rispetto borghese delle libertà altrui. Il luogo stesso di quelle avventure, il vero e proprio confine a nord-est tra Italia e Slovenia (la Jugoslavia di un tempo), in assenza del presunto nemico ha fatto emergere il vero volto del nulla del capitale. Quel posto esisteva in contrapposizione a una visione altra, a degli uomini che si presumevano altri: il padre del protagonista è uno dei tanti soldati chiamati lì a difendere il confine con una vita altra. Quando il nemico è svanito, però, col proprio crollo ha svelato anche l’inconsistenza ideologica e progettuale al di qua della barricata. « E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? / Era una soluzione, quella gente. » Il vuoto.

    In fuga dal pericolo della morte fisica, dei sentimenti e dei luoghi, l’alter-ego dell’Autore scava sempre più a fondo nel proprio passato per riuscire a trovare un po’ di pace, fino al punto di andare a vivere nel palazzo di un tempo, ormai abbandonato. « Entro nell’appartamento, la luce passa sempre dalla tapparella rotta ma fuori è ancora giorno e sono meno teso dell’altra volta. Vado dove c’era la cucina. Annuso, come a recuperare antiche memorie olfattive di frittate a fine mese e di pranzi della vigilia di Natale con il buffet allestito in salotto e l’insalata di polpo e il baccalà fritto. Vado a sedere per terra in camera mia. In camera nostra, visto che la dividevo con mio fratello. Appoggio la testa al muro e resto lì a respirare piano. Immobile. Mi addormento. » Qui farà i conti con tutti i fantasmi del passato, e persino quelli del presente, sino al finale in cui sembrerà riemergere un briciolo di speranza.

    Nei giorni passati dal protagonista all’interno della casa vuota che fu quella della sua famiglia, i momenti di emozione che l’Autore riesce a trasmettere con la propria scrittura sono davvero molti: le riflessioni sociali, nel libro, si alternano con la potenza dei ricordi in modo da tenere entrambi gli aspetti sempre vividi. Gli squarci aperti sull’infanzia e sull’adolescenza sono quelli di tutta la nostra generazione, di quando mai avremmo pensato che ci sarebbero mancati: gli scherzi e gli scazzi coi genitori, il « Caballero », i soldatini, le fughe in cortile. « Bere. Primo », « Secondo », « Terzo », « Ultimo ma primo per la prossima », « Non vale ». Tutto questo non c’è più, ma poche volte – come nel libro in questione – si avverte il peso della mancanza di qualcosa che lo sostituisca, lo avvicini o anche soltanto lo ricordi. La società ci è ormai esplosa tra le mani; la famiglia ci è esplosa tra le mani. Ci restano i sentimenti, forse, ma comunque troppo poco perché tornare indietro non si riveli altro che la misura enorme di un’assenza.

    Se si salva qualcos’altro, oltre all’amore, in questo viaggio a ritroso che Giorgio Olmoti fa compiere al protagonista del libro, è l’imponenza della cultura. Quel che l’ha tenuto in piedi finora: lui come persona, stavolta, e non come personaggio fittizio. Si evince dai continui riferimenti presenti all’interno del testo, cui l’Autore si aggrappa non già per maniera o per sfoggio: sono intrecciati alla sua stessa esistenza. Decidere di avventurarsi in questo percorso, allora, significa anche pesare con mano come e quanto la cultura possa aiutare qualcuno; al contempo, significa dare fiducia a chi scrive e farsi accompagnare nelle sue passioni. In questo senso, sono esemplificative le citazioni in esergo: la prima dalla Bibbia, la seconda dal blog di Giorgio Olmoti stesso, che apre generosamente al lettore le proprie coordinate culturali. Ci sono quelle letterarie, da Pascoli fino a Richard Matheson passando per Bianciardi, Philip K. Dick, Céline, Mario Vargas Llosa, Lovecraft, John Kennedy Toole; c’è il cinema di Dino Risi, Monicelli, Valter Chiari e persino Giochi proibiti di René Clément; c’è moltissima fotografia: Man Ray, Robert Mapplethorpe, nonché Peter Leibing, colui che (a proposito di confini) il 15 agosto 1961 immortalò Hans Conrad Schumann mentre saltava il filo spinato e si accasava a Berlino Ovest. E poi c’è moltissima musica, l’ambito che l’Autore ha esercitato ed esercita abitualmente: De Gregori (Perché dice che è la gente che fa la storia diviene la ripresa anaforica di un capitolo intensissimo), De Andrè, Bob Dylan, Leonard Cohen, Nick Cave.

