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E-book348 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Venerdì 19 maggio, ore 11.56: in un liceo di Bologna scoppia una bomba. Si tratta dell’attentato terroristico più grave della storia italiana, che apre una ferita insanabile nel cuore della città.
Le conseguenze sono terribili.
Solo che l’attentato non è mai avvenuto, e questa storia comincia giovedì 18 maggio.
Ci sono solo 24 ore per evitare che la tragedia si compia.
E per gli Agenti Temporali sta per iniziare la sfida più difficile.

Una corsa contro il tempo, un romanzo dal ritmo serratissimo, costruito come un perfetto ingranaggio, che può essere letto in due modi:
INTRECCIO saltando avanti e indietro nel tempo
FABULA  in ordine cronologico
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2023
ISBN9791254640265
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    Anteprima del libro

    Temporali - Davide Morosinotto

    [01] Venerdì 19 maggio ore 11.56

    Tempo Zero

    Prima scoppia il temporale, poi scoppia la bomba. Già dal mattino le nuvole sopra Bologna si sono fatte scure e la gente uscendo di casa ha infilato nella borsa l’ombrello o uno di quegli impermeabili trasparenti che fanno sembrare le persone dei sacchi della spazzatura con le gambe.

    Molti hanno rinunciato a prendere lo scooter per spostarsi in automobile, per questo verso l’ora di pranzo i viali si riempiono di un serpentone compatto di macchine.

    Quando scatta il verde all’altezza di Porta San Mamolo, le auto dirette a ovest accelerano con un ruggito, frenano per evitare l’autovelox cento metri più avanti, accelerano ancora.

    Alle prime gocce di pioggia partono i tergicristalli, su e giù, su e giù, ma le auto infilano lo stesso il semaforo successivo a tutta velocità.

    Da qualche parte sulle colline cade un fulmine.

    Il cielo brilla e si sente un tuono, come uno sparo, poi la pioggia viene giù fortissima, cancella tutto sotto una cascata d’acqua grossa e tiepida.

    Davanti a quell’iradiddio qualche automobile frena ma le altre suonano il clacson e sorpassano a destra e sinistra per non perdere i semafori successivi, che sono tutti verdi.

    La colonna sfila davanti a Porta Saragozza, affronta la curva a gomito del viale, ed è allora che il palazzo del liceo D’Arturo-Horn salta in aria.

    La lapide di marmo che si trova sopra la facciata, e che dice a grandi lettere: LICEO D’ARTURO-HORN, si stacca e vola via come un frisbee, attraversa il viale e si pianta davanti al furgoncino di un ferramenta, che prova a frenare ma non ci riesce e ci si schianta contro.

    Mattoni e schegge di vetro schizzano ovunque come proiettili fracassandosi sulle macchine, i camion, il vecchio ospedale pediatrico di via Ortis, i motorini parcheggiati.

    Si sente un rombo, molto più forte del tuono di prima, centinaia di volte più forte, e il palazzo del liceo viene giù travolgendo tutto con la grandiosità inevitabile di una tragedia.

    Lo schianto è accompagnato da una nebbia densa, rossa di mattoni sbriciolati, che divora ogni cosa.

    Il caos scende sopra la città.

    Continua a piovere.

    [02] Venerdì 19 maggio ore 12.14

    18 minuti

    dopo il Tempo Zero

    Il Centro di Comando e Controllo della 26esima brigata aerea si trova 36 chilometri a nord-est di Praga, vicino al villaggio di Starà Boleslav.

    Michela Falco ci arriva dopo aver collezionato una lunga serie di semafori rossi bruciati e autovelox ignorati. Poco male: la targa della sua moto è registrata nei computer governativi e lei sa già che ogni multa verrà magicamente cancellata.

    A vent’anni non ancora compiuti, quell’idea la eccita. La fa sentire diversa da tutti gli altri. Speciale.

    La Honda CB650R di Michela è rossa come un cuore che batte. La ragazza si appende al manubrio ed esce dall’autostrada a oltre ottanta all’ora, poi si raddrizza infilando lo stradone.

