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Un cadavere di nome Eloise
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E-book240 pagine2 ore

Un cadavere di nome Eloise

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Info su questo ebook

Cervelas, un uomo saggio e innamorato, perde improvvisamente la ragazza che ama per colpa di un serial killer. Il movente è l’egoismo, la storia scorre in un’indagine fatta di intrighi e avvenimenti a volte rocamboleschi e surreali. Si può dire che l’autore è un addetto ai lavori, quindi narra le indagini con cognizione di causa e ci mette un po’ di fantasia quando spazia nelle sue passioni. Porta con sé la conoscenza del mondo egizio e di quel mondo parallelo che tutti ne parlano, ma sembra essere leggenda.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2023
ISBN9788894436792
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    Anteprima del libro

    Un cadavere di nome Eloise - ALESSANDRO CABRAS

    Un cadavere di nome Eloise

    di Alessandro Cabras

    Ogni riferimento a persone esistenti e a fatti realmente

    accaduti è puramente casuale

    © 2023 Espressioni di Marca Aperta

    MF Soluzioni Aziendali di Mario Luigi Fontana

    ISBN 978-88-944367-9-2

    Alessandro Cabras

    Un cadavere

    di nome Eloise

    Capitolo Uno

    Le nubi che sul far della sera si addensavano nel cielo, nel dipingersi di scuro abbandonavano lo stupefacente candore, che istanti prima ne faceva un tutt’uno con la neve delle alture cui si affacciavano. Mentre il trambusto dei tuoni, spezzava l’armonia dell’orizzonte, repentinamente tramutatosi da limpido e silente, a tenebroso e rumoreggiante. Bizzarrie climatiche tipiche del finire della stagione estiva.

    Guglielmo, assisteva a quel turbolento tramonto dalla finestra della cucina di casa; una struttura datata, le cui mura racchiudevano ed a stento trattenevano, il dolore degli anni passati.

    Ascoltava quasi deferente, il sibilare dei vortici d’aria, che con violenza si scagliavano contro le ante delle finestre che, a ritmo quasi cadenzato, percuotevano le mura a cui aderivano.

    Dalla stanza accanto, un suono di pantofole trascinate a terra, come fossero tronchi pesanti.

    Ciabatte nuove, ma che portavano il peso di una vita condita di speranze disattese, ed inumidita da quel sapore acre, che solo le lacrime di sofferenza portano con sé.

    Era Giovanna, leggera nei suoi cinquanta chilogrammi, i capelli precocemente privati del loro colore, per dare spazio a quello del tempo. Il volto segnato da rughe profonde, ove si riconosceva la sofferenza che, imperitura si tatua sui volti di chi inesorabilmente vede svanire tutti i propri sogni. Partorì in età avanzata ma quella funesta notte d’estate, all’approssimarsi del lieto evento, un male tanto improvviso quanto inaspettato, la privò del marito.

    I medici avanzarono l’ipotesi che il dolore del lutto, fu tale da aver compromesso la gravidanza, così minando l’armonico sviluppo del nascituro.

    Guglielmo aveva appena compiuto ventuno anni. Era un ragazzo un po’ diverso dagli altri, a causa di un ritardo nello sviluppo cognitivo, le cui origini non erano comunque mai state del tutto chiarite. Non superava il metro e trenta di statura, pochi capelli, la fronte ampia, gli occhi scurissimi, e due gambe esili come fili d’erba, sorrette da piedi smisurati, che mal si addicevano al resto della corporatura che, non aveva voluto svilupparsi. Durante ogni stagione dell’anno, portava sul capo un obsoleto berretto della Polizia, dono di un amico ispettore e indossava perennemente un giubbotto nero, pantaloni dello stesso colore, e due scarponi che spiccavano vistosamente sul resto del corpo.

    Trascorreva il tempo osservando lo scorrere del traffico, sempre intenso in quel tratto di strada, non abbandonando mai un’asta in legno, che nel suo immaginario, altro non era che la paletta in uso alle Forze dell’Ordine, con la quale era convinto di poter dominare il flusso inarrestabile dei veicoli.

    In paese, a Spresiano, un piccolo centro del trevigiano, tutti lo adoravano. I compaesani che nell’incrociarlo, erano soliti mimare il saluto militare, iniziarono ad apostrofarlo con il soprannome di piccolo sbirro.

    Quella sera turbinosa, pareva che il vento volesse prendere il sopravvento sulla pioggia, scesa d’improvviso. Ciononostante, il piccolo sbirro in una sorta di sfida alla natura, s’impose il turno notturno. Giovanna stava cercando in ogni modo di dissuaderlo. Ma, per lui il dovere veniva prima di tutto e incurante di ogni esortazione, dopo aver trangugiato una tazza ricolma di caffè, si diresse verso l’uscita di casa.