    Compiendo questo percorso all’indietro l’Autore scava dunque nella propria (in)sofferenza portandosi appresso tutta la generazione dei cinquantenni di oggi: affidarsi alla sua narrazione significa ridere, piangere, capire di più delle nostre sorti. Ed è certamente un peccato che, al pari del suo protagonista che viene licenziato dal colosso americano dell’editoria per aver schiacciato con la moto il volpino della moglie dell’amministratore delegato, al pari di noi tutti, egli debba rincorrere la vita ogni giorno. Qualche anno fa, prima che tutto esplodesse, ci saremmo potuti godere le visioni di un intellettuale a tutto campo; e ce ne saremmo giovati moltissimo.

    Uno

    Sono cresciuto in un posto dove c’era un pezzo di terra zellosa dietro i palazzi e ci andavamo a giocare a pallone o a sdraiarci nell’erba a fumare le prime sigarette ciancicate. Parlare, senza avere le parole, di un amore che non sapevamo, ispirati dai resti secchi delle copule notturne di quelli più grandi che andavano lì la notte. Lo chiamavamo Milanino quel lembo di sassi ed erba stinta, senza saperne il motivo. Sono cresciuto in un posto dove in fondo al Milanino c’era la casetta del casellante di un qualche binario morto, che lì ci arrivavano tracce della modernità solo quando già erano da seppellire, e una mattina tutta quella famiglia dice che l’hanno trovata ammazzata a fendenti di lama larga. E noi, che eravamo al mondo per violare tutto, lì dentro non ci siamo mai entrati. A dirla tutta, non ho mai capito se quella storia fosse vera, ma tornava comunque utile per la nostra mitologia spicciola. Sono cresciuto in un posto dove gli zingari si chiamavano Elvis e Tarzan. Erano quelli più signori, che avevano le auto americane e le moto e a Bambi gli avevano lasciato in uso un Kawasaki 900 e noi ci giravamo in tre per fare la somma dell’età e averci gli anni giusti per una patente. Sono cresciuto in un posto dove era impossibile giocare a guardia e ladri perché nessuno voleva fare una delle due categorie e non sto parlando dei ladri, che lì il furto era considerato una proprietà. Sono cresciuto in un posto dove quello che vendeva gli alimentari stava dentro una specie di garage e dovevi saperlo che era lì e noi si andava a prendere la bottiglia di aranciata e, mentre uno pagava, gli altri si imboscavano i Ringo e i Kinder e voglio farti presente che c’era una strategia, perché l’aranciata era troppo voluminosa e costava meno di tutto. Sono cresciuto in un posto dove bevevamo quell’aranciata artificiale degli anni Settanta e dicevamo che ci spariva il raffreddore per via delle vitamine. Sono cresciuto in un posto dove si giocava a basket per dodici ore di seguito e a giugno eravamo quasi tutti bocciati. Sono cresciuto in un posto che era proprio al limite della città ed era comodo giusto quando venivi dall’autostrada, che pagavi al casello e arrivavi subito a casa. Sono cresciuto in un posto dove noi tornavamo raramente da un viaggio in autostrada. Sono cresciuto in un posto che quando sono ritornato dopo anni con il mio Ciao riverniciato rosso, l’ho parcheggiato e sono andato a trovare i miei e quando sono sceso il motorino non c’era più. Sono cresciuto in un posto che il Ciao l’ho ritrovato sotto casa la sera con un biglietto con scritto scusa e mica lo sapevano che l’avevo riverniciato. Sono cresciuto in un posto che ancora oggi ci proteggiamo uno con l’altro anche a distanza di centinaia di chilometri. Sono cresciuto in un posto che c’era la fabbrica della birra e nemmeno te lo immagini che puzza fanno il malto e il luppolo l’estate. Sono cresciuto in un posto che si era tutti punk e ska e dark e roccherroll e cose così e avevamo i vestiti strani e la musica a palla e gli anfibi e i cappottoni neri. Sono cresciuto in un posto che abbiamo ancora gli anfibi e la musica che ci corre dentro. Sono cresciuto in un posto che l’autobus numero 4 era il nostro Tramp Steamer. Sono cresciuto in un posto che poi sono andato a vivere in mille altre città e mi muovevo sempre come fossi sceso in strada in quel posto lì. Sono cresciuto in un posto che l’ho capito che bisogna godersela finché si può, è l’unica cosa che vale. Sono cresciuto in un posto che lo posso anche raccontare e poi dimmi se non è un colpo di culo. Sono cresciuto fuori ma dentro l’anima è rimasta piccola e non solo per far posto al fegato.

