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Rockaway Beach
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E-book250 pagine3 ore

Rockaway Beach

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Info su questo ebook

Rockaway, New York, anni Ottanta. Peg, Alex, Chowderhead e Timmy trascorrono le loro giornate sulla spiaggia, dove alcuni di loro lavorano come bagnini. Fanno baldoria, cavalcano onde, condividono sogni. Il gruppo, però, perde un membro essenziale quando Alex riceve una borsa di studio da un college del New England. Per Timmy, che ha abbondonato il liceo a pochi mesi dal diploma e da sempre è innamorato di Alex, questo è un duro colpo. Per distrarsi e superare l’inverno si fa assumere al minimarket del quartiere e scrive lettere, che poi non invia, al padre che non ha mai conosciuto. Intanto Alex, che a Rockaway non si non si è mai sentita capita, si ambienta nella nuova scuola scoprendo di essere la più «normale» fra i suoi compagni. Le dinamiche antropologiche che studia sui libri di testo le paiono ben più interessanti delle discutibili attività cui assiste nel suo dormitorio e il tedio gradualmente accende in lei la nostalgia di casa. Ma l’estate seguente sulla spiaggia di Rockaway soffia un vento diverso. Il gruppo si trova faccia a faccia con una cruda verità: puoi scappare quanto vuoi, ma non lascerai mai del tutto casa. Crescere è una scelta. C’è la vita. E poi c’è Rockaway Beach. Rockaway Beach, inizialmente composto dall’autrice come tesi di laurea per la Columbia University, fu pubblicato da Knopf nel 1987 e tradotto in sei lingue. Una nuova edizione è stata realizzata da Little, Brown & Co nel 2017.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ago 2018
ISBN9788894833133
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    Anteprima del libro

    Rockaway Beach - Jill Eisenstadt

    LA SERA DEL BALLO

    Lo chauffeur, Russ o Gus, ha la testa pelata e abbronzata, e due crosticine di saliva agli angoli della bocca. Non prova neanche a nascondere il disgusto. «I ragazzi di oggi». Guida come se fosse su una macchinina degli autoscontri giù a Playland e ci stesse facendo un favore enorme. «Portare dei mocciosi viziati in giro per la città, ma pensa un po’». Non ha niente da dire a parte «Quando avevo la vostra età…», «Il mondo è andato a scatafascio» e «Di questo passo sarete fortunati ad arrivare a vent’anni».

    Sui sedili posteriori un groviglio di gambe, braccia e capelli, fiori stropicciati, bottiglie vuote di spumante, erba. Timmy e Alex, Peg e Chowderhead. Ormai Russ o Gus non lo sentono neanche più, discutono su chi potrà tenersi le Polaroid.

    La macchina fotografica in teoria sarebbe della mamma di Chowder, ma le foto le ha fatte Timmy; Alex è l’unica che sta per andarsene al college e in tutti gli scatti c’è Peg, col suo abito viola di chiffon prima e dopo lo strappo, quando le si è impigliato sotto il piede. Si è dimenticata di sollevare l’orlo, è scesa dalla limousine e ci ha camminato sopra. Un movimento fluido, perfetto, che è poi riuscita a replicare nel dettaglio per la macchina fotografica.

    La decisione è resa ancora più difficile dal fatto che a nessuno importa troppo (di tenerle, cioè), ma comunque abbastanza da non lasciar perdere. Raggiungere una soluzione sembra impossibile, finché Russ o Gus non si intromette e consiglia di farne delle copie. Copie?! Ma lei è un genio, grazie, grazie infinite.

    Timmy scatta qualche foto della nuca dello chauffeur, che ormai osserva inconsapevolmente da ore. Ha il collo grasso, sudaticcio, molle. Deborda dal colletto inamidato ma sudicio da fare schifo. Timmy è sicuro che sia lì, nel collo, che si concentra tutta la sfiga del tizio. «Cioè, pensate che roba doverselo portare in giro ogni giorno. Uno zainetto di ciccia».

    Alex lo guarda male. «Parli troppo forte». Peg è intenta a esaminarsi lo strappo nel vestito. Chowderhead dice che sarebbe molto peggio non avercelo, il collo, come Lefty.

    Sfrecciano lungo Cross Bay Boulevard. Russ o Gus approfitta della loro attenzione per lanciarsi nell’ennesimo sermone della serie «Ai miei tempi», come se non ne sentissero già abbastanza dai rispettivi genitori.