    Piove a dirotto! La mamma stanotte non dormirà tranquilla nel saperti fuori casa, ribadì sconsolata la donna.

    Debbo servire la Patria. Sono un poliziotto, non più un bambino, rispose il ragazzo con determinazione.

    Raggiunto l’esterno delle mura domestiche, la pioggia resa ancor più violenta dal vento, non gli impedì di percorrere i tre chilometri che lo separavano dall’angolo di strada prediletto: l’inizio del ponte che sovrasta il Piave, nella quasi omonima località di Ponte della Priula.

    Circolavano pochissime autovetture, alle quali instancabilmente intimava di moderare la velocità, con impercettibili se non invisibili movimenti. Molti ritenevano che un misterioso angelo, con il suo invisibile scudo, lo avesse sempre protetto dalle autovetture che gli sfrecciavano accanto.

    Difatti quando calava l’oscurità, quell’omino incessantemente vestito di scuro, diveniva praticamente un tutt’uno con le tenebre.

    A suo sostenere, era il miglior modo per non farsi scorgere da quelli che definiva i brutti, cioè i delinquenti. Malgrado le condizioni atmosferiche fossero peggiori di quanto si fosse prefigurato, Guglielmo non volle desistere, sorretto dalla convinzione che i criminali non si sarebbero mai fatti intimorire dal maltempo, tantomeno avrebbe dovuto farlo un buon agente di polizia.

    Trascorsa quasi un’ora, il giovanotto, era sempre più intento a combattere la sua impari battaglia contro la natura.

    Non faceva altro che continuare a chinarsi pazientemente a terra, per risistemare gli svariati modellini delle auto della Polizia di cui perennemente si attorniava e, che il vento alitando senza sosta, instancabilmente proiettava alla rinfusa sul manto stradale, oramai ricolmo d’acqua piovana.

    D’improvviso riecheggiarono delle voci, sembravano provenire dalla zona sottostante: l’area campestre limitrofa al fiume Piave. Dapprima lontane e difficilmente percettibili, si trasformarono distintamente in grida di aiuto, prolungandosi per pochi minuti, per poi drasticamente esaurirsi, lasciando spazio ad un tetro silenzio.

    Sono un poliziotto, resisti! - disse utilizzando tutto l’impeto canoro di cui disponeva.

    Il giovane si affacciò, nel tentativo di individuare con esattezza la zona da cui giungeva quell’accorata richiesta di soccorso. Ma l’oscurità pareva aver eretto un’impenetrabile barriera tra il ponte ed il letto del fiume.

    Sto arrivando! - urlò Guglielmo con tono risoluto, servendosi di tutta l’energia rimastagli nelle corde vocali.

    Il vento e l’imperversare del temporale, avevano assorbito quelle flebili parole. Tuttavia il piccolo sbirro non esitò. Era consapevole che per la prima volta nella vita, avrebbe potuto comportarsi alla pari degli eroi delle decine di serie televisive con cui era cresciuto.

    Il ragazzo s’incamminò lungo una stradina scoscesa, che dall’arteria principale conduce direttamente al fiume, percorrendola con passo incerto e timoroso. La discesa era ardua e il percorso ostacolato dal fango e dalle pietre.

    La mamma questa volta sarà fiera e orgogliosa di me, si ripeteva mentre affrontava a carponi l’impervio sentiero.

    Si fece strada, seguitando caparbiamente a tentoni, poggiando cautamente al suolo la mano destra, seguita da quella sinistra, come un felino che guardingo si avvicina alla preda.

    Il buio dominava incontrastato, saltuariamente interrotto da qualche lampo, mentre il fruscio assordante della pioggia, veniva a tratti spezzato dal trambusto dei rombi.

    Guglielmo aveva acuito l’udito al massimo delle sue funzioni. Ogni mormorio della natura ne catturava l’attenzione. Era oramai riuscito a conquistare oltre la metà del tragitto, che lo divideva dagli argini del Piave, in procinto di tracimare da un momento all’altro. A d’un tratto, come d’improvviso, le sue membra si arrestarono, colte da una paralisi che pareva impedirgli ogni movimento. In quel frangente se avesse potuto, avrebbe arrestato il cuore, nella speranza che nessuno potesse avvertirne il battito fattosi frenetico.

    Non si sarebbe mai aspettato di essere sopraffatto da quella forma di terrore, cieca e devastante: un buon agente non deve aver paura, si ripeteva nell’inutile tentativo di darsi coraggio.

    Avvertiva sempre più l’incombere dei passi di un oscuro figuro che, con lento ma cadenzato incedere, si stava avvicinando.

    Un impermeabile scuro ed un ampio cappello calato sino al mento, coprivano buona parte della fisionomia dello sconosciuto che guadagnava progressivamente terreno. Guglielmo, i cui movimenti maldestri erano stati fortunatamente coperti dal rumoreggiare della pioggia, si avvinghiò ad un enorme tronco che, in quel momento rappresentava l’unico nascondiglio offertogli dalla natura.

