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Mixing
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E-book169 pagine2 ore

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Info su questo ebook

L’atmosfera vellutata del bar di un grande albergo in montagna fa da cornice ai ricordi del barman: la stagione sta finendo e lui ripensa a dodici clienti seduti al suo bancone. Ognuno di loro gli ha chiesto un cocktail diverso e raccontato una storia: un archeologo la scoperta della terra misteriosa finora oggetto di sole congetture, un giornalista la notizia sconvolgente che sta per pubblicare, un campione sportivo il motivo rimasto sconosciuto del suo ritiro e così via.
Davanti al bicchiere affiorano i segreti, le debolezze e i sogni di personaggi in apparenza privilegiati, finalmente capaci di guardare dentro se stessi con la complicità di un ascoltatore attento e silenzioso.
Questo libro è dedicato a tutti coloro che almeno una volta nella vita hanno sentito l’impulso di confidarsi con uno sconosciuto. Se poi lo abbiano fatto davvero è irrilevante.
Più che con uno sconosciuto avevano bisogno di parlare con se stessi.
E un barman può essere lo specchio che stavano cercando.

LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2023
ISBN9788831285735
Mixing
Autore

Dada Montarolo

Dada MontaroloÈ nata in Italia, a Casale Monferrato (AL), e risiede in Svizzera; è stata giornalista, caporedattore e corrispondente dall’estero (Australia, Stati Uniti, Oriente e una parte dell’Oceano Pacifico) per alcuni quotidiani nazionali italiani (Corriere dello Sport, Avvenire, La Nazione) e copywriter.Affianca all’attività di scrittore quella di editor e curatore di traduzioni di romanzi in lingua straniera. Ha pubblicato i romanzi:“Le battaglie di Giulio Cesare” (ed. Rusconi);“Alter” (ed. Campanella 2003);“Golfavolando – Storie vere di un circolo immaginario” (ed. Mursia 2008);“Golfavolando – Le nuove storie” (ed. Mursia 2012);“Nessun Messaggio Nuovo” (Gabriele Capelli Editore 2017). Nel maggio 2017 l’autrice è stata invitata alle Giornate Letterarie di Soletta e nello stesso anno ha ricevuto la Targa speciale della Giuria dei Critici al Premio Stresa di narrativa;“Millaria – Il tempo dell’inganno” (ed. Delos Digital 2019).Ha scritto anche racconti e commedie.È stata inserita dalla stampa elvetica nell’elenco dei “dieci scrittori che bisogna assolutamente leggere”.

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    Anteprima del libro

    Mixing - Dada Montarolo

    SIDECAR

    La vidi per la prima volta verso un mezzogiorno di inizio estate. Entrò con il passo lungo e sicuro di chi è abituato ad andare sempre alla conquista di qualcosa.

    Il sole scivolava divertito attraverso i vetri delle grandi finestre, tracciava sulla moquette scura e spessa una grande scacchiera obliqua. Lei la attraversò decisa, calpestando la luminosità, sfondando la penombra senza neanche guardarsi intorno.

    Era vestita di chiaro, pantaloni e camicia. Tutto quel chiarore non ce la faceva a seguire il ritmo del suo passo, si disperdeva in una scia confusa formandole intorno una macchia di inquieto movimento.

    Continuai a sfogliare la lista che avevo davanti, apparentemente assorbito dal controllo giornaliero dell’inventario. Solo quando fu di fronte a me, un attimo prima che scegliesse lo sgabello su cui sedersi, alzai gli occhi e sorrisi: «Buongiorno» mormorai.

    Fece un cenno con la testa. Breve, essenziale. Con un piccolo movimento nervoso si appollaiò sullo sgabello e posò le mani aperte dinnanzi a sé quasi volesse affondarle nella superficie lucida e fredda, quasi si preparasse ad aggredirmi. «Un Sidecar, per favore» disse invece.

    La voce era bassa, ma in fondo vibrava una nota di nervosismo. Le sorrisi ancora, sussurrando un certo, subito che sembrò rilassarla.

    Le mani curate, dalle unghie rosso cupo, non artigliavano più il marmo nero del bancone, adesso tamburellavano impazienti.

    Mentre cercavo una doppia coppetta la sbirciai nello specchio ambrato che avevo di fronte.

    Era bella, verso i quarant’anni, bionda, longilinea. I lineamenti del viso un tempo dovevano essere stati morbidi, perfino arrotondati dalla dolcezza. Ma poi qualcosa era accaduto. Qualcosa aveva prosciugato tutto, scolpendo punte aguzze e sporgenze taglienti. Faceva pensare al letto di un torrente asciutto: macigni disseminati in bilico talvolta improbabile, fanghiglia arida in superficie e screpolata da fessure profonde. Il suo volto raccontava una storia fatta di vicende impietose, scrupoli suicidati, possibili perdite analizzate e, alla fine, volute.

