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La bambina venuta dalla foresta
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E-book389 pagine5 ore

La bambina venuta dalla foresta

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Info su questo ebook

Ai primi posti delle classifiche negli Stati Uniti

Un libro incredibile che riesce a toccare le corde più intime del cuore

Con il cuore infranto per la perdita di sua madre, Joanna Teale decide di tornare a dedicarsi alla sua passione e riprendere in mano la ricerca universitaria sugli uccelli che nidificano nelle foreste dell’Illinois. Vuole dimostrare a sé stessa che le difficoltà non possono fermarla, e così si getta nell’impresa con abnegazione. La sua solitudine viene però interrotta dall’apparizione di una misteriosa bambina, che si presenta alla sua porta a piedi nudi e coperta di lividi. La piccola dice di chiamarsi Orsa, e sostiene di essere stata mandata dalle stelle per assistere a cinque miracoli. Preoccupata per la bambina, Jo accetta – seppure con riluttanza – l’idea di trattenerla con sé, almeno fino a quando non saprà di più sul suo passato. Ma Jo non può farcela da sola, e così chiede l’aiuto del vicino, Gabriel Nash, per risolvere il mistero della bambina delle stelle. Più tempo trascorrono insieme, infatti, e più domande assillano Jo: come fa una ragazzina così piccola non solo a leggere ma anche a capire Shakespeare? Perché in sua presenza continuano a succedere cose straordinarie? Chi è davvero Orsa? Anche se Jo e Gabriel sentono di essersi affezionati a quella bambina, sanno bene che ci sono decisioni difficili che li attendono. E con l’arrivo dell’estate, si avvicina anche il quinto miracolo… Quando un pericoloso segreto del passato si abbatterà su di loro, le stelle saranno in grado di proteggerli?

Bestseller del «Wall Street Journal» e del «Washington Post» 
Oltre mezzo milione di copie solo negli Stati Uniti 
In corso di traduzione in 24 Paesi

«Un romanzo commovente, ricco di fascino e mistero.» 
Booklist 

«Una storia splendidamente umana che ci ricorda come a volte abbiamo bisogno di guardare le stelle oltre le cime degli alberi e far entrare un po’ di luce nella nostra vita.» 
New York Journal of Books 

«Una storia originale, fantasiosa ed emozionante. L’autrice è riuscita a creare un mondo molto reale e, al contempo, decisamente straordinario.» 
Taylor Jenkins Reid
Glendy Vanderah
È un’ornitologa che si è occupata per anni di uccelli in via di estinzione. Originaria di Chicago, vive in Florida con il marito, insieme a svariati uccelli, farfalle e fiori selvatici, di cui si prende cura. La bambina venuta dalla foresta è il suo romanzo d’esordio, che ha ottenuto uno straordinario successo, scalando le classifiche del «Wall Street Journal» e del «Washington Post» e diventando finalista ai prestigiosi Goodreads Choice Awards.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2021
ISBN9788822750501
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    Anteprima del libro

    La bambina venuta dalla foresta - Glendy Vanderah

    1

    La bambina sembrava una specie di changeling. Pallida, con il cappuccio e i pantaloni che si confondevano tra gli alberi illuminati dal crepuscolo alle sue spalle, era quasi invisibile. Era scalza. Se ne stava lì immobile, con un braccio attorno al tronco di un noce, e non si mosse nemmeno quando l’auto arrivò in fondo al vialetto facendo scricchiolare la ghiaia e fermandosi a pochi metri da lei.

    Jo spense il motore e distolse lo sguardo prima di raccogliere binocolo, zaino e fogli dal sedile del passeggero. Forse, se non la guardava, quella ragazzina se ne sarebbe tornata nel suo mondo fatato.

    Invece era ancora lì quando scese dall’auto. «Ti vedo», disse Jo rivolta alla piccola ombra attaccata al tronco.

    «Lo so», fece lei.

    Gli scarponi di Jo lasciavano tracce di fango secco sul vialetto di ingresso. «Ti serve qualcosa?».

    La piccola non rispose.

    «Che ci fai nella mia proprietà?»

