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101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita
101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita
101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita
E-book512 pagine6 ore

101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita

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Info su questo ebook

Il libro perfetto per chi sogna di fare un viaggio in Giappone che non si limiti alle località riportate su tutte le guide. Tutti conoscono il Padiglione d’oro di Kyoto, il museo dello Studio Ghibli, il quartiere futuristico di Akihabara, ma se si desidera scoprire la vera essenza del Giappone, bisogna approfondire il lato nascosto di un Paese che non smette mai di stupire. Questo vuol dire non limitarsi a vedere, ma prepararsi a fare un passo oltre e “provare”. Sperimentare luoghi ed esperienze, conoscere aspetti spesso non troppo noti in Occidente, ma importantissimi per i giapponesi. Cosa si prova, per esempio, a essere di fronte a una nave spia nordcoreana? Che sapore ha il piatto di pesce più inquietante mai mangiato (e considerato una delizia)? Che effetto fa vedere le balene libere in mare e andare poi a conoscere i luoghi della controversa cultura baleniera nipponica? Oppure fare il bagno nelle terme tra la neve, vicino ai macachi?

Oltre samurai e fiori di ciliegio c’è un paese tutto da scoprire

Tra le cose da fare:

Entrare in una nave spia nordcoreana
Mangiare il miglior sushi del mondo
Vedere le balene che nuotano libere
Osservare il mondo dal petto del Buddha
Salire sul muro anti tsunami
Salire sul monte Fuji, simbolo del Giappone
Passeggiare lungo il cammino della filosofia, cercando ispirazione
Scalare un grattacielo ad alta velocità in uno degli ascensori più veloci del mondo
Andare a vedere le scimmie che fanno il bagno alle terme
Dormire in un tempio buddista
Visitare le sirene nella penisola delle perle
Aspettare le fate sul laghetto turchese di Shirogane
Andare a visitare le isole dei gatti
Antonio Moscatello
è pugliese, ha 50 anni ed è un giornalista dell’agenzia di stampa Askanews per la quale si occupa di Asia. Laureato all’Orientale di Napoli, ha studiato e vissuto in Giappone ed è giornalista professionista dal 2001. È stato inviato in teatri di conflitto in Medio Oriente e corrispondente da Tokyo e da Budapest. Nel 2017 ha pubblicato Megumi. Storie di rapimenti e spie della Corea del Nord, un libro-inchiesta sui rapimenti effettuati in Giappone dalle spie nordcoreane. Nel 2018 ha ottenuto il premio “Umberto Agnelli” per il giornalismo. Con la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che in Giappone e 101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2020
ISBN9788822751058
101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita

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    Anteprima del libro

    101 cose da fare a Tokyo e in Giappone almeno una volta nella vita - Antonio Moscatello

    Introduzione

    Qu esto è un libro per chi ha finalmente deciso di fare il viaggio della vita in Giappone, ma non vuole limitarsi a visitare le località che sono riportate su tutte le guide turistiche del mondo. Un libro per chi vuole conoscere un po’ più a fondo la cultura, la storia, il modo di vivere dei giapponesi, senza imbarcarsi in tour mordi-e-fuggi dei principali monumenti. Un libro per persone curiose, avide di conoscenze, ma anche persone che vogliono divertirsi con rispetto per i luoghi.

    Il Padiglione d’oro di Kyoto per chi ama l’arte, il museo degli Studio Ghibli per gli appassionati di cartoni animati, Akihabara per gli amanti dell’elettronica sono segnalati sulle guide di viaggio ospitate in scaffali e scaffali di tutte le librerie. In questo libro non se ne parlerà, o se ne parlerà da un punto di vista diverso.

    L’idea è quella di costruire una mappa emozionale del Giappone, dove trovare tutto ciò che serve per percepire la giapponesità, senza ricadere in troppi stereotipi e luoghi comuni. Questo vuol dire non limitarsi a vedere, ma fare un passo oltre e provare: sperimentare luoghi ed esperienze che sono l’essenza del modo di vivere e di vedere il mondo dei giapponesi, conoscere aspetti spesso non troppo noti in Occidente, ma importantissimi per chi in quel Paese ci vive. Senza rinunciare a osservare anche elementi non necessariamente brillanti.

    Cosa si prova, per esempio, a essere di fronte a una nave-spia nordcoreana? Che sapore ha il piatto di pesce più inquietante mai mangiato (e considerato una delizia dai giapponesi)? Che effetto fa vedere le balene libere in mare e andare poi a conoscere i luoghi dove le si caccia e le si mangia anche? O navigare in una rompighiaccio dell’estremo nord del Giappone, nel mare di Ochotsk congelato? O, ancora, andare sulle spiagge bianchissime di Okinawa, nuotando in un mare cristallino mentre i cieli sono solcati dai caccia da guerra americani? Oppure fare il bagno nelle terme tra la neve, vicino ai macachi?

    Il libro partirà da un fatto banale, ma non scontato. Per conoscere il Giappone, bisogna muoversi, e nel Sol levante, i trasporti sono una iattura per i loro costi. Per fortuna, i turisti hanno agevolazioni importanti, come il Japan Rail Pass. Non tutti conoscono questo strumento, perciò il suo acquisto sarà indicato come la prima delle 101 cose da fare. Poi ci s’inoltrerà per strade non sempre battute dai turisti, si racconteranno angoli ignoti agli stranieri, ma molto significativi per i giapponesi. Alla fine si emergerà, si spera, con una maggiore consapevolezza di cosa sia questo Paese che in tanti crediamo di conoscere, ma che in realtà continua a celarsi, come racconta il grande scrittore Tanizaki Jun’ichirō nel suo Libro d’ombra.