    «Lasci il ghiaccio.»

    L’ordine secco mi fece abbandonare la doppia coppetta per prendere un old fashioned. Annuii senza voltarmi.

    «Ho preso l’abitudine a New York.» Una pausa esasperata. «Al Pierre.»

    Annuii ancora, spremendo il limone e cercando Cognac e Cointreau.

    Le servii il Sidecar con un altro sorriso. Breve, come doveva piacere a lei. Guardò il bicchiere attentamente, con l’espressione corrucciata di chi vuole trovare un difetto a tutti i costi e rimane deluso se non lo scopre.

    Aspettai.

    Lo sollevò fino alle labbra, bevve un piccolo sorso. Non mi guardò. Mentre deglutiva gli occhi chiari, truccati in modo sapiente per mettere in risalto le iridi grigioazzurre, si socchiusero senza abbandonare il riflesso tranquillo dello specchio alle mie spalle.

    Intuii che non sarebbe arrivato nessun commento. Ripresi a guardare i miei fogli. Non c’era nessun altro e la solitudine pacata del mezzogiorno sembrava ritrarsi intimorita di fronte all’insofferenza della mia cliente.

    «Non è mai stato in America?» chiese all’improvviso. La sua voce aveva la sonorità aggressiva di uno schiocco di dita.

    Risposi che anch’io conoscevo New York. Non andai oltre. Non avrebbe comunque ascoltato con interesse la storia stropicciata di un adolescente qualunque, nato sulla riva di un mare qualunque, quello ligure. Il destino dell’adolescente era già deciso fin dalla nascita: per tradizione e per rassegnazione su una nave o in un albergo.

    La storia partiva come un bel foglio di carta da regalo, liscia, luccicante e senza pieghe. Finiva su un molo della Grande Mela, accartocciata di stanchezza e macchiata di solitudine, quando ero sbarcato con gli occhi imbambolati e la curiosità fiduciosa di chi doveva andare avanti perché, tanto, indietro non poteva tornare. Ma era una storia che preferivo ripetere solo a me stesso.

    Approvò con un cenno silenzioso della testa, come se avessi risposto giusto alla sua domanda e bevve un altro sorso.

    Tornai ai miei fogli. Ogni tanto la sbirciavo di sottecchi, sembrava assorta nei riflessi traslucidi del ghiaccio impegnato a sciogliersi lentamente sul fondo del bicchiere.

    Con gesto nervoso si sfiorò un paio di volte un piccolo ricciolo biondo sulla tempia, mettendo in mostra un orecchino in oro e diamanti a forma di dado da gioco. Era un gioiello importante, sembrava il simbolo della sua vita. Forse il regalo sottomesso di chi aveva cercato di amarla e poi se ne era dovuto andare, disperando di domare anche solo una piccola parte di tanta asprezza. Un gioco d’azzardo finito male e congelato nell’incastonatura della sconfitta.

    Finì di bere il suo Sidecar lentamente. Guardò accigliata l’ultimo, tenace cubetto di ghiaccio ormai smussato dall’agonia, quasi disgustata dalla sua mancanza di sapore e colore. Probabilmente era lo stesso sguardo riservato a qualcuno che lavorava per lei e non le piaceva.

    Scese di scatto dallo sgabello, un movimento agile e irritato come quello di un gigantesco insetto impaziente di abbandonare il punto scomodo sul quale si era fermato per un momento.

    «Camera trecentoventidue» disse dedicandomi uno sguardo di azzurro freddo. «E ci metta meno Cointreau, la prossima volta. Era troppo dolce.»

    Si avviò verso l’uscita senza aspettare risposta. Meglio così, se mi avesse dato il tempo di ribattere avrei dovuto morsicarmi la lingua.

    Detesto le persone che osano mettere in discussione il lavoro paziente di ore solitarie trascorse a dosare, annusare, studiare. Per arrivare a sottoporre con umiltà e timore a qualcuno di cui ci si fida – un collega, di solito – l’esito di un esperimento che non si ha ancora l’audacia di definire riuscito. Prima di avere il coraggio di dire a se stessi ecco, ce l’ho fatta, questo è un buon risultato.

    Chissà a quanti, prima di me, aveva ordinato di mettere meno Cointreau. Chissà come avevano reagito di fronte a quella bella, impossibile donna che sfiorava tutto con la leggerezza aggressiva di una foglia di ortica.

    Riattraversò in fretta la scacchiera di luce e ombra e il pulviscolo figlio del sole rimasto a galleggiare nell’aria si scostò intimorito al suo passaggio.

    Verso sera tornò.

    Adesso indossava un abito del medesimo colore delle sue pupille da gatto siamese, un blu chiaro con qualche riflesso argenteo. Addosso a un’altra sarebbe stato delicato e avvolgente; su di lei, invece, era un’armatura dalle maglie impenetrabili.