    «Volevo accarezzare il tuo cane, ma lui non ha voluto».

    «Non è mio il cane».

    «E di chi è?»

    «Di nessuno», disse infine aprendo la porta della veranda. «Faresti meglio a tornare a casa finché c’è ancora luce». Accese la lanterna antizanzare e aprì l’ingresso di casa. Tornò subito indietro per chiudere a chiave la porta di legno della veranda. La bambina doveva avere sì e no nove anni, ma meglio non fidarsi.

    Nel giro di quindici minuti Jo si era già fatta una doccia e infilata maglietta, pantaloni della tuta e ciabatte. Accese le luci in cucina, attirando un piccolo esercito di insetti contro il vetro della finestra. Mentre sistemava l’occorrente per la griglia ripensò alla piccola sotto il noce. Di sicuro avrebbe avuto paura di restare nella foresta con il buio, e immaginò che a quel punto se ne fosse tornata da dove era venuta.

    Jo portò un petto di pollo marinato e tre spiedini di verdure verso un braciere improvvisato in mezzo al piccolo prato che separava la casetta di legno gialla da ettari di campagna illuminati dalla luna. Il cottage dei Kinney era una costruzione anni Quaranta sulla cima di una collina di fronte alla foresta, con alle spalle una piccola prateria che il proprietario bruciava regolarmente per tenere a bada le piante infestanti. Accese il fuoco al centro del cerchio di sassi e sistemò la griglia. Vi aveva appena posato il pollo quando un’ombra girò l’angolo della casa facendola irrigidire. Era la bambina. Si fermò a pochi metri dal fuoco, guardando Jo che finiva di mettere a cuocere gli spiedini di verdure. «Non ce l’hai un forno?», chiese.

    «Sì».

    «E perché cucini fuori?».

    Jo si accomodò su una delle quattro sedie da giardino mezze rotte. «Perché mi piace».

    «L’odore è buono».

    Se era lì per elemosinare cibo, i pensili vuoti della sua cucina l’avrebbero di certo delusa. Una biologa al lavoro sul campo non ha tempo di fare la spesa. Aveva la tipica parlata strascicata locale, e il fatto che fosse scalza suggeriva che abitasse da quelle parti. Perché non se ne andava a cena a casa sua?

    La ragazzina si avvicinò, le fiamme colorarono le sue guance rosse e i capelli biondi, ma non i suoi occhi, che apparivano ancora come due misteriosi buchi neri in mezzo alla faccia.

    «Non pensi che sia ora di andare a casa?», disse Jo.

    Si avvicinò. «Io non ho una casa sulla Terra. Sono arrivata da lì», e indicò verso il cielo.

    «Da dove?»

    «Orsa maggiore».

    «La costellazione?».

    La ragazzina annuì. «Vengo dalla Galassia Girandola, vicino alla coda dell’Orsa».

    Jo di galassie non ne sapeva niente, ma le sembrò che quello fosse proprio il tipico nome che inventerebbe un bambino. «Mai sentito parlare della Galassia Girandola».

    «Siete voi che la chiamate così, noi abbiamo un nome diverso».

    Jo riuscì a vedere i suoi occhi. Una scintilla di intelligenza sin troppo scaltra su quel viso di bambina, che lei interpretò come la prova che si stesse inventando tutto. «Se sei un’aliena, perché hai le sembianze di un essere umano?»

    «Sto usando il corpo di questa bambina».

    «Allora dille di tornarsene a casa sua e di portarti con sé».

    «Ma non può. Era morta quando l’ho trovata. Se tornasse a casa i suoi genitori si spaventerebbero».

    Okay, uno scherzo zombie, Jo ne aveva sentito parlare. Ma quella ragazzina aveva scelto la casa sbagliata se voleva fare l’aliena zombie con lei. Non era mai stata particolarmente brava con i bambini e i loro giochi di immaginazione, nemmeno quando era stata piccola lei stessa. I suoi genitori, entrambi scienziati, dicevano che era la doppia dose di geni super analitici ad averla resa così. Scherzavano spesso dicendo che era nata già con la fronte corrugata, come se stesse formulando ipotesi su dove si trovasse e chi fossero tutte quelle persone in sala parto.