    Avvertenze sulla trascrizione e la pronuncia delle parole giapponesi

    La trascrizione in caratteri romani dei termini giapponesi segue il sistema Hepburn.

    Le vocali vengono lette come in italiano, quelle che hanno al di sopra il segno diacritico della lineetta vanno allungate.

    Le consonanti vanno lette come nell’italiano, ma si noti che:

    •ch va letto come nell’italiano cena;

    •g va letta come nell’italiano gatto, anche quando seguita da una i o una e;

    •h è un’aspirata e l’aspirazione, in giapponese, si sente;

    •j si legge come la g dell’italiano gelato;

    •k si legge come la c dell’italiano casa;

    •s è sorda, come nell’italiano sambuco;

    •sh va letto come nell’italiano scibile;

    •y si legge come la i dell’italiano;

    •w si legge come una u dell’italiano, pronunciata rapidamente;

    •ts equivale alla z aspra presente nell’italiano calza;

    •z è dolce, come nell’italiano zaino.

    In base all’uso giapponese, nel testo i cognomi precedono i nomi.

    La lineetta posta su alcune vocali indica che esse vanno allungate nella pronuncia.

    Da ricordare che il giapponese scritto è un misto di due sistemi di caratteri sillabici (hiragana e katakana), ognuno dei quali non ha un significato proprio, e da caratteri di derivazione cinese (kanji) con significato proprio. Le parti flessive del discorso – tendenzialmente – usano i caratteri sillabici, quelle non flessive i kanji (ma è una regola di massima).

    In questo libro alcune delle parole chiave di ogni capitolo saranno trascritte anche in giapponese, in modo da far apprezzare anche questo aspetto della cultura nipponica e ove necessario per comprendere meno un concetto.

    La denominazione dei periodi storici giapponesi

    Jōmon (12.000-300 a.C.)

    Yayoi (300 a.C.-250 d.C.)

    Kofun (250-538)

    Asuka (538-710)

    Nara (710-794)

    Heian (794-1185)

    Kamakura (1192-1333)

    Muromachi (1338-1573)

    Azuchi-Momoyama (1573-1603)

    Edo (1603-1868)

    Meiji (1868-1912)

    Taishō (1912-926)

    Shōwa (1926-1989)

    Heisei (1989-2019)

    Reiwa (2019-)

    1.

    Acquistare il Japan Rail Pass e verificare di avere i documenti a posto

    Av ete intenzione di andare in Giappone, un Paese che da tanti anni fa parte del vostro orizzonte culturale perché da bambini eravate appassionati fruitori di cartoni animati, perché da ragazzi vi siete applicati con alterne fortune alle arti marziali e perché da grandi avete deciso di dismettere la vostra forma fisica diventando assidui frequentatori di ristoranti di sushi o, peggio ancora, di r ā men ?

    Ebbene, sappiate che l’oggettiva assiduità tra le nostre due culture è un dato di fatto per tutti, meno che per l’occhiuta immigrazione nipponica che, quanto a tigna, non ha nulla da invidiare a quella di altri Paesi toccati dal fenomeno del terrorismo internazionale, che pure mai ha neanche sfiorato il Sol levante.

    Partiamo da un punto fermo: per entrare in Giappone avete bisogno del passaporto. Per cittadini europei avvezzi allo spazio Schengen può non essere così scontato: il Giappone non si trova in Europa occidentale, quindi solo un accordo bilaterale tra Roma e Tōkyō fa sì che non vi sia bisogno di un visto per permanenze inferiori ai tre mesi. Questo vuol dire che non dovrete imbarcarvi in noiose trafile presso le sedi diplomatiche, ma che almeno dovrete essere lieti possessori di un bel passaporto in regolare corso di validità.

    Una volta verificato di avere tutte le carte in regola, potrete acquistare un biglietto aereo (ma nulla v’impedisce, se avete tempo e spirito d’avventura, di provare ad arrivare in Giappone con altri mezzi: non è impossibile).

    Ve ne sono di diversi prezzi e per diverse rotte. Tenete tuttavia presente che il volo dura – se diretto – tra le 12 e le 14 ore. Se programmate uno scalo è ben facile che il vostro viaggio duri 20 ore. Per cui il mio consiglio è di dotarvi di abiti comodi e, se possibile, di prendere un posto nel corridoio. Godrete meno della vista al decollo e all’atterraggio, ma potrete alzarvi per sgranchirvi le gambe e andare al bagno tutte le volte che vorrete, senza dover necessariamente svegliare o tentare con mosse acrobatiche di scavalcare il vicino di posto giapponese dormiente. Perché – meglio che ne siate informati preventivamente – il giapponese in aereo come in treno riesce a dormire profondamente per tutto il tragitto là dove invece voi mi muovete, vi agitate, guardate film su film, giocate a Tetris per ingannare le infinite ore del viaggio.