    La base si trova proprio in fondo, annunciata da un vecchio aereo MiG 21 che qualcuno ha messo su un piedistallo in ricordo dei tempi della cortina di ferro. Ogni volta che lo guarda, Michela si chiede come sarebbe volare contro uno di quei cosi, in combattimento. Anche suo padre è stato un pilota militare e vent’anni fa portava i Tornado, in Italia, anzi deve chiedergli se gli è mai successo di incontrare un MiG, la prossima volta che lo sente. È per seguire le sue orme che Michela è entrata in Accademia a diciassette anni, la più giovane del suo corso. Sognava di mettere le ali. Invece il destino ha scelto diversamente e ora si trova lì, davanti alla sbarra d’accesso della base.

    Un soldato spunta dalla garitta, la guarda, guarda la moto. «Niente male. Quanto fa?»

    Michela taglia corto:

    «Ho un codice settemilacinque».

    Tira fuori il portafogli da una tasca del giubbotto di pelle e mostra il tesserino. La scheda plastificata ha una sua piccola foto, il nome completo (Michela Greta Falco) e il codice NATO del suo grado (OF-1b: sottotenente).

    Più in basso c’è un codice a barre e la scritta Budova č. 42. Edificio numero 42.

    Non appena vede la scritta il soldato aziona il comando della sbarra e Michela riparte.

    All’interno della base c’è il limite di velocità dei trenta all’ora, lei sarebbe autorizzata a superarlo ma sa che la Comandante non ama attirare l’attenzione quindi si muove piano, sfilando in seconda fra i casermoni del Centro.

    Il 42 si trova proprio in fondo. Visto da fuori assomiglia a un magazzino, o a un hangar ad arco, con le pareti di metallo.

    È circondato da un recinto di filo spinato e c’è un’altra garitta a sorvegliare il cancello.

    Michela tira fuori di nuovo il tesserino, questa volta il soldato scansiona il codice a barre con un lettore ottico e le chiede di togliersi il casco per controllare anche la foto.

    Solo quando ha finito, lei può superare l’ingresso e parcheggiare nello spiazzo interno, tra il filo spinato e l’edificio.

    Non ha ancora fatto in tempo a mettere la moto sul cavalletto che un kart elettrico esce dal magazzino e punta dritto su di lei.

    Al volante c’è una giovane donna in uniforme di qualche anno più grande di Michela, con i gradi di tenente sulla spalla.

    «Michela!»

    Il kart fa una curva stretta e si ferma proprio accanto a lei. La donna le fa cenno di salire.

    «Diana» la saluta Michela. «Mi fai da autista, oggi?»

    «Mi sono offerta volontaria appena ho saputo che stavi venendo qui, nel tuo giorno libero».

    Michela e Diana sono le uniche due italiane del 42 e quando sono insieme parlano sempre nella loro lingua, è più spontaneo, e più intimo anche.

    «Mi sono svegliata tardissimo oggi, stavo facendo colazione» spiega Michela. «Anzi, scusa ma mi sa che a casa ho lasciato un casino, ho mollato lì tutto e sono corsa via».

    Diana alza le spalle, per dire che non importa.

    «Sistemo io quando finisco, intanto che ti aspetto.

    Sarà una cosa lunga?»

    Adesso è Michela che alza le spalle. Chi può saperlo. «Ho un settemilacinque» spiega.

    Vorrebbe dirle qualcosa di più ma non è autorizzata e Diana lo sa, infatti si affretta a cambiare argomento. «Occhio che stamattina è arrivato il nuovo Secondo della tua squadra».

    «Il sostituto di Carla?»

    «Proprio così. Da Washington, addirittura. Maggiore Harry Coleman».

    «E che tipo è?»

    «Un duro. Lavorava nella squadra del generale Robertson e la faceva funzionare come un orologio». Michela conosce Robertson di fama. Al 42 è, più o meno, una leggenda.

    «Quindi sarà in gamba».

    «Sì… Credo».