    L’aliena nel corpo umano guardò Jo mentre girava il pollo.

    «Farai meglio a tornare a casa tua», le disse. «I tuoi saranno in pensiero».

    «Ma te l’ho detto, non ho…».

    «Ti serve il telefono?», disse tirando fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni.

    «E chi dovrei chiamare?»

    «Se vuoi posso chiamare io, dammi il numero».

    «Ma se sono venuta dalle stelle, come faccio ad avere un numero di telefono?»

    «E la ragazza di cui hai preso il corpo? Dammi il suo, di numero».

    «Non so niente di lei, nemmeno come si chiama».

    Jo era troppo stanca per qualsiasi gioco avesse in mente, era sveglia dalle quattro del mattino e aveva sgobbato tra boschi e campi umidi e afosi per più di tredici ore. Ed era così quasi ogni giorno, da settimane. Quindi le ore che trascorreva al cottage la sera erano un momento prezioso per scaricarsi. «Se non te ne vai chiamo la polizia», disse quindi cercando di avere un tono più duro.

    «E la polizia che farà?», chiese l’altra, come se non avesse mai sentito quella parola.

    «Riporterà le tue chiappe a casa».

    La ragazzina incrociò le braccia sul petto ossuto. «E cosa farà quando dirò che non ho una casa?»

    «Ti porterà alla caserma e troverà i tuoi genitori o chiunque siano le persone con cui vivi».

    «E che farà quando chiamerà quelle persone e scoprirà che la loro vera figlia è morta?».

    A quel punto Jo non ebbe più bisogno di fingersi arrabbiata. «Sai che non è per niente un bel gioco quello di far finta di essere soli al mondo? Dovresti tornartene a casa, sicuramente ci sarà qualcuno in pensiero per te».

    La ragazzina strinse ancora di più le braccia al petto, ma non disse niente.

    Forse le serviva una piccola doccia fredda. «Se davvero non hai una famiglia, allora la polizia ti troverà un affido».

    «Che cos’è?»

    «Quando uno vive con estranei, che a volte sono cattivi, quindi sbrigati a tornare a casa tua prima che chiami qualcuno».

    Non si mosse.

    «Guarda che non scherzo».

    La sagoma del cucciolone che da qualche sera andava a mendicare cibo intorno al fuoco di Jo si stagliò poco distante, rischiarata a malapena dalla luce del fuoco. La ragazzina si accucciò, allungò la mano e cercò di attirarlo con una vocina dolce per poterlo accarezzare.

    «Non si avvicina», le disse Jo. «È selvatico, deve essere nato in natura».

    «E sua madre dov’è?»

    «Chi lo sa?». Jo mise via il telefono e girò gli spiedini. «C’è una ragione in particolare per cui hai paura di andare a casa?»

    «Perché non vuoi credere che vengo dalle stelle?».

    Quella piccola cocciuta non aveva proprio capito che era ora di darci un taglio. «Nessuno crederà che sei un’aliena, lo sai?».

    La bambina camminò fino al limitare della prateria, poi sollevò il viso e le braccia al cielo farfugliando in una presunta lingua aliena. Le parole fluivano, come in un idioma che si conosce bene, e quando ebbe finito si voltò compiaciuta verso Jo con le mani sui fianchi.

    «Spero che fosse una richiesta al tuo popolo perché ti vengano a riprendere», disse Jo.

    «Era una formula di saluto».

    «Una formula di saluto… che parolone».

    La bambina si riavvicinò al fuoco. «Non posso tornare, ancora. Devo rimanere sulla Terra finché non avrò visto cinque miracoli. Fa parte della nostra formazione, quando raggiungiamo una certa età, un po’ come la scuola».

    «Ah, be’, allora ti toccherà restare un bel po’. Sono almeno due millenni che nessuno trasforma l’acqua in vino».

    «Ma non parlavo dei miracoli della Bibbia».

    «E che tipo di miracoli, allora?»

    «Qualsiasi», fece lei. «Tu sei un miracolo, e anche quel cane. Per me questo è un mondo tutto nuovo».

    «Ottimo, ne hai già due quindi?»