    A un certo punto vi verranno forniti due graziosi foglietti in bella carta, uno bianco e l’altro giallino, stampati in un corpo che sfida la capacità di lettura anche di una persona con le capacità visive del falco. La prima è la carta di disimbarco. Vi si chiedono i vostri dati, quelli del vostro volo, il periodo di permanenza, dove andrete a risiedere (mettete tranquillamente il primo indirizzo in cui vi fermerete). Sconsiglierei vivamente di dichiarare per goliardia che siete stati precedentemente espulsi dal Giappone, che siete solitamente dediti al crimine e che siete in possesso di armi o polvere da sparo (cose che vi vengono effettivamente chieste in questo documento), a meno che davvero non vi troviate in tali condizioni.

    Il foglietto giallino è invece una dichiarazione doganale, in cui vi vengono nuovamente richieste le generalità e vi viene chiesto se siete in possesso di materiali illegali o di campioni commerciali o di ingenti cifre di denaro eccedenti quanto è consentito avere per un normale turista. Anche in questo caso, meglio aguzzare bene la vista e spuntare una serie di no.

    La compilazione dei moduli potrà essere un divertente diversivo durante il viaggio. La prima volta certamente sbaglierete qualcosa e ci sarà sempre l’italiano residente in Giappone per più o meno lungo tempo che morirà dalla voglia di fornirvi l’expertise maturata in anni di controlli doganali e disavventure varie all’aeroporto nipponico di arrivo.

    Arrivati finalmente nell’ovattata atmosfera dell’aeroporto di Narita (se arrivate a Tōkyō, è probabile che sia questo lo scalo, ma meglio ancora se arrivate ad Haneda, più vicino alla città), vi tocca una fila all’immigrazione che, a seconda dell’orario d’arrivo, può anche diventare lunga. Vi chiederanno le impronte digitali, vi faranno la scansione degli occhi un paio volte. Il gentile addetto al controllo passaporti probabilmente vi chiederà in un inglese non inattaccabile lo scopo della vostra visita, per poi farvi passare al ritiro bagaglio. Scoprirete che il bagaglio gira sul nastro da chissà quanto, scordatevi le attese di certi aeroporti italiani per ritornare in possesso dell’agognata valigia. E così potrete rimettervi in fila per il controllo bagaglio. È molto facile che vi facciano aprire tutto e, non v’inganni la cortese bonomia dell’addetto. Se qualcosa apparirà sospetto o non in linea con quanto ci si attende, dovrete fare gli ulteriori controlli. Ma, in generale, è presumibile che non trasportiate nulla che vi provochi guai con la giustizia. Lo voglio almeno pensare.

    Una volta completato con successo il controllo del bagaglio, potrete finalmente ritenervi davvero in Giappone. E due operazioni si renderanno immediatamente utili: il cambio di valuta (se non vi siete premurati di farlo già prima di partire) e l’acquisto di una scheda

    sim

    con abbonamento a tempo per il telefono, oltre eventualmente all’affitto di un router portatile, se ritenete di averne bisogno. Conviene non utilizzare il roaming internazionale: costa un occhio della testa.

    Agli arrivi internazionali troverete un’ampia scelta di stand sia per la prima che per la seconda operazione. Prendetevi il tempo di cui avete bisogno: nessuno vi corre dietro.

    Terminate queste semplici operazioni, una breve camminata vi porterà alle stazioni dei treni con cui potrete raggiungere le vostre destinazioni. Anche in questo caso, non abbiate fretta. Scegliete, in base al luogo che intendete raggiungere, uno dei diversi operatori ferroviari a disposizione, anche perché le tariffe sono molto diverse tra loro. E, visto che il posto lo consente, approfittate per acquistare la carta prepagata (

    pasmo

    o

    suica

    , la prima è emessa da operatori privati, la seconda dalle ex ferrovie dello stato

    jr

    , ma sono sostanzialmente equivalenti), che potrete utilizzare su tutte le linee ferroviarie ma anche per acquisti esterni: i bus, i taxi, per acquistare bevande ai distributori automatici, persino per mangiare nei ristoranti. Inoltre, può essere una buona idea entrare nell’ufficio della

    jr

    per effettuare la conversione del voucher con il Japan Rail Pass.

    Ah, dimenticavo! Il Japan Rail Pass è uno strumento necessario, se non volete svenarvi con gli spostamenti. Si tratta di un abbonamento prepagato alle linee della

    jr

    , con il quale potrete usare quasi tutti i treni, compresi una parte degli Shinkansen (i treni superveloci), ma non proprio tutti tutti.

    In Giappone il costo dei trasporti è molto gravoso e conviene assolutamente dotarvi di questa carta della grandezza di un passaporto. Tradizionalmente il Japan Rail Pass si acquista all’estero e, per comprarlo, dovete essere turisti. Insomma, se entrate in Giappone con un altro visto, non potete usufruirne. E dovete esibire il passaporto nel momento in cui convertite il voucher che vi viene fornito al momento dell’acquisto nel vostro Paese (si può comprare anche online, in tal caso vi arriva il voucher a casa). Questa modalità di acquisto, comunque, è in evoluzione: è probabile che quando questo libro sarà nelle vostre mani sia possibile anche acquistare Japan Rail Pass direttamente in Giappone.

