Inemuri. L’arte giapponese di addormentarsi dove e come si vuole
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In Giappone addormentarsi in pubblico è considerato perfettamente normale. Inemuri, la parola che indica questi brevi pisolini, è spesso erroneamente tradotta con “dormire in servizio”, ma ha un significato tutt’altro che negativo. Letteralmente, infatti, inemuri è “essere presenti” mentre si dorme.
Ecco spiegato il motivo per cui è facilissimo incontrare distinti uomini d’affari assopiti in metropolitana o tantissimi studenti che si prendono un momento di pausa, sonnecchiando tra una lezione e l’altra. Può sembrare un controsenso: i giapponesi – il popolo che “non dorme mai” – non hanno nessuna remora a farsi vedere mentre schiacciano un pisolino in pubblico.
Brigitte Steger, ricercatrice di fama internazionale, ha studiato questo fenomeno affascinante. Per capire come fanno i giapponesi ad addormentarsi velocemente e in qualunque luogo, così da ricaricare in fretta le energie.
Il risultato è un manuale sorprendente, ricco di suggerimenti utili e che fornisce uno sguardo inedito sul paese del Sol Levante.
Impara a fare inemuri e rimani giovane ed efficiente!
«I giapponesi non concepiscono l’inemuri come riposino: è semplicemente un’assenza temporanea dal corpo dopo ore e ore passate a lavorare o a studiare.»
Huffington Post
«I giapponesi non dormono, non fanno pisolini. Fanno inemuri.»
BBC
«Addormentarsi in pubblico? In Giappone è un segno di scrupolosità.»
New York Times
«Dopo averne per anni indagato i motivi, l’autrice crede di essere arrivata a capire cosa si nasconda dietro questo fenomeno e quali insegnamenti potremmo trarne.»
Huffington Post Italia
«Secondo la dottoressa Steger, la traduzione più appropriata di “inemuri” è “dormire stando presenti”. E ruota intorno a un perno della filosofia giapponese del tempo: fare tante cose simultaneamente, magari a bassa intensità.»
Corriere della sera
Brigitte Steger
Insegna all’Università di Vienna nella facoltà di Studi Orientali. Ha ricevuto premi e riconoscimenti per la sua ricerca innovativa sull’inemuri, il metodo giapponese per addormentarsi.
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Anteprima del libro
Inemuri. L’arte giapponese di addormentarsi dove e come si vuole - Brigitte Steger
Introduzione
Spesso i turisti stranieri in Giappone osservano un’abitudine molto particolare tra la gente del posto, ossia quella di fare un riposino in pubblico. I treni sono pieni di gente che dorme, persone sfinite sonnecchiano ai lati della strada, sedute su un muretto, c’è chi cerca un posto tranquillo in un locale o in un centro commerciale. I tassisti si assopiscono nelle loro auto con il motore e l’aria condizionata accesi mentre attendono i clienti, e i giovani fattorini fanno un sonnellino seduti nel motocarro. Ho visto anche persone dormire alle prime ore del mattino in una discoteca proprio accanto agli altoparlanti, a eventi sportivi, concerti o durante una cena al ristorante. È assolutamente normale assopirsi anche in situazioni di lavoro, nel mezzo di una conferenza, in biblioteca, durante una riunione o sui banchi di scuola.
In Giappone questo modo di dormire è chiamato inemuri. La parola è formata dai caratteri: i(ru), «essere presente» e nemuri, «dormire», quindi può essere tradotta come «essere presenti mentre si dorme» o «sonno vigile», e identifica l’abitudine di assopirsi in treno, alla guida di un veicolo (una causa frequente di incidenti), al cinema, al ristorante, in biblioteca, a una conferenza, durante una riunione, in ufficio o in classe. L’inemuri può durare solo pochi secondi, ma anche diverse ore. Sebbene la posizione più comune in cui si pratica l’inemuri sia da seduti, si può fare anche da sdraiati o in piedi.