    «No, conterò solo le cose veramente fighe».

    «Ah, grazie!».

    La piccola si accomodò su una sedia da giardino accanto a Jo. Il petto di pollo sgocciolava grasso marinato nel fuoco, riempiendo l’aria di un odore delizioso. La piccola lo guardava con l’aria di avere una fame molto reale e tutt’altro che immaginaria. Forse la sua famiglia non poteva permettersi da mangiare. Jo si meravigliò di non averci pensato subito.

    «Che ne dici di mangiare qualcosa prima di andare a casa?», le disse. «Ti va un sandwich col tacchino?»

    «Come faccio a sapere che sapore ha?»

    «Ne vuoi uno o no?»

    «Ne voglio uno. Devo provare cose nuove mentre sono qui».

    Jo mise il petto di pollo a raffreddare accanto alla griglia prima di entrare in casa a prendere un burger di tacchino surgelato, un panino e le salse. Si ricordò che c’era un’ultima fetta di formaggio in frigorifero e la aggiunse alla cena della bambina. Ne aveva sicuramente più bisogno di lei.

    Tornò fuori, mise la carne sul fuoco e sistemò il resto sulla sedia vuota accanto a sé. «Spero che ti piaccia il formaggio».

    «Ho sentito parlare del formaggio», rispose. «Dicono che sia buono».

    «Chi lo dice?»

    «Quelli che sono già stati qui. Prima di venire sulla Terra studiamo un po’».

    «Come si chiama il tuo pianeta?»

    «Difficile da dire nella vostra lingua. Una specie di Aarret atenaip. Tu ce li hai i marshmallow?»

    «Gli Aarretiani ti hanno parlato dei marshmallow?»

    «Dicono che i bambini li mettono su un bastoncino e li fanno squagliare sul fuoco. Dicono che sono buoni».

    Ecco la scusa perfetta per aprire la confezione di marshmallow che aveva comprato in un raptus appena arrivata al cottage. Sperava di riuscire a consumarli prima che scadessero. Andò a prenderli dalla dispensa in cucina e lanciò la busta in grembo all’aliena. «Però prima di mangiare questi devi finire la cena».

    L’aliena andò in cerca di un bastoncino e tornò a sedersi con i marshmallow in grembo e gli occhi scuri fissi sulla carne che stava finendo di cuocere. Jo fece tostare il pane e mise uno spiedino di patate, broccoli e funghi sul piatto accanto al cheeseburger. Portò fuori due drink. «Ti piace il sidro?».

    La piccola lo assaggiò. «È buonissimo!».

    «Abbastanza da essere un miracolo?»

    «No», fece l’aliena, che però tracannò più di mezzo bicchiere in un batter d’occhio.

    Aveva praticamente già finito la sua cena, quando Jo non era ancora al primo boccone. «Quand’è l’ultima volta che hai mangiato?», le chiese.

    «Sul mio pianeta», rispose con una guancia piena di cibo.

    «E quando è stato?».

    Inghiottì. «Ieri sera».

    Jo posò la forchetta. «Sei rimasta a digiuno per un giorno intero?».

    La piccola si mise in bocca un cubetto di patata. «Ma fino a ora non ho avuto voglia di mangiare. Avevo una specie di nausea, tra il viaggio fino alla Terra e poi lo scambio dei corpi eccetera».

    «Ma stai mangiando come se stessi morendo di fame!».

    La ragazza spezzò metà del suo ultimo boccone di carne e lo lanciò al cucciolo, probabilmente per dimostrare che non stava affatto morendo di fame. Il cane lo mandò giù altrettanto velocemente e, quando l’aliena gli offrì un altro piccolo assaggio dalla sua mano, le si avvicinò guardingo e glielo prese dalle dita prima di ritrarsi masticando. «Visto?», disse. «L’ha preso dalla mano».

    «Ho visto». Ma quel che vedeva, in realtà, era una bambina sola e in difficoltà. «È un pigiama quello che indossi?».

    La piccola abbassò lo sguardo sui pantaloni. «Immagino che sia così che lo chiamate voi umani».