    Naturalmente per raggiungere Tōkyō potete anche decidere di prendere un Limousine Bus, un taxi collettivo o, se siete ricchi, un taxi. Ma, oltre al fatto che ci metterete più tempo e sarete ostaggio delle condizioni di traffico che non sempre sono facili, vi toglierete il gusto di avere il primo impatto con il luogo che occupa tanta parte della vita giapponese, cioè il treno. Sarà, certo, un appuntamento rimandato solo di poco. Ma perché, a questo punto, non farlne subito esperienza?

    2.

    Scattare una foto davanti alla statua di Gundam

    To glietevi subito il dente: siete stati bambini nella seconda metà degli anni ’70 o nella prima metà degli ’80 e, quindi, siete cresciuti vedendo i cartoni animati giapponesi. Sicuramente, una delle prime cose che vorrete fare, arrivando in Giappone, è riprovare un po’ di quelle sensazioni che assaporavate da bambini: i pomeriggi davanti al televisore guardando Goldrake mentre la mamma preparava la merenda e si chiedeva, pensosa, se quei cartoni animati stranieri non fossero deleteri per la vostra crescita: non era meglio Topo Gigio?

    E, così, uno dei primi posti che vi conviene andare a vedere si trova nell’isola artificiale di Odaiba, a Tōkyō, ed è la statua gigante di Gundam.

    Parliamo, per i pochi che non ne fossero a conoscenza, di uno dei principali robot di quella galassia di creazioni dell’animazione e del merchandising giapponese conosciuta collettivamente sotto il nome di mecha (ma, in verità, sarebbe più coerente con la lo pronuncia denominarli meka). Tutti conosciamo il già citato Goldrake (ma non i giapponesi, che lo chiamano

    ufo

    Robot Grendizer, il quale peraltro alla sua uscita non ebbe il successo fulminante di cui godette in Italia). I più appassionati però ricordano anche Gundam.

    Gundam nacque nel 1979 dal genio di Tomino Yoshiyuki (n. 1941) e dei suoi collaboratori conosciuti col nome collettivo di Yatate Hajime.

    Tomino era stato uno dei principali collaboratori del grande Tezuka Osamu (1928-1989) in una delle serie manga che più caratterizzano la storia dei fumetti e dell’animazione giapponese del

    xx

    secolo: Tetsuwan Atomu, conosciuto nel resto del mondo come Astroboy.

    Grande innovatore, Tomino in seguito fu uno dei pilastri di uno studio fondamentale dell’animazione giapponese, la Sunrise, che è parte oggi del conglomerato produttivo Bandai-Namco. E fu l’autore della transizione dai giganteschi Super Robot – tra i quali Goldrake, ma anche i diversi Mazinga dell’altro genio, Gō Nagai (n. 1945) – ai Real Robot, di cui appunto il Mobile Suit Gundam è il primo esempio.

    Quale la differenza tra i due generi? Nel primo il robot è il vero centro della storia, è un essere titanico che combatte contro il nemico. Invece il Gundam pone al centro della storia l’uomo, il robot è l’arma. Sullo sfondo c’è una riflessione profonda sul perché l’essere umano continui a uccidere e a fare la guerra. La stessa scelta del nome del robot richiama questa profondità: inizialmente Gunboy, si decise di passare a una crasi tra Gun – cioè l’arma – e Freedom, quindi Gundom. Poi però a Tomino non piacque la resa in giapponese, quindi optò per Gundam che aveva dentro anche la parola dam (damu in lingua nipponica). L’arma che ferma come una diga (dam in inglese) il nemico parve all’autore dare abbastanza l’idea di dove si volesse arrivare con questo mecha.

    Una delle armi vincenti di Gundam – che però al lancio non ebbe un immediato successo – fu sicuramente il design estremamente innovativo di Okawara Kunio (n. 1947). Il robot ricorda non troppo vagamente l’armatura di un samurai, il pilota è collocato nel torso del robot, che solitamente ha forma umanoide.

    Al capostipite seguirono un numero notevole di serie, anche di maggiore successo, come il Gundam Z. E a queste si affiancarono manga, lungometraggi, romanzi, giochi e infinite tipologie di modellini di plastica per la gioia di tutti i collezionisti.

    I giapponesi amano i robot, è una cosa evidente a chiunque vi si rechi. La tradizione di bambole meccaniche che hanno attraversato la storia nipponica è imponente. Secondo alcuni si tratta di un affetto legato allo shintō, la religione ancestrale nipponica, che dà una natura spirituale non solo agli uomini o agli esseri animati, ma anche all’inanimato.

    Altri vedono un nesso diretto con la tradizione del teatro delle marionette, conosciuto come Bunraku (文楽). Le bambole in legno, in quel caso, sono estremamente realistiche e gli artisti che le costruiscono mettono una grande cura nel realizzare i meccanismi e le giunture per far sì che i movimenti sul palcoscenico imitino al meglio quelli umani.

    Comunque già dal

    xvii

    secolo in Giappone si producevano delle bambole automatizzate che venivano usate per stupire gli astanti non solo nelle case di ricchi eccentrici, ma anche in rappresentazioni teatrali.