    Mentre parlano, Diana guida veloce, infilando l’entrata del magazzino. Che assomiglia a un qualunque magazzino militare d’Europa: un labirinto ordinatissimo e incomprensibile di casse tutte uguali fra cui schizzano muletti e piccoli kart come il loro. Diana saprebbe orientarsi in quel posto anche bendata, e sterza in continue scorciatoie ignorando le strisce colorate sul pavimento che disegnano i percorsi ufficiali.

    A un’estremità del magazzino è stata ricavata una struttura prefabbricata che ospita alcuni uffici.

    Le due ragazze lasciano il kart davanti alla porta ed entrano, componendo ciascuna un codice di sedici cifre su un tastierino.

    «Se torni presto» dice Diana, «stasera potremmo provare quel ristorantino nuovo, sai quello che hanno aperto dietro casa, dopo il supermercato…»

    «Speriamo» dice Michela.

    La verità è che non sa se riuscirà a essere a casa per cena, e in quel momento la sua attenzione comincia già a concentrarsi sul lavoro che la aspetta. Diana è, più che altro, un mormorio di sottofondo, e questo la fa sentire un po’ in colpa.

    Anche se lavorano entrambe al 42, Diana è soltanto un’amministrativa. E quel soltanto fa tutta la differenza del mondo, è come un muro che a volte Michela non riesce proprio a superare.

    Perché Diana è costretta a stare sempre dall’altra parte.

    Lei non sa.

    Camminano svelte lungo un corridoio illuminato dai neon, svoltano prima a destra e poi a sinistra, infine si fermano davanti all’ennesima porta chiusa da un tastierino.

    Michela conosce il codice d’accesso. Diana no. «Eccoci qua» dice Diana. «Io torno alla mia scrivania. Molte email emozionanti da mandare, oggi».

    Sorride, anche Michela si sforza di sorridere.

    «In bocca al lupo» dice Diana.

    «Crepi».

    La donna fa un piccolo movimento verso Michela, come per baciarla, ma si trattiene. Il corridoio è controllato da telecamere e preferisce che quelli di sorveglianza non si godano lo spettacolo.

    Diana si volta e trotta via per il corridoio da cui sono arrivate, Michela invece inserisce il codice e supera la porta blindata.

    Al di là si trova una piccola stanza quadrata e vuota, dove un soldato armato di mitra sta in piedi facendo la guardia all’ingresso di un ascensore.

    «Michela. Oggi non era il tuo giorno libero?»

    «Ciao Nick… Eh. A quanto pare, hanno bisogno lo stesso».

    Porge il suo tesserino al soldato, che lo scansiona con un lettore.

    L’apparecchio brilla di rosso ed emette un suono gracchiante.

    Nick prova una seconda volta e adesso l’apparecchio trilla di approvazione, l’ascensore alle sue spalle si apre.

    «Mi sa che si è rovinato, non dovresti tenerlo nel portafogli. Fattelo sistemare da qualcuno degli uffici oppure la prossima volta rischi di non entrare».

    Michela promette che lo farà, saluta ed entra da sola nell’ascensore.

    Appoggia entrambe le mani sulla parete liscia, poi fa la stessa cosa con la fronte tenendo gli occhi bene aperti perché i sensori possano leggerle la retina.

    «Sottotenente Michela Falco» dice. «Agente».

    Una voce metallica risponde:

    «Ingresso autorizzato».

    Il pavimento sprofonda sotto i suoi piedi mentre l’ascensore inizia a scendere.

    Quando si ferma, la ragazza si ritrova all’equivalente di quattro piani sottoterra. La parete scivola di lato rivelando un corridoio senza finestre illuminato da accecanti luci al neon.

    Una donna la aspetta immobile a un passo dalla porta. Ha cinquant’anni, i capelli scuri raccolti in uno chignon dall’aria severa, tiene un tablet sotto il braccio e indossa una tuta mimetica nera senza gradi né segni di riconoscimento.

    È la generale a una stella Émilie Gillet, la Comandante della squadra, e non porta i gradi perché, quando la squadra si trova in missione, la squadra viene prima di tutto il resto.