    Jo si tagliò un altro boccone di pollo. «E tu, come ti chiami?».

    La piccola era in ginocchio e provava ad avvicinarsi piano piano al cucciolo. «Non ho un nome terrestre».

    «E qual è il tuo nome alieno?»

    «Difficile…».

    «Prova».

    «Suona un po’ come Eerpud-na-asro».

    «Eer pu…?»

    «No, Eerpud-na-asro».

    «Okay, Eerpud, adesso voglio che tu mi dica la verità: che ci fai qui?».

    Rinunciò al cane e si alzò in piedi. «Posso aprire i marshmallow?»

    «Prima mangia i broccoli».

    Guardò il piatto che aveva lasciato sopra la sedia. «Sono quelli verdi?»

    «Esatto».

    «Non mangiamo cose verdi sul mio pianeta».

    «Ma se mi hai appena detto che devi provare cose nuove».

    Si mise in bocca i tre fiori di broccoli uno dopo l’altro. Aprì la busta dei marshmallow che stava ancora finendo di masticarli.

    «Quanti anni hai?», chiese Jo.

    Finì di inghiottire i broccoli. «La mia età non avrebbe senso per un essere umano».

    «E quanti anni ha il corpo che hai preso?».

    Infilzò il marshmallow con il bastoncino. «Non lo so».

    «Devo proprio chiamare la polizia», fece Jo.

    «Perché?»

    «Lo sai perché. Avrai quanto… nove anni, dieci? Non puoi startene in giro da sola di sera. Evidentemente qualcuno non si prende cura di te».

    «Se chiami la polizia io scappo».

    «Ma perché? Può aiutarti».

    «Non voglio vivere con estranei cattivi».

    «Ma io scherzavo, sicuramente troveranno delle brave persone».

    Intanto la piccola infilzò il terzo marshmallow. «Pensi che a Orsetto piacerebbero i marshmallow?»

    «Chi è Orsetto?»

    «Il cucciolo. L’ho chiamato così, per via dell’Orsa Minore, la costellazione vicino alla mia. Non ti pare che somigli a un piccolo orso?»

    «Non darglieli. Lo zucchero gli fa male». Jo prese gli ultimi pezzetti di pollo e li tirò al cane, troppo distratta per finire la cena. La carne sparì in un secondo nella gola del meticcio, e Jo gli offrì anche le verdure avanzate dagli spiedini.

    «Sei gentile», disse la piccola.

    «Sono stupida. Adesso non me ne libererò più».

    «Ohhhhh!». La piccola si portò i marshmallow infuocati al viso e soffiò per spegnere il fuoco.

    «Falli raffreddare».

    Non aspettò e si infilò in bocca la massa calda gommosa. I marshmallow sparirono rapidamente e la piccola ne mise sul fuoco un’altra porzione mentre Jo riportava i piatti in cucina. Mentre li lavava, si decise per una strategia diversa. Quella del poliziotto cattivo non stava funzionando. Se voleva ottenere qualcosa, doveva guadagnarsi la fiducia di quella ragazzina.

    La trovò seduta per terra a gambe incrociate, con Orsetto tutto contento che le leccava i residui di marshmallow dalla mano. «Non avrei mai detto che quel cane potesse accettare cibo da una persona», commentò.

    «Anche se ho una mano umana, lui lo sa che vengo da Aarret atenaip».

    «E questo cambia le cose?»

    «Abbiamo poteri speciali. Possiamo far accadere cose belle».

    Povera piccola. Chissà quanto deve aver sofferto. «Posso usare il tuo bastoncino?»

    «Per i marshmallow?»

    «No, per cacciarti da casa mia».

    La bambina sorrise, aveva una fossetta sulla guancia sinistra. Jo infilò due marshmallow sul bastone e li allungò sul fuoco. La bambina tornò alla sua sedia con il cane ai piedi, miracolosamente addomesticato. Quando furono ben abbrustoliti su ogni lato e raffreddati abbastanza, Jo li mangiò direttamente dal bastone.

    «Non sapevo che anche gli adulti mangiassero marshmallow».

    «È un segreto che i bambini terrestri non conoscono».

    «Come ti chiami?»