    «Ai miei tempi il ballo era in palestra…» Passano davanti a The Pork Store, Tux Town, Pizza City. «Non potevamo mica molestare tutte le ragazze carine che ci capitavano a tiro. C’erano gli accompagnatori». Vanno a una velocità tale che Howard Beach è solo una visione, un odore: l’aria è più fresca, salata. «Sapete per quanto tempo ho risparmiato, in vista del ballo? Sapete quanti pavimenti ho dovuto lavare per comprare un corsage?» Sono a Broad Channel, dove la gente vive praticamente in acqua, sulle palafitte, e dove una volta Peg, durante una lite, se n’è uscita con la celebre minaccia: «Stai zitto o ti affondo la casa».

    «Niente alcol, ai miei tempi eravamo puliti. Non ci facevamo idee sbagliate su…»

    «Spiaggia!» gli ricorda Chowderhead mentre imboccano il ponte per tornare a Rockaway. «Deve lasciarci alla spiaggia». In virtù di questa legge non scritta secondo cui ogni ballo che si rispetti deve terminare con un’alba.

    «Senti un po’, signorino, mi fermo quando mi pare, capito? Almeno a noi hanno insegnato un minimo di rispetto. Sappiamo stare al nostro posto, noialtri». Ora guida da incosciente, è tutto girato verso di loro. Rischiano di finire nella baia con tutta la macchina.

    «Ho capito. Va bene. Le dispiacerebbe lasciarci alla spiaggia, gentile signore? È lì che vorremmo andare, signore». L’effetto comico di quelle parole è amplificato dal faccione piatto e rosa di Chowder. Ogni estate si scotta alla morte dopo soli cinque minuti al sole, ma non gli entra in testa che esistono le creme solari. O forse se ne dimentica. Che volete che sia, dice. Niente, in confronto a quello che devono passare i rossi di capelli.

    Parte un’ondata di risatine nervose. Alex, stretta fra Timmy e Peg, beve vodka direttamente dalla bottiglia, pensa, L’autista sta per avere un esaurimento nervoso. Non riesce neanche a concepire – Ti prego Gesù no – la possibilità di morire prima di aver lasciato Rockaway.

    Fuori il buio è immobile e appiccicoso. Timmy, con la testa e le spalle fuori dal finestrino, vede il Queens brillare in lontananza e, più vicino, moscerini, falene, zanzare che volano verso i lampioni, affamati di luce. Preferisce gli insetti a tutti quei pescatori immusoniti in piedi in fondo al ponte che guardano passare la limousine con la bocca aperta. Com’è che non mollano? Se anche dovessero tirare su qualcosa (improbabile), non sarebbe troppo inquinato da mangiare? Gli insetti sono decisamente meglio anche della Dodge Dart ammaccata di Sloane, che appare all’improvviso dietro la limousine.

    Sloane non c’era, al ballo, ma ha radunato la sua banda – Bean, Artie, Lefty, Louie l’Ebete e naturalmente Schizzo, il suo cagnetto da guardia – e segue quelli usciti dal ballo ovunque vadano, compreso il traghetto per Staten Island, dove poco fa si sono resi ancora più insopportabili del solito con quella stronzata dell’inchiostro che svanisce. Fra parentesi, a quanto pare svanisce meglio su alcuni tessuti che su altri.

    Eppure la loro presenza li infastidisce relativamente, a eccezione di Timmy. Sarà perché ha addosso lo smoking del padre di Alex ed è terrorizzato all’idea di rovinarlo, o magari gli scoccia non diplomarsi dato che anche lui, come i cazzoni che li seguono a bordo della Dodge, ha mollato un anno fa. Senza motivo.

    Nella limousine riecheggia ancora il ritornello «Ai miei tempi». Peg, con la testa bionda, quasi bianca, posata sulle gambe di Chowder, non la smette di blaterare: con chi ce l’abbia, poi, non si sa. Sembra quasi un pezzo rap.

    «Scommetto che ai suoi tempi le ragazze al ballo erano tutte vergini. Scommetto che bevevano punch alla frutta e facevano i compiti prima di prepararsi per andare in chiesa, mangiavano tutto quello che avevano nel piatto e al mattino si spazzolavano cento volte i capelli, e quando davano un bacio alla mamma in camicia da notte non lo facevano tanto per fare, e quando pronunciavano il giuramento alla bandiera e cantavano l’inno e tutte quelle robe lì non lo facevano tanto per fare, sapevano le tabelline a memoria senza bigliettini, anche a rovescio e in francese, spagnolo, italiano, swahili… Alex, e dai, non sbadigliare di già!»