    Si tratta delle famose karakuri ningyō (からくり人形), il cui più grande ideatore fu Tanaka Hisashige (1799-1881). Studioso di cultura occidentale – che nell’epoca Edo a cui apparteneva, voleva essenzialmente dire Olanda, visto che solo il regno europeo era l’unico ammesso ai commerci col Sol levante – e ingegnere, fu il primo a sperimentare in Giappone i movimenti idraulici, oltre ad aver costruito la prima locomotiva del Paese. Fu il fondatore di una società che, in seguito, sarà conosciuta in tutto il mondo come Toshiba.

    Le karakuri ningyō erano in grado di svolgere compiti apparentemente semplici, ma che richiedevano, per un automa dell’epoca, un grande studio: versare il tè, inchinarsi al cliente, persino scoccare una freccia.

    L’antenato più diretto, probabilmente, dei mecha potrebbe essere il Gakutensoku, un gigantesco automa prodotto nel 1929 dal biologo marino Nishimura Makoto (1883-1956) che era in grado di fare espressioni facciali e persino di scrivere alcune parole. Si muoveva grazie alla pressione dell’aria. Questo robot andò perduto nella Germania nazista negli anni ’30 durante una tournée e ne esiste oggi una replica a Ōsaka, presso il Museo delle Scienze.

    La sconfitta nella seconda guerra mondiale e il dopoguerra, poi, forniscono un’ulteriore radice ai mecha.

    L’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki creò un senso di fragilità psicologica nei giapponesi ben caratterizzata dal grande successo dei film del mostro Godzilla. Chi meglio di un gigantesco, invincibile samurai meccanico per respingere un nemico invisibile dal potere tanto superiore alle umane possibilità?

    Non dobbiamo dimenticare, però, che la fantascienza serve per far riflettere, per immaginare mondi, ma anche per porre sotto stress critico il mondo in cui viviamo. Pensiamo alla trama di Astroboy di Tezuka Osamu: uno scienziato perde il figlio, così crea un robot umanoide, per poi scoprire però che, per quanto elaborato, un robot non può sostituire un essere umano. Quindi respinge la sua creatura, che poi si dimostra essere un supereroe.

    Gundam è una macchina non solo per ristabilire la giustizia, ma anche per far soldi. La Bandai ha dichiarato che, al 2018, il giro d’affari attorno a questo robot, dall’anno della sua creazione, ha generato introiti per venti miliardi di dollari.

    Era quindi ovvio che gli facessero una statua. Così nel 2009, nell’ambito del Green Tokyo Gundam Project, nell’isola artificiale di Odaiba, è stato innalzato un modello in scala 1:1 del robot, alto diciotto metri. Emetteva luci, muoveva la testa, apriva delle sue parti due volte al giorno. In seguito, però, questa statua – che rappresentava il classico modello

    rx

    -78-2, per gli affezionati del genere – è stata disassemblata nel 2017 per essere rimpiazzata da un ulteriore modello, il Gundam Unicorn che è più alto e imponente, arrivando a 19,7 metri e che diverse volte al giorno cambia forma diventando un Gundam Destroyer.

    3.

    Baciarsi di notte a Odaiba, di fronte al Rainbow Bridge

    Qu ella di Gundam non è l’unica statua a Odaiba davanti alla quale vale la pena fare una fotografia. Nella stessa zona, lasciando il futuro, potete fare un bel salto a New York. E sto parlando sul serio, perché, se andate nel parco di Daiba, potrete trovare la Statua della Libertà. Con sullo sfondo un grande ponte sospeso, che per un attimo potrebbe darvi l’impressione di essere atterrati nella Grande Mela.

    Certo, solo per un attimo. La Statua della Libertà newyorchese, costruita da Gustave Eiffel nel 1886, è alta 46 metri (quasi cento se contiamo anche il basamento), mentre quella di Tokyo supera di poco i dodici metri. Però è ben fatta.

    Doveva essere un omaggio temporaneo collocato lì nel 1998 in occasione dell’Anno di amicizia tra Giappone e Francia e avrebbe dovuto sparire l’anno dopo, alla fine delle celebrazioni. Invece divenne tremendamente popolare e quindi la si dové ricollocare lì.

    Di per sé, la statua è poca cosa e, di certo, non rientrerebbe tra le cose da vedere una volta nella vita. In effetti, possiamo usare la statua un po’ come un punto di riferimento, perché da lì è possibile ammirare, dal tramonto in poi, uno degli scenari più suggestivi dello skyline di Tōkyō.

    Il luogo è altamente consigliato, naturalmente, se si è almeno in coppia, perché può creare le condizioni per una romantica effusione.

    Odaiba, come abbiamo già accennato, è un’isola artificiale nella Baia di Tōkyō, conosciuta anche come Tōkyō Teleport City. La sua creazione aveva scopi difensivi. Nel 1853 al potere, in Giappone, era ancora il clan guerriero dei Tokugawa, che era emerso all’inizio del

    xvii

    secolo come dominante alla fine di un lungo periodo di conflitto. Tuttavia il dominio di questi samurai, che avevano garantito due secoli e mezzo di pace continuata al Paese, era ormai minacciato dalla sfida interna di altri clan samuraici del sud e, soprattutto, dalla pressione esterna proveniente dagli stranieri.

    Nel 1853 una flotta statunitense guidata dal Commodoro Matthew Calbraith Perry (1794-1858) – le cosiddette Navi Nere – era sbarcata a Uraga, nella Baia di Edo (all’epoca Tōkyō si chiamava Edo), facendo capire allo Shōgun (il dittatore militare del Paese, da non confondere con l’Imperatore) che il Giappone era completamente indifeso rispetto alla capacità tecnologica e militare degli stranieri.