Biblioteca dell’Università Sophia, Tokyo.
© Brigitte Steger
Il termine inemuri non fornisce alcuna indicazione sulla profondità del sonno o sulla presenza di attività onirica, ma indica semplicemente l’atto di dormire mentre ufficialmente si sta facendo qualcos’altro. Pertanto si distingue non solo dal sonno notturno a letto, ma anche dal pisolino sul divano dopo pranzo o dal power napping
in una stanza per il relax in ufficio.
Un fattorino a Tokyo mentre fa un riposino.
© Brigitte Steger
I caratteri cinesi per inemuri:
La pratica dell’inemuri risulta sorprendente perché non sono solo giovani in abiti casual, operai o senzatetto ad abbandonarsi a un sonnellino in pubblico, ma anche uomini in giacca e cravatta o donne eleganti in tailleur. Anche alle nostre latitudini è normale vedere pendolari o viaggiatori dormire in treno, ma finora non ho mai visitato né ho mai sentito parlare di altri Paesi in cui gli impiegati dormono con tale frequenza, un po’ dappertutto e assumendo qualsiasi postura, che sia in piedi o seduti. Dormire in pubblico sembra essere in contraddizione con l’immagine che i giapponesi danno di sé.
Da decenni sentiamo parlare della loro estrema dedizione al lavoro, tanto che «giapponese» è diventato quasi sinonimo di «maniaco del lavoro». Come si concilia questa loro fama con il fatto che è del tutto naturale che bambini e adolescenti dormano in classe o che gli uomini d’affari si appisolino nel bel mezzo di una riunione? Se in Giappone dormire a letto o sul futon è considerato un segno di pigrizia, come mai assopirsi durante un evento o addirittura al lavoro non è malvisto? Che senso ha incoraggiare i bambini e i giovani a stare alzati fino a tardi la sera per studiare se il giorno dopo si addormentano in classe o non riescono a concentrarsi mentre fanno i compiti e passano la giornata a sonnecchiare?
Il mio interesse per le abitudini di riposo dei giapponesi è nato durante il mio primo soggiorno in Giappone nel 1989-90, durante il quale ho vissuto per otto mesi principalmente a Tokyo. Nei primi mesi abitavo proprio all’incrocio di una strada a otto corsie. A causa del rumore riuscivo ad addormentarmi solo quando ero totalmente esausta. Un giorno gli operai si sono messi a spaccare la strada con il martello pneumatico dopo mezzanotte perché non volevano ostacolare il traffico diurno, o almeno questa era l’idea che mi ero fatta. Il fatto di togliere il sonno ai residenti era chiaramente di secondaria importanza. Anche a seguito di altri comportamenti, come le telefonate ricevute a tarda sera o al mattino presto, le visite di routine della polizia la domenica mattina presto e simili, ho dedotto che, rispetto allo svolgimento indisturbato del lavoro e di altre attività, si dava poca importanza al riposo notturno.
Uno scaffale di bevande vitaminiche ed energetiche in un negozio di Tokyo.
© Brigitte Steger
A quel tempo, il Giappone era nella fase apicale della congiuntura nota come bolla economica. La vita quotidiana era frenetica. Le persone sembravano vivere in un permanente stato di stress, con le agende piene di appuntamenti di lavoro e di piacere e pochissimo tempo per dormire. Lo slogan pubblicitario di una bevanda energetica: «Ce la fai a tenere duro per 24 ore? Businessman. Businessman. Japanese businessman» era paradigmatico dello stile di vita alla fine degli anni Ottanta. Molti si lamentavano: «Noi giapponesi siamo pazzi a lavorare così tanto». Ma in questo disappunto c’era anche l’orgoglio di essere più diligenti e, si supponeva, moralmente migliori del resto della popolazione mondiale. A me sembrava che nessuno si sottraesse a questa frenesia. L’unico modo di uscire da quel ritmo incalzante era ammalarsi. E così mi è capitato spesso di sentire di conoscenti che si sono assentati dal lavoro per diversi mesi a causa di un esaurimento. E i media parlavano di un numero sempre maggiore di bambini che si rifiutavano di andare a scuola o addirittura di alzarsi la mattina. Alcuni impiegati che «lavoravano come pazzi» non sono riusciti a fermarsi in tempo e sono stati colpiti da karōshi: morte improvvisa da eccesso di lavoro.