    Nel frattempo il sinistro personaggio, avanzava imperterrito in quella stessa direzione.

    Il piccolo sbirro oramai alla completa mercé del panico, lasciò la presa dell’albero per immergersi nella fanghiglia che occupava una cavità del terreno e gli servì come improvvisato rifugio, che gli consentì non solo di mimetizzarsi, ma anche di raccogliere ed attutire il respiro sempre più affannoso.

    Chi si avvicinava pareva essere parte dell’oscurità. Procedeva con passo quasi scandito, come volesse seguire un immaginario ma immutabile ritmo musicale. Lo accompagnava una voce rauca, cupa, a tratti tenebrosa, che ossessivamente pronunciava la stessa frase, seppur marcandone i termini, con il variare continuo del tono e timbro vocale: "Questa sera la pioggia aiuta la mia missione".

    Non riesco a muovermi, voglio alzarmi!  Lo shock aveva praticamente immobilizzato le membra del poveretto che, oltre alla paura stava provando una vergogna devastante.

    Sapeva che un vero poliziotto non avrebbe mai agito in quel modo. E, non riuscì mai a perdonarsi di non essersi comportato come tale.

    Devo raggiungere la Pontebbana, in questa zona i trasmettitori non funzionano. La Centrale Operativa deve subito essere informata, pensava angosciato. In realtà rimase in quella posizione ancora a lungo.

    Lo fece per ore, fino a quando una flebile ventata di coraggio, gli diede la forza di uscire da quel riparo, per affrontare la ripida salita che lo divideva dalla strada statale. Mai così sospirata.

    L’acqua stava trascinando in quel viottolo pietre, rami e detriti che il malcapitato riusciva solo sporadicamente ad evitare.

    Malgrado ciò, avanzò imperturbabile, solo a tratti arrestandosi per riprendere minimamente fiato ed energia, entrambi messi alla dura prova. Sento il rombo dei motori. Ce l’ho fatta!

    Dopo avere ottenuto faticosamente altri metri, emise un profondo sospiro di sollievo nello scorgere innanzi a sé il ciglio della SS 13.

    Centrale, dovete catturare un brutto!  Asserì ripetutamente con la voce, a tratti tremula.

    In realtà colloquiava con una vetusta cornetta del telefono, da sempre occultata all’interno del giubbotto, che ovviamente non gli offriva alcuna effettiva possibilità di collegamento esterno.

    Il piccolo sbirro dopo quell’immaginifico dialogo, si riposizionò a ridosso della strada statale, mentre la pioggia che scendeva senza sosta, lo stava in parte aiutando a ripulirsi dalla fanghiglia che pareva avergli trasfigurato il volto.

    Dopo circa un’ora, transitò casualmente un’autovettura della Polizia. Guglielmo nell’intravedere i colori istituzionali, iniziò ad agitare le braccia per attirare l’attenzione degli agenti, nell’irragionevole convinzione si trattasse dei rinforzi richiesti.

    Colleghi, dobbiamo fare in fretta! Bisogna acciuffare un brutto. Non avrà fatto sicuramente tanta strada con questa pioggia! Affermò con la voce resa incerta dal vento che, continuava a spalmarsi sul suo corpo bagnato.

    Dove vai conciato in quel modo. Torna da tua madre. Sarà molto preoccupata! Affermò sconsolato l’ispettore Mario Rinaldi, memore di simili sortite.

    Percepito il tono perentorio di quelle parole, non poté fare altro che obbedire. Erano le ore 6 e 40.

    Giovanna aveva trascorso la notte vegliando, promettendosi che non avrebbe mai più concesso tanta libertà al figlio. Quando la lampada del soggiorno s’illuminò, rivelando le condizioni in cui si trovava, il ritrovato sollievo della donna, si vanificò rapidamente per lasciare spazio alla rabbia.

    Per un bel po’non metterai piede fuori di casa! Asserì la sconsolata genitrice in preda dello sconforto.

    Mamma, questa notte durante il servizio, ho sentito delle grida. È successo sicuramente qualcosa di brutto. Ho visto qualcuno fuggire. Nell’udire quelle parole, la donna fu assalita dalla collera.

    Vai immediatamente a farti una doccia!

    Guglielmo non rispose, mimando l’inequivocabile gesto della negazione, sia con il capo che con il dito indice della mano destra. Giovanna, da sempre costretta ad allevare da sola un ragazzo così difficile e spesso ingestibile, sentitasi in quell’istante più che mai impotente, non ce la fece a trattenersi.

    Se continui così, dovremo tornare dal professor Gasperini. Ricordi cosa mi ha detto l’ultima volta? Le porte di quell’Istituto potrebbero riaprirsi. Stavolta non tornerò indietro per riportarti a casa!