    Fu così che l’ufficiale incaricato della difesa costiera di Edo, Egawa Hidetatsu Tarōzaemon (1801-1855) decise che avrebbe dovuto rafforzare le difese della sede shogunale. Fece costruire sei fortezze in mare, su isolette artificiali, dotate di batterie di cannoni (daiba, 台場) con le quali s’illudeva di poter eventualmente respingere l’arrivo di una flotta straniera.

    Il progetto non fu mai completato del tutto, ma comunque divenne la chiave per la difesa di Tōkyō anche dopo che, nel 1868, lo shogunato fu eliminato in favore di un governo che faceva riferimento diretto all’Imperatore stesso.

    Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la sconfitta giapponese, si pose il problema di cosa fare di queste fortezze a cui erano ormai state tolte le batterie di cannoni. Cominciarono in parte a essere collegate tra di loro, finché non arrivò un progetto più articolato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 del secolo scorso.

    Il Giappone in quel momento stava vivendo ancora lo spumeggiante periodo della bubble economy e Tōkyō si presentava al mondo come la città del futuro. I soldi giravano a palate. Così l’allora governatore della capitale nipponica, Suzuki Shunichi (1910-2010), un uomo che aveva provato quanto i grandi eventi potessero essere funzionali allo sviluppo cittadino e agli affari, lanciò un grande piano di sviluppo per le ex fortezze, il Tōkyō Teleport Town, che avrebbe dovuto essere pronto per il 1996 e sostanzialmente inaugurato con un grande evento espositivo dedicato alle città, l’International Urban Exposition. Il progetto Tōkyō Teleport Town doveva unire infrastrutture portuali e di connessione digitale, oltre a ospitare zone residenziali con almeno centomila abitanti.

    La contingenza economica, tuttavia, remò contro le idee faraoniche di Suzuki, che intanto aveva anche lasciato la carica di primo cittadino ad Aoshima Yukio (1932-2006), un personaggio ben più sopra le righe. Prima d’intraprendere la carriera politica, era stato un comico, un regista cinematografico, un autore per comici e un romanziere premiato. Forte di una grandissima popolarità mediatica, si fece eleggere primo cittadino della capitale nipponica da indipendente, senza il sostegno di un partito, nel 1995.

    Non è ricordato come un grande sindaco, ma bisogna dire anche che fu parecchio sfortunato. Si trovò infatti a gestire lo scoppio della bolla. Era finito il tempo delle vacche grasse e il Giappone si trovò a dover affrontare la crisi economica e Tōkyō a ridimensionare le sue ambizioni di sviluppo.

    Peraltro, che il suo mandato non sarebbe stato una camminata sugli allori, il povero Aoshima lo capì subito nel maggio 1995, quando gli fu recapitato un pacco bomba che scoppiò sulla faccia di un suo collaboratore. L’esplosione fu attribuita alla setta Aum Shinri-kyō, che a marzo di quell’anno aveva scioccato il mondo mettendo il gas nervino sarin nella metropolitana di Tōkyō, provocando la morte di dodici persone e l’intossicazione, spesso con conseguenze irreversibili, di cinquemila altri passeggeri. Aoshima, che aveva fatto campagna elettorale promettendo di mettere in sicurezza la città sconvolta dagli attacchi della setta e di reprimere le sue attività, era diventato facile obiettivo dei seguaci del santone Asahara Shōkō (1955-2018).

    Il pacco era stato inviato mentre il guru era ancora latitante e, casualmente, esplose proprio nel giorno in cui venne arrestato (Asahara sarà poi impiccato nel 2018).

    In quel clima, ad Aoshima lo sviluppo di Odaiba e la grande Expo delle città vagheggiata dal suo predecessore parvero "zeitaku", cioè un lusso, che la capitale nipponica non poteva permettersi più: erano già stati spesi più di mille miliardi di yen (8,3 miliardi di euro al cambio attuale), ma l’area era molto sottopopolata, anche perché l’esplosione della bolla aveva portato a un crollo del valore degli immobili e, quindi, al sostanziale fallimento di molte delle società che avevano investito nella costruzione dell’area.

    Così la maledizione di Egawa sembrava aver colpito ancora Odaiba: grandi progetti di partenza, mai portati a termine. Invece, come una fenice, Odaiba rinacque alla fine degli anni ’90, quando la sua vocazione naturale fu mutata e divenne un luogo dei divertimenti. A favorire questo sviluppo, anche la decisione della Fuji Television, uno dei principali network televisivi del Paese, di trasferire il suo quartier generale nell’isola artificiale in un edificio che, come dicevamo, fu progettato dall’archistar dell’epoca Tange Kenzō (1913-2005). Con la sua caratteristica piattaforma d’osservazione sferica, diede sostanzialmente il via a una nuova vocazione, una sorta di terza vita, per quella che era nata come un’infrastruttura di difesa.

    Un contributo notevole alla rinascita di Odaiba lo diede anche il Big Sight, il caratteristico centro convegni che era stato pensato dal governatore Suzuki per ospitare la grande Expo delle città. Cominciò la sua attività nel 1996, diventando presto il polo della convegnistica e delle fiere di tokyesi. A seguire, vennero aperte molte altre attrazioni, musei e luoghi per il divertimenti e la cultura, che sicuramente avrete modo di visitare. E, per il 2020, Odaiba è stata scelta per ospitare diverse discipline dei Giochi olimpici estivi.