    Alex sorride, anche se ha un po’ di nausea perché è sicura che le siano appena venute, cazzo, e ha il vestito bianco e stava giusto prendendo in considerazione la possibilità di fare sesso con Timmy. Per divertimento, così, in onore dei vecchi tempi.

    Quando ha comprato i biglietti del ballo non sapeva mica che si sarebbero lasciati. Non si aspettava di riuscire a entrare al college, di certo non con una borsa di studio. Il che le conferma quello che ha sempre pensato, ossia mai presumere, o prevedere, perché le cose andranno sempre diversamente. Anche quando quel che doveva succedere succede, ti sembrerà diverso da com’è in realtà. Per esempio Timmy, accanto a lei, con i capelli da pulcino appena nato e le sopracciglia scure, sembra sempre in pigiama, perfino con lo smoking. Non diceva sul serio, quando parlava d’amore. Era solo una cottarella un po’ più elaborata, che in poco tempo si è trasformata in una cottarella nella media, poi così così, poi è diventata un’abitudine e alla fine una zavorra del cazzo. Il vero amore dovrebbe essere semplice. Dovrebbe divampare e semmai raffreddarsi, ma mai e poi mai dissolversi nel nulla.

    Quei pensieri le fanno venire voglia di mordicchiarsi il labbro, ma ha deciso di non farlo più. Di provarci, almeno. La spaventa l’idea che tutto quanto finisca per dividersi tra Prima e Dopo: Prima e Dopo la scuola, Timmy, la sera del ballo. Si possono guardare anche le Polaroid in questo modo: la sera del ballo, Prima e Dopo il tramonto, Prima e Dopo la sbronza, Prima e Dopo le sue cose all’improvviso. Come quelle immagini di gente che ha perso venti chili, ma non si sa perché indossa sempre gli stessi vestiti, prima e dopo.

    A Timmy sta bene che Alex lo fissi, ma non gli piace quella bocca triste che ha. Se solo lei glielo permettesse, saprebbe farla divertire. Ormai si sarà già scordata del loro patto, di farlo a letto, un giorno, come persone adulte. L’hanno fatto solo nella sua doccia, in macchina, in cortile. E ora non lo fanno più.

    Chowderhead dice che sono le quattro e mezza. «È ora di scendere da questo carro funebre». Finalmente il lungomare, sospirano di sollievo, siamo vivi!, si affannano a raccogliere dai sedili e dai tappetini tutto ciò che è ancora ingeribile, mentre Russ o Gus si ferma sul marciapiede per essere sicuro di non passare inosservato.

    Timmy scorge Seaver, il vecchio barbone amico loro, che fa le impennate sull’argine con la sedia a rotelle. Senza una parola saltano tutti giù dalla limousine e gli corrono incontro. Gli parlano tutti insieme, troppa roba da dire, raccontano di Manhattan, di che effetto faceva tutta sbrilluccicante vista dall’alto, dal Time-Life Building, di quando hanno estratto a casaccio il nome di Alicia McHenry come reginetta del ballo e l’hanno trovata collassata all’ingresso, del giro sul traghetto, del bugigattolo dove si gioca a blackjack, e come dimenticare Russ o Gus, l’impavido chauffeur kamikaze.

    Seaver si limita ad annuire. È sopravvissuto ad avventure di cui si può soltanto vociferare, dato che non ha la lingua per raccontarle di persona. Con la sua sedia a rotelle sta al passo della gente che corre e quando gioca a baseball il suo screwball fa paura, e poi ha delle teste di pesce tatuate su tutto un lato del corpo. Chowder prova a fargli vedere le Polaroid ma è troppo buio, Seaver se la cava scuotendo la testa, avvicinandosi le fotografie agli occhi, poi allontanandole, poi avvicinandole di nuovo.

    «Ricevuto» dice Chowder. «Lasciamo perdere il reperto A, passiamo al reperto B», e indica con fare teatrale lo squarcio nella gonna di Peg.

    Seaver allunga il collo, si avvicina con la sedia e infila una mano sotto la stoffa, stringe piano un ginocchio ossuto. Chowder inizia a cantilenare «Accesso libero, accesso libero», e anche lui fa il buffone con il vestito di Peg. Perché è chiaro che Seaver ha voglia di scherzare. Perché Peg con un abito da sera è un evento irripetibile.