    Seguirono minuti di silenzio. Guglielmo chinò il capo per nascondere i suoi occhi arrossati ed inumiditi dalle lacrime.

    Poi, dopo una lunga pausa, ritrovò la forza di dire poche parole, che lasciarono il segno nel cuore di quella povera madre.

    Mamma quando il commissario mi promuoverà ispettore, avrò un aumento. Quel giorno mi sposerò e ti darò un nipotino. So che lo desideri tanto!

    Fu vinta da un pianto, insaporito da copiose lacrime.

    Entrambi emanavano un’indescrivibile dolcezza.

    Erano il ritratto dell’amore. Quello vero. Che supera tutto. Che travalica ogni ostacolo. Che vince sbaragliando ogni difficoltà.

    Dio ha voluto così. Ci sarà una ragione. Sei il mio angelo, il mio tutto, ma devo proteggerti, terminò Giovanna cingendo a sé il figliolo.

    Dopo poche ore cessò di piovere. Il cielo venne rischiarato dal sole, riappropriatosi di tutto il suo vigore.

    Mentre gli uccelli dopo il lungo torpore, iniziarono a librarsi timidamente nel cielo, per riprendere la caccia agli insetti che, altrettanto guardinghi ritornarono, chi a volteggiare nell’aria, chi a insediarsi nei fiori.

    Capitolo Due

    Eloise aveva trentadue anni. Faceva la commessa, in una elegante boutique di abbigliamento nel centro storico di Venezia. Era distesa al suolo. Il viso era quasi irriconoscibile, deturpato da una mano mossa da un odio all’apparenza inesplicabile. Si trovava in posizione supina, a pochi metri dal letto del fiume Piave, nell’omonima località di Ponte della Priula.

    I lunghi capelli biondi le coprivano parzialmente il volto, le braccia erano distese parallelamente ai fianchi, altrettanto le gambe, anch’esse quasi perfettamente rettilinee.

    Indossava un meraviglioso vestito nero e delle scarpe con tacchi altissimi, certamente non consone a quel luogo. Il corpo era in parte occultato da frasche, al di sopra delle quali erano stati gettati dei sassi, nell’evidente finalità di impedire che gli eventi atmosferici potessero facilmente rimuovere quella artigianale copertura, sicuramente realizzata per rendere più arduo il rinvenimento del cadavere.

    Nel frattempo il corpo stava subendo le prime trasformazioni, na­turali e connaturate con lo scorrere del tempo.

    Capitolo Tre

    Guglielmo andò a riposare. Era stremato. Quelle grida disperate e quelle parole tenebrose gli risuonavano dentro come una funesta melodia.

    Ma l’incombere del sonno, prese lentamente il sopravvento su ogni stato emotivo, e sulle turbolenze che in quel momento ne agitavano i pensieri. Sognò tutt’altro. Misteri dell’inconscio.

    Si trovava a bordo di una fiammante Alfa Romeo, intento a percorrere le strade di un’avveniristica città, animata da mille luci ed attraversata da auto delle più disparate case automobilistiche.

    La sua, era talmente candida che, il sole nello scontrarsi con la carrozzeria creava un bagliore quasi innaturale.

    Lui guidava, felice e spensierato, lungo un’interminabile carreggiata che costeggiava il mare. Più in là grattacieli, ornati da seducenti scritte pubblicitarie che a tratti si animavano.

    A bordo c’era Simona, i capelli neri che le toccavano le spalle, gli occhi e la carnagione scurissimi. Ne era follemente innamorato.

    Ma quel sentimento non era contraccambiato. E, sapeva che non lo sarebbe mai stato.

    Simona aveva ventisette anni, e faceva l’igienista in uno studio dentistico di Treviso. Era da sempre fidanzata con un giovane della zona che lavorava in banca, sperperando i suoi guadagni in abiti griffati e serate con amici.

    Lei che da tempo non lo amava spesso si sfogava con Guglielmo, confidandogli il suo malessere e soprattutto i suoi sogni.

    Era certa che lui li avrebbe custoditi gelosamente, senza mai rivelarli a nessuno.

    In quel fantastico frangente onirico, entrambi stavano sfrecciando verso l’infinito.

    Guglielmo indossava un elegantissimo vestito nero, sotto al quale spiccava una camicia bianca, che lasciava intravedere solo una parte del torace, non più reso flaccido dagli anni.

    Premeva al massimo l’acceleratore per impedire a chiunque di raggiungerli e contaminare l’incanto di quei momenti.

    Nel frattempo, cercava con tutto se stesso di trovare il coraggio di voltarsi, guardare negli occhi Simona e pronunciare l’unica parola che dà senso e significato all’esistenza: ti amo.

    Però non ce la faceva, aveva paura di sentire la

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