Dopo alcuni mesi nei pressi dell’incrocio rumoroso mi sono trasferita in una zona più tranquilla della città, ma per andare in ufficio ho dovuto rinunciare alla bicicletta e usare i mezzi pubblici. Così, in metro vedevo tutti i giorni un sacco di persone addormentate. Qualcuno dormiva perfino in piedi, e la cosa non sembrava sorprendere nessuno. I miei nuovi coinquilini giapponesi continuavano a farmi notare, forse invidiosi, quanto dormissi (in realtà erano solo sette o otto ore), quasi a dire: «Ma quanto sei pigra!» Perché loro invece passavano solo cinque o sei ore a letto per notte e avevano sempre un sacco di cose da fare. Ma, alla sera mi capitava spesso di tornare in sala da pranzo dopo aver lavato i piatti e trovarli tutti addormentati sul pavimento. Questi sonnellini, come anche quelli durante il tragitto quotidiano per andare al lavoro, non erano tuttavia considerati un vero e proprio dormire.
I miei coinquilini dopo cena.
© Brigitte Steger
Fu questa apparente contraddizione a incuriosirmi. Dopo anni di studio delle abitudini di sonno dei giapponesi e soprattutto dell’inemuri, innumerevoli interviste, osservazione e consultazione di molte fonti, non solo ho fatto scoperte interessanti che mi hanno avvicinato alla società e alla cultura giapponese, ma mi sono anche resa conto che le loro pratiche di riposo sono perfettamente sensate. Desidero quindi invitare le lettrici e i lettori a fare un viaggio con me nell’affascinante mondo delle abitudini di riposo dei giapponesi, per scoprire se e cosa possiamo imparare da queste esperienze e raccogliere spunti da mettere in pratica nelle nostre vite.
Le abitudini di sonno dei giapponesi
Il futon
Il letto
dei giapponesi è piuttosto diverso da come lo conosciamo noi. Molto amati anche in Europa, i futon giapponesi sono materassini di cotone che divennero popolari soprattutto tra gli studenti negli anni Settanta e Ottanta. Tuttavia, i primi futon erano duri e si consumavano velocemente. Si è quindi provveduto a dotarli di strati di crine di cavallo, lattice o lana di pecora per soddisfare le crescenti esigenze e la necessità di una maggiore attenzione alla salute. In Giappone, circa metà della popolazione dorme nei letti, l’altra metà nei futon.
Di norma i futon giapponesi sono imbottiti esclusivamente di cotone. Sia la base o materasso (shikibuton) che la trapuntina (kakebuton) si chiamano futon. Ecco perché ci si sdraia dentro i futon
e non sopra. Per dormire, i futon vengono di solito stesi sui cosiddetti tatami. Queste stuoie di giunco, tese su un telaio di legno e sostenute da spessi strati di paglia, sono più morbide dei pavimenti in parquet, laminato o moquette che si trovano comunemente nei moderni appartamenti. Per questo motivo le abitazioni delle città giapponesi hanno di solito almeno una stanza rivestita di tatami. Tra l’altro, anche le dimensioni delle stanze vengono indicate in tatami: un’unità a Kyoto è di circa 180 × 90 cm, mentre a Tokyo un po’ meno.
«Il nonno piega il futon subito dopo essersi alzato la mattina» (serie di diapositive della Japan Foundation per il corso di lingua giapponese). Quello che sta piegando è un futon senbei.