    Sulla spiaggia c’è un falò, tutti quelli che erano al ballo hanno deciso di riunirsi lì. E guarda caso, Sloane arriva sgommando con la sua Dodge Dart, scende ululando e gesticolando per farsi seguire dai suoi. Dopo di lui scendono il suo animale, Schizzo (un orribile misto tra labrador e pointer), che abbaia come fosse sotto speed (probabile), e poi Bean, Artie, Lefty, Louie l’Ebete, tutti palesemente a caccia, esaltati alla vista di tanti scolli audaci.

    Timmy giura a se stesso che non permetterà a quei coglioni di interferire, di rovinargli la serata. Adora quel principio di abbronzatura su cui Alex ha lavorato tanto per mettersi il vestito bianco, adora i suoi denti bianchi, le spalle soffici, minute, che gli fanno venire una voglia insopportabile di leccarle. Ora scavalca l’argine, scende sulla sabbia, si china per togliersi le calze, piano piano, oddio santissimo.

    «Ci sei veramente rimasto sotto» commenta Chowder, guardando Timmy che guarda Alex.

    Chowder proprio non capisce.

    Peg è incazzata. Quel Russ o Gus, che è già stato pagato, è ancora lì che li fissa. Si sarebbe detto che non vedesse l’ora di mollarli, a giudicare da come li ha trattati. Che cos’è, una specie di punizione perversa? E per chi, poi, per loro o per lui? Magari ha finito la benza, è annoiato, si è perso, è stanco, è uno psicopatico? Peg non vede nulla di particolarmente affascinante o strano, lì intorno.

    Prova a ignorarlo, si mette a lanciargli conchiglie sul parabrezza e poi, come ultima risorsa, decide di corrergli incontro e fargli la linguaccia. Funziona. Se ne va. Peg si toglie le scarpe e gli va dietro, grida «Arrivederci! Rifacciamolo un giorno di questi! È stato magnifico, davvero fantastico!», mentre pensa che se ci fosse stato suo padre, avrebbe preso il numero di targa e inoltrato un reclamo ufficiale.

    Chowderhead sta facendo un massaggio al collo a Seaver e nel mentre canticchia «Hai baciato un gay» sulle note di «Eyes Without a Face». È famoso per storpiare le canzoni, e iniziano a pensare che lo faccia perché davvero è sordo come una campana, dato che ormai sono anni che va avanti così. Alla scuola cattolica si inventava sempre degli inni blasfemissimi e Louie l’Ebete afferma di averlo beccato a cantare «Stirala dai, Stiraladai», tutto serio, all’epoca in cui è uscita «Stayin’ Alive».

    Peg sussurra a Timmy la nuova cover di Chowder, e lui la riferisce ad Alex, che applaude. Timmy la guarda avvicinarsi per sentire meglio, crede di sapere esattamente ciò che prova mentre si morde il labbro, protesa sul bracciolo della sedia a rotelle. Ce la mette tutta a trattenere una risata ma si vede, traspare su quel viso acceso, impaziente, grande come la sua mano. No, Chowder non può proprio capire.

    «Quand’è che dovrebbe arrivare ’sto sole?» domanda Peg. Si guarda intorno, osserva la spiaggia su cui Seaver dalla passerella non può scendere, a meno che qualcuno non ce lo porti di peso. «Non vi sembra di essere in una rivista, tipo?» chiede, poi si lega una calza intorno alla testa. «Sì, dai, avete presente, sulla sabbia, tutti vestiti bene…»

    Ma no, nessuno ha presente a parte Seaver, che subito lancia un grido stile gatto pestato e assume varie pose. Di classe. Innocente. Sensuale. Spensierato. È uno spettacolo incredibile questo barbone ubriaco, storpio e pazzoide che si atteggia a modello.

    «E a me quando lo fai il massaggio?» chiede Peg. «Ho offerto tutto io, i biglietti del ballo, la mancia all’autista, l’erba, e non faccio neanche la metà dei soldi che fate voialtri». Quelle parole ricordano subito a Timmy e Chowder che nel giro di quattro ore inizia il loro turno alla spiaggia.

    «Buuu buuu» la prende in giro Chowder, perché anche Peg fa la bagnina e guadagna tanto quanto loro. Poi inizia a massaggiarle il collo: è molto più bello, fin troppo familiare; lo accarezza, lo bacia, lo sfiora regolarmente sin dai tempi della scuola cattolica.