    A unire Odaiba alla terraferma e a dominare il panorama che vedrete dalla ministatua della Libertà, c’è il grande ponte sospeso dell’Arcobaleno, cioè il Rainbow Bridge, lungo poco meno di 800 metri. La struttura, in metallo, è stata completata nel 1993 dalla Kawasaki Heavy Industries ed è a doppia piattaforma, su cui passano due strade e una linea ferroviaria completamente automatizzata (linea Yurikamome). Collega il molo di Shibaura all’isola artificiale. I suoi enormi piloni sono completamente bianchi.

    La notte, dei grandi fari a energia solare vengono accesi per colorare il ponte di rosso, bianco, verde, ma anche di altri colori.

    Dal parco potrete vedere uno spettacolo davvero romantico. E, se vi va, avrete l’atmosfera giusta per baciarvi appassionatamente, scioccando i giapponesi presenti che sono meno abituati di noi alle effusioni di questo tipo.

    4.

    Entrare in una nave-spia nordcoreana

    Er a il tardo pomeriggio, prima serata del 15 novembre 1977. Yokota Megumi tornava a casa. Non era freddo, nonostante la stagione, nonostante il mare a poche decine di metri. Aveva concluso un allenamento di badminton, era piena di vita e prospettive. Aveva solo tredici anni e frequentava la scuola media.

    Ma alla porta della modesta abitazione non arrivò mai. I genitori la cercarono dappertutto, vissero l’umiliante trafila di chiunque abbia fatto esperienza della scomparsa, inspiegabile e incomprensibile, di un figlio.

    Partirono le ricerche ma non riuscirono ad avere alcuna informazione utile. Sembrava, quasi, che quel mare scuro che costeggia il Giappone nordoccidentale, la prefettura di Niigata, dove erano avvenuti i fatti, l’avesse inghiottita e data in pasto ai pesci.

    Fu solo nel 1997 – venti anni dopo – che una serie di informazioni incrociate stabilirono che fine avesse fatto Megumi. In quella fatidica serata di vent’anni prima un commando di spie nordcoreane l’aveva presa, infilata in un sacco, caricata su un canotto e poi imbarcata su un falso peschereccio. Insomma, Megumi era finita in Corea del Nord, assieme a diversi altri, giapponesi e non, rapiti talvolta a caso, talvolta in maniera solo leggermente più mirata, infilati nelle pieghe di una Guerra fredda mai terminata.

    È una storia poco conosciuta, quella di Megumi e degli altri rapiti. Eppure vale la pena di ascoltarla, di rifletterci sopra, perché ci racconta di come, spesso, la storia s’impossessi delle vite di persone del tutto innocenti, costringendole a esperienze eccezionali, non ricercate.

    Per capire questa esperienza, per comprendere quanto la forza degli eventi possa essere sovrastante, c’è un luogo vicino a Tōkyō che bisogna visitare.

    Quel posto è Yokohama. E’ una bella città, sostanzialmente parte della megalopoli, caratterizzata da una splendida Chinatown e dal distretto portuale noto come Minato Mirai.

    In quest’ultima area c’è un comprensorio conosciuto in inglese come Red Brick Park. Lì, in uno spoglio e brutto capannone, si può entrare nel Museo della Guardia costiera.

    Una volta entrati, è facile che si venga accolti da un volontario, in genere una persona anziana, pronta a raccontarvi cosa c’è in questa struttura. E c’è un reperto fondamentale: un’intera nave-spia nordcoreana. Proprio una di quelle che venivano utilizzate per i rapimenti. Chissà, magari proprio quella usata per portare via Megumi.

    La Corea del Nord è la metà settentrionale della Penisola coreana. È una repubblica democratica popolare nata dopo il ritiro giapponese, che ha colonizzato la Corea tra il 1910 e il 1945, e associata all’Unione Sovietica e alla Cina. Fondata da Kim Il Sung (1912-1994), sopravvissuta alla devastante guerra del 1950-1953, alla caduta del comunismo e alla fine dell’Unione Sovietica, è oggi governata dal nipote di Kim Il Sung, cioè Kim Jong Un. È un regime a partito unico, fortemente piramidale, in cui tutto il potere è demandato al leader ed esercitato attraverso strutture di controllo estremamente coercitive. Tra queste, fondamentale è l’apparato di spionaggio e sicurezza.

    Questo Paese, dal molti definito distopico, ritorna spesso, negli ultimi anni, nelle cronache internazionali perché è riuscito a sviluppare armi nucleari e missili intercontinentali. La sua inimicizia con il Giappone è conclamata e, assieme agli Stati Uniti, Kim non manca l’occasione per minacciare l’Arcipelago sia con le parole che con gli atti. Per esempio, facendo talvolta sorvolare il Sol levante dai suoi missili.

    Tra i mezzi per decenni utilizzati dalla Corea del Nord per mettere sotto pressione il Giappone, ci sono le navi-spia.

    Quella che potrete visitare a Yokohama ha una storia particolare.