    «Michela» la saluta, parlando inglese con un leggero accento francese. «Sei in ritardo. Il Secondo è già venuto da me per sollevare un richiamo ufficiale». Michela ricorda i pettegolezzi di Diana, poco prima. «Ho saputo che lavorava con Robertson… È un tipo così duro?»

    «Rigido, più che altro».

    «Ed entrerà nella bolla insieme noi?» domanda Michela.

    «Te l’ho detto, è il nuovo Secondo. E siamo nel mezzo di una faccenda molto seria».

    Michela non si preoccupa. Al 42 si lavora soltanto su faccende molto serie.

    Si avviano insieme lungo il corridoio, intanto la Comandante le passa il tablet per farle dare un’occhiata al dossier.

    «Una bomba? In una scuola italiana?»

    «Un attentato terroristico, forse… Non sappiamo ancora, è successo meno di mezz’ora fa. Ma di sicuro un liceo è saltato in aria. A Bologna. Liceo D’Arturo-Horn. Mai sentito nominare?»

    Michela risponde di no.

    «La bomba è scoppiata alle 11.56» continua la Comandante. «La scuola è venuta giù e l’esplosione ha provocato incidenti a catena in mezza città… Stiamo ancora ricevendo i dati».

    Michela mette via il tablet. «Quando entro in azione?»

    «Tra pochissimo. Data e l’Analista hanno già trovato un punto d’ingresso, perciò vatti a cambiare e poi presentati al brief. Si entra in bolla tra cinque minuti».

    Michela guarda lo smartwatch che ha al polso: non appena è entrata nel Budova č. 42, il suo telefono cellulare è stato disattivato e l’orologio si è collegato in automatico ai server di missione. Adesso al posto dell’orario visualizza un cronometro che continua a correre.

    Tempo, pensa Michela. È sempre tutta una questione di tempo, e lei dovrà farselo bastare. Come sempre. Arrivano a una porta corazzata dipinta di viola, la Comandante appoggia la mano sulla serratura e quella si apre, entrano.

    La porta si richiude alle loro spalle con uno scatto metallico.

    [03]Giovedì 18 maggio ore 13.24

    22 ore e 32 minuti

    prima del Tempo Zero

    La vita di Ron Senai cambia per sempre alla fine della quinta ora. Quando succede, lui si trova sdraiato a pancia in su sopra un banco di scuola, con le gambe che strisciano contro il pavimento e un coltello puntato alla gola.

    Il coltello è un semplice Opinel numero 8 con la lama pieghevole e il manico di legno di faggio.

    A tenerlo appoggiato alla gola di Ron, troppo piano per ferirlo ma abbastanza per tendere la pelle del collo, abbastanza da farglielo sentire, c’è un suo compagno di classe. Enrico Neri.

    Anche Enrico ha sedici anni, come Ron, ma a parte questo, e il fatto che frequentano la stessa classe, i due non potrebbero essere più diversi.

    Ron è un ragazzo molto alto, supera il metro e novanta, così magro che sembra fatto di stecchini, ha la pelle ambrata e i capelli riccissimi.

    Enrico invece non è alto ma è forte, il fisico scolpito da sport e palestra, capelli lunghi biondi e lineamenti da giovane angelo.

    Se Ron viene da una famiglia normale, non certo povera ma di sicuro neanche ricca, Enrico è figlio di un milionario e ha alle spalle tutta una vita dorata fatta di vacanze-studio all’estero, corsi di vela ed equitazione.

    Anche per questo, a Ron Enrico è sempre stato un po’ sul culo. E anche per questo, quel giorno se l’è andata a cercare e adesso si ritrova lì, sdraiato su un banco, in una classe svuotata e con un coltello che gli carezza il mento.

    Come ho fatto a mettermi in questa situazione pensa Ron, e si risponde che è successo tutto un po’ per volta. Una serie di piccoli eventi che si sono fatti via via più grandi finché è stato impossibile tirarsi indietro.

    In pratica, alla quinta ora c’era latino, una materia che Ron odia, tanto più che quel giorno la prof aveva deciso di interrogare a sorpresa.