    Timmy racconta a Seaver dell’ombrellina che ballava al Peppermint Lounge. Impermeabile di plastica rosso e sotto nulla. Seaver scopre ciò che resta dei denti e gli mostra i pollici alzati.

    «Era orrenda» dice Alex. «Piena di cellulite». Si ricorda che forse le sono venute e costringe Peg a farsi un giro con lei. Si sono allontanate di pochi metri, quando Bean le raggiunge di corsa stuzzicandosi l’orecchio. Si mette a sproloquiare su quella volta che un pappagallino è andato a schiantarsi sulla finestra di camera sua, lui ha detto «Stupido uccello» e si è eccitato pensando al colore verde. Lo mollano lì che ancora chiacchiera da solo.

    Quando riescono a trovare un muricciolo isolato dietro cui fare pipì, all’orizzonte compare una falce di luce, una sottilissima striscia color melone appena oltre Playland. E no, ad Alex non sono venute, ma a Peg sì. Figuriamoci, le vengono sempre prima, secondo Alex perché ha un carattere più forte. Alex vuole chiederle consigli su Timmy, se non sia una stronzata andarci a letto ora che si sono mollati. Però vorrebbe solo sentirsi dire che dovrebbe farlo, perciò non apre bocca.

    «Mi sa che devo fare un salto a casa» dice Peg. «Cazzo».

    Ma Alex le propone di andare a casa sua, è più vicina, e poi non sarebbe male portare Scrapy, il suo cane, a fare un giretto.

    Fanno a gara a chi arriva prima e, siccome Alex sa che Peg è più veloce, compensa andando a sbatterle contro ogni tot metri. Gli abiti lunghi le intralciano. Alla fine, sghignazzando, si arrendono.

    «Shhh» davanti alla porta sul retro. «Papà sarà già sveglio e starà innaffiando le piante, tipo».

    Quando tornano, i ragazzi sono nudi. Sono andati a nuotare. Seaver inizia ad appisolarsi, con lo smoking del padre di Alex a cavallo sullo schienale della sedia.

    «Dove siete state?» in coro, gocciolanti.

    Timmy è dolorosamente consapevole delle poche ore di buio che ancora gli restano. Se non entra in azione subito sarà troppo tardi o, meglio, troppo presto.

    «Vi basti sapere che è arrivato il Marchese» annuncia Peg. «Ehi, idea. Che ne dite di giocare alle statue? Lo facevamo sempre quando aspettavamo il camioncino dei gelati, vi ricordate? Dai, giochiamo». Si butta addosso a Chowderhead e gli fa il solletico finché quello non dice: «Va bene, gioco, ma solo se posso rimanere nudo».

    «Non mi ricordo le regole» fa Timmy.

    «Inventatele».

    «Il vestito» fa Alex. «Mia madre».

    «Toglitelo».

    «C’è ancora birra?»

    «Sì, sì».

    «Bene, allora forza!»

    Ma non è più neanche lontanamente facile come un tempo, saltellare sulla sabbia asciutta con un abito da sera addosso, con tutto quel caldo e senza vederci a un palmo dal naso. Provare a restare immobili come questa o quella statua, quando nelle ultime dieci ore non hai fatto altro che bere: ridicolo. Scrapy ti annusa l’inguine e la punizione per chi si muove sono tre Ave Maria in latino. AveMariagratiaplena. AveMariagratiaplena. AveMariagratiaplena.

    «Non sono un granché a questo gioco» si lamenta Alex, sdraiandosi. «Possiamo per favore fare una pausa, grazie?» Suda, ha un po’ di nausea.

    Timmy lo interpreta come un segnale e se la prende in spalla – «Pausa finita! Pausa finita!» – poi corre via e la fa girare a tutta velocità. L’alba cresce, una chiazza che si allarga, niente di che. La festa intorno al falò imperversa, a sua volta una macchia di colori smorti che prontamente svanisce più Timmy si allontana, correndo con Alex sollevata sopra la testa, e poi su per la passerella fino al capanno dei bagnini, che poi non è altro che una roulotte sgangherata, e infine il crollo. Il povero, vecchio Scrapy, che voleva solo proteggere la sua padrona, a malapena gli sta dietro e ora è una palla di pelo ai piedi di Timmy. E Alex, chissà per quale motivo, ha il fiatone più di tutti.

    Inizia a raccontare da dove viene il nome del cane: dal rumore che fanno le sue unghie sul marciapiede le poche volte che lo portano in giro al guinzaglio. Timmy non ci può

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