    Alla fine del 2001 l’attenzione del mondo era concentrata su quanto era accaduto a New York l’11 settembre: l’attentato alle Torri Gemelle.

    Il 21 dicembre nel mar Cinese Orientale, nelle vicinanze dell’isola di Amami Ōshima, una stazione d’osservazione dell’intelligence nipponica rilevò uno strano peschereccio cinese. Una nave scura, in tutto e per tutto simile a una nave da pesca. Tranne che per un dettaglio: le antenne che aveva sulla sommità erano evidentemente fuori scala.

    Non era la prima volta che le Forze di autodifesa nipponiche s’imbattevano in una nave del genere. Avevano accusato Pyongyang di aver inviato navi-spia in passato, senza intervenire con la forza. Ma in questa fase si viveva un momento particolare. La questione dei rapiti stava esplodendo in tutta la sua rilevanza, c’era una particolare sensibilità al tema delle violazioni della sovranità.

    Così quattro navi della Guardia Costiera furono inviate a ispezionare l’imbarcazione sospetta. Circondato il peschereccio, ordinarono l’alt. Il misterioso equipaggio, però, si guardò bene dall’attenersi all’ordine, così dalle navi nipponiche partirono 25 colpi d’avvertimento.

    Cominciò l’inferno. Dalla nave-spia si iniziò a sparare colpi di arma automatica, oltre che razzi da un bazooka. Per sei ore ci fu una vera e propria battaglia navale.

    Alla fine, ritenendosi ormai perduti, i marinai nordcoreani fecero scoppiare qualcosa di non identificato nella nave che, dopo poco, affondò con il suo equipaggio. Probabilmente fu un auto-affondamento: pur di non essere catturati dai giapponesi i 15 componenti della squadra nordcoreana preferirono darsi la morte.

    Poco più di un anno dopo la battaglia, i giapponesi decisero di tirar su l’imbarcazione dal fondo del mare. Un po’ per dimostrare che, effettivamente, si trattava di una nave-spia della Corea del Nord, cosa che Pyongyang continuava a negare, un po’ per studiarla.

    La posero poi in mostra al Museo della Guardia Costiera, dove anche voi potete osservarla.

    La ruggine non è riuscita a divorarla. Sulla chiglia potrete apprezzare i buchi provocati dai proiettili sparati dai giapponesi. Ma anche l’ingegnosa doppia chiglia, con la poppa rialzabile. Quando questa si sollevava, l’acqua invadeva la stiva facendo galleggiare un leggero barchino in vetroresina dotato di due potenti motori di costruzione svedese. Un bolide, insomma, col quale era possibile fare incursioni a terra, mentre la nave-madre si teneva al largo, a distanza di sicurezza.

    La sera del 15 novembre 1977, dunque, le cose andarono così: Megumi, uscita da scuola, ebbe l’incredibile sfortuna d’incappare in un commando nordcoreano. Questi, una volta immobilizzata la ragazzina e infilata probabilmente in un sacco – come avrebbero fatto in seguito in diversi altri rapimenti – la trascinarono per poche centinaia di metri fino al mare, dove li attendeva un canotto o un barchino del tipo osservabile a Yokohama.

    Raggiunta la nave-spia, la liberarono dal sacco e l’infilarono in una stanzetta che era stata ricavata nella stiva proprio per chiudervi le persone che, di volta in volta, venivano catturate. Era completamente buia. Probabilmente la ragazza era stata anche drogata.

    La nave-spia era in grado di viaggiare a circa sessanta chilometri all’ora, ben più velocemente, insomma, di un qualsiasi peschereccio.

    Per arrivare alla base nordcoreana da cui partivano queste navi-spia c’erano voluti probabilmente quattro giorni e quattro notti di navigazione. Ma, per la povera Megumi chiusa al buio, sarebbe stato impossibile capire quanto tempo era passato dal rapimento. Aveva strillato, aveva pianto. Pare che una volta tirata fuori dalla stiva, fosse piena di sangue e non avesse più le unghie: le aveva rotte tutte durante il viaggio cercando di uscire. Conosciamo questi dettagli dai racconti di fuoriusciti nordcoreani.

    Che fine fece poi Megumi?

    Non ne abbiamo tuttora idea. Secondo la Corea del Nord, che nel 2001 dovette ammettere i rapimenti, sarebbe morta suicida tra il 1993 e il 1994 (furono fornite diverse date), mentre era ospite di un manicomio. Si era sposata, aveva avuto una bambina (la quale ha a sua volta avuto una figlia, quindi oggi Megumi sarebbe nonna).

    Tuttavia, al di là delle poco credibili affermazioni nordcoreane, in realtà nessuna prova definitiva è stata fornita del fatto che l’ex studentessa sia morta. Come diversi altri rapiti e scomparsi, sulla cui sorte Pyongyang non ha voluto finora fare chiarezza, potrebbe essere viva, tuttora prigioniera, dispersa in un punto indefinito della storia, a oltre trent’anni dalla fine della Guerra fredda.

    5.

    Mangiare il miglior sushi del mondo

    Pa rliamoci chiaro: cercare di indicare quale sia il miglior sushi del Giappone (e quindi del mondo) è un po’ come andare a Napoli e sostenere che questa o quella pizzeria sia la migliore della città: un’operazione impossibile che sarà sempre oggetto di critiche e di versioni contrapposte. Per certo possiamo dire che in

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