    Si sedette posando con decisione sul bancone la piccola borsa da sera come un’arma impropria destinata a scoraggiare chiunque si avvicinasse.

    «Sidecar, per favore» disse di nuovo. Congiunse le mani sotto il mento e mi osservò in silenzio mentre preparavo.

    Chiesi se lo voleva ancora con ghiaccio e poco Cointreau. Avevo avuto tutto il tempo per convincermi che per l’ennesima volta certe presunzioni andavano accettate. Questione di professionalità, non di condiscendenza.

    Annuì con un sorriso corto di approvazione. Quando le presentai l’old fashioned mi gratificò con uno sguardo indifferente.

    «New York è una città meravigliosa e impossibile» mormorò sfiorando con le dita il bordo del bicchiere. Mi lanciò un’occhiata inquisitrice, senza bere. Un Torquemada ancora privo di un piano accusatorio preciso ma determinato a trovare qualcosa per cui condannarmi.

    Commentai che aveva ragione e le chiesi se la conosceva bene.

    Prima di rispondere bevve un sorso del cocktail, socchiudendo ancora gli occhi da gatto come aveva fatto la prima volta. Guardai la curva apparentemente delicata della sua gola: di sicuro il Sidecar stava scivolando dentro di lei fra pareti di metallo freddo.

    «Sì» ammise con distacco. «Ci ho vissuto per un po’. Lavoravo.» Lo disse come a puntualizzare che non ci era andata per turismo. «Sono direttore marketing di una multinazionale» spiegò.

    Le chiesi cosa produceva la sua azienda e intanto toglievo con un rettangolino di carta assorbente una minuscola goccia d’acqua vicino al rubinetto.

    «Fashion» rispose agitando appena una mano nell’aria con uno scatto nervoso. «Moda, accessori.» Bevve un altro sorso, in silenzio. Ancora il gesto irritato verso quel povero ricciolo che si ostinava a sfiorarle la tempia con fastidiosa tenerezza. «Lusso, insomma» aggiunse, fissandomi dritta negli occhi.

    Mi stava provocando, ne ero sicuro e non capivo ancora su cosa.

    La domanda rivelatrice arrivò immediata: «Lei non ha mai comprato un oggetto incredibilmente costoso solo per il gusto di possederlo, di esibirlo?».

    Con il mio lavoro non ne avevo molte occasioni, risposi.

    Alzò le spalle, portandosi di nuovo il bicchiere alle labbra. Belle labbra, ritoccate con un rossetto lucido e chiaro e incapace di mascherarne la spietata orizzontalità a lama di coltello.

    «Peccato» commentò con una smorfia. Lo stava dicendo a se stessa, io non c’entravo. Gli occhi di acquamarina scrutavano oltre le mie spalle inseguendo pensieri che andavano chissà dove. «Non sa cosa si perde» riprese.

    Adesso mi guardava davvero giocherellando ancora con le dita sul bordo del bicchiere.

    Stava costruendo un fossato lineare e invisibile intorno a qualcosa che la disturbava, studiandomi per individuare una parte debole, una fessura in cui insinuarsi per catturare ciò che di me la interessava.

    «Il possesso» disse senza smettere di fissarmi «è l’unica strategia per sopravvivere. Se lei possiede, lei domina. Se si lascia possedere... lei è fregato» concluse, bevendo ancora. Un gesto veloce, sigillo imperioso all’editto appena proclamato.

    Annuii e sorrisi. Avevo deciso di non raccogliere il guanto di sfida.

    Il primo duello nel mio mestiere risaliva a molto tempo addietro ed era stato con la vita. O, meglio, con la sopravvivenza.

    Ero giovane, allora, e senza un soldo. Ma volevo comprare il mio primo shaker, la Durlindana per conquistare i sogni di gloria che vedevo passare al galoppo al di là del bancone mentre continuavo a lavare tazzine. Ero appena diventato un cavaliere della bottigliera e tentavo di infilzarli prima di vederli svanire per sempre. La mia veglia d’arme era stata lunga, asceticamente dietetica e costellata di pomodori. Per risparmiare mangiavo pane e pomodori, latte e pomodori, solo pomodori, perché una zia li coltivava nelle serre e me li regalava. Ancora adesso, se qualcuno ordina un succo di pomodoro, rabbrividisco: sento in bocca il sapore aspro e granuloso della povertà, consolata solo dal pensiero del mio shaker. Che alla fine riuscii a comprare e strinsi commosso fra le mani con un’emozione mai più riprovata. E adesso questa signora mi parlava di possesso come se fosse un’insegnante impaziente di concludere la lezione.

    Intanto il Sidecar impallidiva nel ghiaccio disciolto.

    Poi, dopo un cenno breve del capo, se ne andò. Senza finire di bere, senza ripetermi il numero della camera. Agitando appena la piccola borsa a mezz’aria per segnalarmi sarcastica

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