    Mentre decideva chi chiamare, nel silenzio religioso dell’aula si è sentito il trillo inconfondibile di un messaggio che arriva su un cellulare.

    La Santini, che è una donnina anziana, grigia, inquietante, che parla sempre sottovoce e può fermarti il cuore con un’occhiata, bene, la Santini ha alzato la testa dal registro e ha detto:

    «Signor Senai, non dovrebbe spegnere il cellulare, finché siamo in classe?»

    Ron ha provato a protestare che lui non c’entrava, che il cellulare ce l’aveva in modalità aereo eccetera, ma la Santini gli ha rivolto un sorriso da rettile e ha detto:

    «Va bene. Comunque, già che ci siamo, venga qui lei per l’interrogazione».

    Ne sono seguiti trentacinque minuti di lacrime e sangue, conclusi con un’insufficienza. E visto che sono alla fine dell’anno, questo significa che gli toccherà studiare come un matto e offrirsi volontario la settimana prossima per recuperare prima degli scrutini, il che non gli piace per niente.

    Così appena è tornato al posto Ron ha iniziato a domandarsi: Chi è lo stronzo che ha tenuto il cel acceso e non ha avuto il coraggio di farsi avanti? La risposta gliel’ha sussurrata all’orecchio il suo amico Gimbo: il traditore è stato Enrico Neri dell’ultimo banco. Enrico, che fino all’anno prima era il migliore della classe, un mezzo genio quasi, invece adesso che sono in terza rischia di farsi bocciare. Casini in famiglia, dice sempre il Gimbo, il padre è un imprenditore edile che fabbrica ponti e autostrade in mezza Europa ma è stato coinvolto in uno scandalo e insomma le cose non gli vanno più tanto bene. Solo che a Ron non frega niente di quella storia, ognuno c’ha i casini suoi, il quattro in latino di oggi è colpa di Enrico e quando fai il liceo devi imparare a farti rispettare.

    Così dopo la campanella Ron ha aspettato il compagno, gli ha detto «stronzo» e l’altro niente, freddissimo, come se lui non esistesse nemmeno.

    Al che Ron si è fatto prendere un po’ la mano, perché a parte l’interrogazione non sopporta di essere ignorato a quel modo, come se Enrico fosse troppo superiore anche solo per rivolgergli la parola. Insomma Ron gli ha messo le mani addosso, lo ha strattonato e lo ha sbattuto contro un muro, solo per fargli vedere chi comanda, più o meno.

    Enrico è rimasto lì senza difendersi, senza fare una piega, solo che a un certo punto gli sono caduti dalle tasche un coltellino e il cellulare. Che è un iPhone ultimo modello top di gamma. È caduto a terra di taglio, senza cover né vetro protettivo né niente, e ha fatto un rumore come di un osso che si spezza. A quel punto Enrico l’ha raccolto e poi è andato via di testa, si è come acceso, da zero a cento in un secondo, ha attaccato Ron a testa bassa e l’ha rovesciato sul banco e gli ha puntato la lama del coltello contro la gola.

    E ora pensa Ron, ora come me la cavo?

    «Ti squarto come un agnello a Pasqua».

    La voce tranquilla con cui Enrico mormora queste parole gli manda un brivido ghiacciato fino alle palle.

    Piega gli occhi verso il basso per cercare di guardare il coltello, quella lama affilatissima progettata per lavorare il legno o roba del genere, non per sgozzare uno come lui, liceale di terza che sta già sognando le vacanze.

    Vorrebbe dire qualcosa ma non sa che cosa, e l’altro continua a fissarlo come se fosse già morto e Ron ha tanta paura che rischia di farsela addosso, lo sa, lo sente.

    Aiuto aiuto pensa, aiuto aiuto aiuto…

    «Ehi ragazzi, è qui la quinta D?»

    La frase è così assurda, così fuori posto, che Ron per un momento non è nemmeno sicuro di averla sentita davvero.