© Japan Foundation
Chiunque si rechi in Giappone noterà presto che molti appartamenti hanno un balcone, che di solito è rivolto a sud. Nessuno però sfrutta il balcone per sedersi fuori e godersi un buon caffè, ma si usa per stendere i futon, asciugare il bucato e a volte come deposito di rifiuti ingombranti. Per dormire in futon asciutti e soffici, è molto importante stenderli fuori al sole ogni giorno quando fa bel tempo. A causa dell’alta umidità che caratterizza il clima in Giappone, i futon di cotone non solo diventerebbero presto umidi, ma anche compatti e duri. Un futon appiattito è chiamato futon senbei; un senbei è un cracker di riso. Chi non ha la fortuna di avere un balcone esposto a sud o chi lavora a tempo pieno deve cercare altre soluzioni. Da un po’ di tempo a questa parte esistono dei phon per futon, una sorta di aspirapolvere che funziona al contrario e soffia aria calda e asciutta tra le coperte.
Mentre da noi questi materassini vengono arrotolati per mantenerne la morbidezza, in Giappone di giorno i futon vengono piegati e riposti uno sopra l’altro in un grande armadio. Questo compito spetta alle casalinghe e alle madri. Per quanto ho potuto vedere io stessa e constatare nelle mie interviste, sono pochi gli uomini che ripongono regolarmente il futon nell’armadio. A meno che non vivano da soli, si fanno carico di questa incombenza per lo più nel fine settimana e solo per sé stessi.
Nel seguente estratto da un’intervista, Masagata, un insegnante universitario trentenne di Sapporo, conferma queste osservazioni. Essendo sposato con una tedesca, i compiti e il loro svolgimento vanno dapprima concordati tra loro due. I Masagata hanno una grande casa e durante il giorno la camera da letto non viene utilizzata.
BS: Dormite su dei letti?
M: No, dormiamo nei futon.
BS: E li lasciate stesi a terra tutto il giorno?
M: Sì, li lasciamo lì. Però personalmente non mi piace. Se fosse per me andrebbero messi via, ma anche quando lo dico, poi nessuno lo fa. È quello che avviene d’abitudine in Europa con i letti.
BS: E tu non li metti via?
M: No. Mi piacerebbe metterli via, ma poi dovrei riporre anche quello di mia moglie Susanne, ed è una bella scocciatura riporre e stendere ogni giorno i materassini. Quando vivevo da solo, lo facevo sempre. Non mi piace affatto vedere il futon tutto il giorno nella stessa stanza dove si mangia e ci si intrattiene. Ma ora che viviamo insieme, bisogna mettere via i futon di due persone, ed è molto faticoso.
BS: Riporre i futon è tradizionalmente un compito che spetta alle donne?
M: Fammi pensare! Sì, penso che sia così. Di solito se ne occupano le madri. Quando ho avuto una stanza tutta mia, beh, sì, in effetti, lo lasciavo steso a terra alla mattina e dopo ci pensava mia madre. Anche se era la mia stanza privata, lei entrava spesso per fare le pulizie e con il futon tra i piedi non riusciva a pulire. Le ho detto più volte che non volevo che mettesse via il futon. Ma ovviamente non potevo ripeterglielo tutti i giorni. Le madri vogliono la casa pulita. Ecco perché ripongono loro i futon. E mio padre? Mmm. Non l’ho mai visto mettere via i futon. A casa nostra lo fa sempre mia madre. Quando vado a trovare i miei genitori e dormo da loro, mia madre stende sempre un futon anche per me e lo riscalda con l’apposito phon.
I futon che rimangono stesi nella stanza durante il giorno sono chiamati mannentoko, «letto di 10 000 anni». Non riporre i futon nell’armadio è considerato un segno di pigrizia. Il futon è un ottimo indicatore per stabilire se una donna è una casalinga capace e una brava moglie e madre. Quanto spesso stende il futon fuori al sole? Lo fa regolarmente? Il futon è riposto nell’armadio quando riceve visite inattese? Che aspetto ha il futon? È soffice e morbido o è appiattito e sporco?