    Due

    Allevare l’idea del ritorno può rivelarsi il più tragico degli errori. Il ritorno non è una misura proiettiva del futuro. L’idea del tornare e l’avvenire sono inconciliabili. La putrescente speranza del ritorno che ti porti nello stomaco, come la carcassa di un gatto investito e lasciato marcire a bordo strada, è qualcosa che può fregarti, ma fregarti sul serio. Può inchiodare la vita l’ipotesi di un ritorno, che diventa ragione d’essere, di resistere, di respirare ancora, perché verranno tempi migliori e quei tempi saranno come quelli che hai lasciato e che andrai a riprenderti. Peccato che non ti dirai mai perché, se erano questo concentrato di meraviglia, li hai lasciati. Sei partito coprendo distanze spaventose o, magari, rimanendo vagamente nei pressi. Ma sei andato. Carico di bagagli come le truppe cammellate o a spalle leggere, che l’utile del viaggio già ti pompa per natura sua nelle vene e il resto è solo un baluardo a dimensione variabile tra te e la paura. Tutta la paura possibile. E io il mio ritorno l’ho allevato come quegli alligatori che certa gente delle metropoli americane dice che s’era portata a casa, comprandoli al negozio dei pesciolini rossi e dei criceti. Bestiole simpatiche. Alligatorini cuccioli e tenerissimi appena usciti dalle loro uova. Se ne stavano nel fondo dell’acquario e i bambini di casa gli buttavano pezzetti di carne di pollo, guardando replicate dal vivo le scene dei documentari sul canale dedicato alla natura selvaggia precotta a uso tinello. Nessuno può credere che quelle persone non sapessero che i rettili lunghi pochi centimetri e guizzanti nella vaschetta erano, in potenza, dei mostri voraci, dilaniatori e preistorici. E infatti dice che a un certo punto si verificarono incidenti domestici. I primi, meno gravi, con falangi di bambino perdute e l’acquario che si riempiva di un ribollire rosso come il Refosco. Ma ancora non bastava. Poi fu la volta della domestica messicana, tenuta da clandestina in un sottoscala e sfigurata mentre manutenzionava quelle Everglades domestiche. E ancora, in un’altra casa di gente bene e amante dell’esotico, trovarono il cane, di razza cocker spaniel, aperto come un messale. Dice, ed è ben evidente che stiamo parlando di cose che si raccontano senza nessun fondamento, negando l’appiglio al reale, omettendo mai compitati indici statistici di riferimento. Dice che quelli che non se la sentirono di stroncare a martellate i loro coccodrilletti da camera, li gettarono nel sistema fognario. Il culmine di questa meravigliosa leggenda sta tutto nella razza di coccodrilli resi ciechi e albini dall’oscurità densa che regna nel ventre metropolitano, che scelse le fogne di New York come habitat d’elezione. Prosperando.