    Volta la testa per vedere chi ha parlato, e si accorge che sulla soglia dell’aula è spuntata una ragazza, un po’ più grande di lui, un paio d’anni forse, e non l’ha mai vista prima a scuola altrimenti di sicuro se la ricorderebbe. È parecchio atletica, la maglietta corta lascia intravedere una tartaruga di addominali, le braccia sono muscolose, le spalle tendono la stoffa.

    Ha un seno piccolo ma rotondo, i capelli tagliati corti mettono in evidenza la testa perfetta, e gli occhi sono grandi, così chiari che sembrano vetro, la bocca piena; è su quella bocca che si pianta l’attenzione di Ron, un uomo potrebbe perdere l’anima per una bocca così, per sentirne il sapore dolcissimo…

    Ed è tanto distratto da quel vortice che gli si sta rovesciando addosso che per un momento non si accorge nemmeno che Enrico ha lasciato la presa e ha nascosto il coltello dietro la schiena.

    Sono libero pensa Ron, così riprende fiato e si mette a sedere sul banco dove fino a un attimo prima stava sdraiato ventre all’aria come una cimice.

    Si porta le mani alla gola, poi le guarda, niente sangue, è ancora vivo, torna a guardare la ragazza, che non è stupida, ha capito cosa stava succedendo lì, ha visto il coltello probabilmente, e se ne sta ferma sulla porta.

    «Cerchi… la quinta D?» domanda Ron.

    Lei annuisce.

    «Non è qui. Sta… al piano di sotto. Se vuoi ti accompagno».

    La ragazza non risponde, continua a guardarlo e basta, ma anche quel silenzio a Ron sembra una risposta, e comunque quella è la sua occasione di tagliare la corda, di scappare da Enrico e dal suo coltello eccetera, perciò recupera lo zaino, che in tutto quel casino è caduto per terra, e se lo mette in spalla.

    Lancia un’occhiata di traverso a Enrico, che pare stupito almeno quanto lui, attraversa con due falcate l’aula deserta, sorride alla ragazza che in sostanza gli ha appena salvato la vita, le sfiora un braccio per invitarla a uscire dall’aula.

    Appena la sua mano incontra la pelle di lei, la ragazza ha un tremito, come se avesse preso la scossa, e anche Ron sente quella scossa. Non gli è mai successo, prima, ne ha solo sentito parlare: nei romanzi, nei film. È una tensione speciale che gli fa dire: Devo conoscerla. Devo sapere tutto di lei. Si avviano insieme lungo il corridoio fino alle scale, e Ron vorrebbe chiederle come si chiama, se è nuova, se si è trasferita da poco in città e frequenterà il loro liceo, cose del genere, ma la verità è che non gli escono le parole, e solo quando arrivano davanti alla quinta D, deserta a quell’ora, Ron indica la porta e dice:

    «Eccoci qua». Poi si fa coraggio e aggiunge: «Come ti chiami?»

    La ragazza gli fa un sorriso che è piccolo ma caldissimo come una stella ardente.

    Poi si infila nell’aula, e non risponde.

    [04] Venerdì 19 maggio ore 13.36

    1 ora e 40 minuti

    dopo il Tempo Zero

    Lo smartwatch di Michela indica che sono passati un’ora e quaranta minuti dal Tempo Zero.

    Sono cento minuti, ovvero seimila secondi.

    «Sei… mila… se… condi…» sussurra. «Sei… mila…»

    Continua a battere i denti e non le esce la voce, tutt’intorno l’acqua della doccia scroscia caldissima ma va bene così, lava via il sangue e il liquido rosso le ruscella giù per il collo, il seno, la schiena, la pancia, scende tra le gambe e si raccoglie in una pozza scarlatta ai suoi piedi prima di finire giù dallo scarico.

    Così tanto sangue, pensa Michela. Chissà cosa direbbe Diana se lo vedesse, se sapesse cosa fa davvero lei quando scende sottoterra con l’ascensore di massima sicurezza.

    Michela si immagina che lassù, negli uffici del 42, gli amministrativi come Diana parlino spesso delle squadre, e si chiedano in cosa consistano le loro missioni.

    Di sicuro non immaginano il sangue. E il dolore

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