«Il piccolo Minoru aiuta sempre la nonna a riporre i futon nell’armadio» (serie di diapositive della Japan Foundation per il corso di lingua giapponese).
© Japan Foundation
I giapponesi non usano i futon da sempre. In epoca antica, circa mille anni fa, i nobili dormivano su materassini pieghevoli stesi sul pavimento di legno (cfr. figura seguente). Questi materassini si sono poi evoluti nei tatami (significato letterale: piegato) in uso al giorno d’oggi. Ma la grande maggioranza non poteva permettersi questo lusso. Per molti secoli, per gli abitanti delle campagne era comune dormire in una sorta di ripostiglio senza finestre nell’angolo più remoto della casa, stipati uno accanto all’altro sul pavimento di legno o di terra. Nella stagione fredda usavano paglia o foglie secche per rendere più confortevole il loro giaciglio.
Sebbene in alcune zone del Giappone fosse conosciuto da molto tempo, il cotone non fu coltivato fino al
XVI
secolo. Le persone benestanti poterono presto permettersi di far riempire di cotone i loro abiti in foggia kimono per l’inverno. Questi kimono imbottiti le proteggevano dal freddo e dalle correnti d’aria durante il giorno e servivano come coperta e materassino durante la notte. Con il tempo, quest’ultimo si è evoluto nel futon, che a partire dal
XVII
secolo iniziò a diffondersi in diverse di fasce della popolazione.
Anche i cuscini (makura) iniziarono ben presto a far parte della dotazione per il riposo notturno. Ma non dobbiamo immaginarci un morbido guanciale di piume. Sarebbe forse più corretto parlare di sostegni per la testa in quanto il più delle volte si trattava di una scatola di legno rivestita con un pezzo di stoffa imbottito con baccelli di grano saraceno che poteva essere sostituito. Soprattutto le donne di alto rango o quelle nei quartieri del piacere dovevano stare molto attente a non rovinare la loro acconciatura mentre dormivano, per questo il loro makura era molto alto. Nella scatola si custodivano strumenti di scrittura, lettere d’amore o immagini erotiche che, per questo motivo, sono dette anche immagini makura.
Dalla serie umoristica Lezioni morali per apprendisti commercianti (Kyōkun zen’aku kozō soroi) di Utagawa Kuniyoshi, 1857: mentre nel giorno di festa i due apprendisti irreprensibili dormono e si riposano, gli altri tre si alzano stranamente presto e si preparano a partire. Solo a Capodanno e alla Festa degli Antenati era permesso agli apprendisti di tornare a casa.
© Sepp Linhart
Per molto tempo, le classi sociali più basse dovettero accontentarsi anche come sostegno per la testa di un pezzo di legno o di un fagotto di indumenti e solo più tardi usarono semplici cuscini imbottiti di baccelli di grano saraceno o di steli secchi. Sebbene questi cuscini tradizionali siano ancora diffusi e amati, al giorno d’oggi i giapponesi possono scegliere tra un’ampia gamma di materiali. I cuscini di piuma sono piuttosto rari a causa dell’alto grado di umidità.
È da notare che solo dopo la Restaurazione Meiji nel 1868, cioè dopo l’apertura del Giappone all’Occidente e l’inizio della modernità, il tatami e il futon divennero lo standard in tutto il Paese. I telai dei letti e i materassi a molle, allora ancora una novità introdotta dall’Occidente, erano all’inizio poco diffusi. I primi a mostrare interesse per questi arredi esotici furono i proprietari dei bordelli per attirare i clienti, così come oggi in alcuni love hotel si può scegliere tra un romantico letto a baldacchino, una navicella spaziale, un arredo sado-maso