    Così avevo mantenuto la mia idea del ritorno. Come una bestia letale che mi cresceva dentro e che, per ora, era rimasta in uno stato letargico. Lasciandosi guardare tutte le notti con quel suo carico d’evocazione che avrebbe potuto afferrarmi alla gola e uccidermi. Ho anche sognato una casa in un bosco lontanissimo dalla mia vita di adesso e che era l’acme narrativo di quell’altra vita, di quell’altro tempo. E cullando l’idea del ritorno come un piccolo alligatore a galleggiarmi nell’anima. Non possiamo tornare mai e non perché non si sappia cercare la strada e i segni. Il ritorno è solo la misura dell’assenza. Perché quando torni tutto se n’è andato, semplicemente cambiando. Si cambia sempre. Guardati allo specchio del cesso la mattina e lo saprai da solo. Il mio alligatore è cresciuto, non ce l’ho fatta a sfilettarlo con una lama finlandese e adesso è cieco e albino e quando si muove mi ribalta lo stomaco e l’anima e si sente stretto nella pelle mia. Poi oggi ho capito che non ce l’ha con me, vive sognando di tornare alla laguna, alle prede, al fango e a quegli altri come lui sdraiati al sole. Lui che il terzo giorno di vita stava nella vasca di un negozio di pesci rossi e criceti. Come ai bei tempi, dice parlando, cieco e albino, da solo. E lo sento gorgogliare lacrime. Di coccodrillo.

    Tre

    E alla fine sono tornato. Con l’ipotesi di ripartire da zero ma fidando nelle solide fondamenta di quel mondo che conoscevo nelle pieghe profonde. O così mi bastava pensare. Qui conosco tutti, gioco in casa. Vedrai che potremo ripartire alla grande.

    Così le ripeto mentre ce la giriamo per quelle strade che, a distanza di anni, sembrano rimaste lì, immobili. Come la scena pietrificata di un presepe antico e riproposto alla vista in prossimità del solstizio d’inverno. Le stesse facce, gli stessi rumori, gli stessi birignao del cameriere della pizzeria. Come posso dire come passa il tempo, cantava quell’altro. Non è difficile, questo in un altro tempo era il mondo piccolo dei miei giorni insicuri e meravigliati. Ho vissuto in cento città ma se mi chiedi da dove vengo non rispondo ma penso da lì e rivedo questa città che conosco lembo a lembo, pietra a pietra, faccia a faccia, odore a odore. E cammino per questo centro che a noi della periferia era concesso in uso con parsimonia. Questa città, nell’estremo oriente italico, è un transatlantico che affonda mentre nel salone delle feste l’orchestra suona ancora. Udine sono vetrine vuote spalancate sull’assenza, come bocche di morti male. Udine se fosse un romanzo sarebbe un giallo, colore che racconta un fegato abusato. Non ignoro che succeda in mille altri posti ma questo è quello che sento mio e conosco il sapore di un taglio buono di rosso che mi spetterebbe a buon diritto e mi accorgo che questa città resta il contenitore della passione e della paura e della rabbia che hanno dato un senso a tutti i miei giorni.

    Poi guardi meglio e scopri che un verme intestinale s’è mangiato tutti da dentro e di quello che rammentavi, maledetto il ricordo, nutrimento della fottuta idea del ritorno, sono rimasti solo dei simulacri fragili e secchi. Come le mummie di Venzone che ero andato a vedere con mio padre una domenica. Avrò avuto dodici anni. Mi raccontarono che originariamente le mummie erano quarantadue ma dopo il terremoto, quella maledizione che aveva ridisegnato a ground zero un sacco di paesi lì attorno, ne erano rimaste solo quindici. Le scosse sismiche, colpi

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