    «Joanna Teale. Ma quasi tutti mi chiamano Jo».

    «E vivi qui da sola?»

    «Solo per l’estate. Ho preso questa casa in affitto».

    «Perché?»

    «Se vivi in fondo a questa strada – cosa di cui sono sicura – il perché lo sai già».

    «Non vivo in fondo alla strada. Dimmelo».

    Jo si sforzò di non contestare quella bugia, ricordandosi la strategia del poliziotto buono. «Questa casa e i settanta acri che ha intorno sono di proprietà di un professore di scienze, il dottor Kinney. La mette a disposizione degli altri professori e degli studenti per fare ricerca».

    «Non vuole viverci?».

    Jo poggiò il bastoncino accanto al fuoco. «L’ha comprata quando aveva circa quarant’anni. Lui e sua moglie ci venivano in vacanza e a fare ricerche sugli insetti acquatici giù al torrente, ma sei anni fa hanno smesso di venirci».

    «Perché?»

    «Perché hanno settant’anni e la moglie è malata e deve stare vicino a un ospedale. Quindi adesso usano questa casa come fonte di guadagno, ma la affittano solo a scienziati».

    «Tu sei una scienziata?»

    «Sì, ma sono ancora studentessa».

    «Che significa?»

    «Che ho finito i primi quattro anni di università e ora devo studiare ancora, lavorare come assistente e fare ricerca per poter finire il dottorato».

    «Che cos’è un dottorato?»

    «Una specie di super laurea. Con quella, potrò lavorare come insegnante di scienze all’università».

    La ragazzina si leccò le dita sporche e piene di bava di cane e si strofinò il residuo annerito di marshmallow che aveva sulla guancia. «Professore è uguale a insegnante, giusto?»

    «Sì, e quelli che studiano nel mio campo di solito fanno anche ricerca».

    «Che cos’è la ricerca?».

    Quanta curiosità. Una vera scienziata in erba. «Io per esempio mi occupo di ecologia degli uccelli e conservazione».

    «E in pratica che cosa fai?»

    «Basta con le domande, Eer pu…».

    «Eerpud!».

    «Adesso devi proprio andare. Io mi alzo molto presto la mattina e bisogna che vada a dormire». Jo tolse la sicura alla pompa e spense il fuoco con l’acqua.

    «Devi spegnerlo sempre?»

    «Così dice l’orso Smokey». Il fuoco sibilò e svaporò, soccombendo al potere dell’acqua.

    «È triste», disse la piccola.

    «Che cosa?»

    «L’odore di cenere bagnata». Il suo volto sembrava bluastro alla luce fluorescente della cucina che filtrava dalla finestra, come se fosse tornata di colpo una changeling.

    Jo rimise la sicura alla pompa. «E adesso mi racconti che ci fai qui?»

    «Ma te l’ho detto», disse la piccola.

    «Dai, io devo davvero rientrare e non sono a mio agio al pensiero di lasciarti fuori da sola».

    «Me la cavo».

    «Andrai a casa?»

    «Forza, Orsetto», disse la bambina. E il cane, incredibilmente, obbedì.

    Jo guardò la piccola aliena e il bastardino allontanarsi verso la foresta scura. Un’immagine triste come l’odore di cenere bagnata.

    2

    La sveglia suonò alle quattro, come sempre nei giorni in cui doveva allontanarsi molto per raggiungere un’area di studio. Si vestì alla luce di una piccola lampada, prima una maglietta, poi una blusa, pantaloni con le tasche e gli stivali. Fu quando accese la luce sopra i fornelli che si ricordò della bambina. Strano a dirsi, dato che non aveva pensato ad altro prima di riuscire a prendere sonno. Guardò in giardino, le sedie attorno al fuoco erano vuote. Uscì sulla veranda illuminata. Nessun segno della piccola. Probabilmente era tornata a casa.

    Mentre finiva di cuocersi il porridge, preparò un panino al tonno che mise via insieme all’acqua e alla frutta secca. Venti minuti dopo era già fuori e raggiunse il sito alle prime luci dell’alba. L’aria era ancora fredda quando si mise in cerca dei nidi di zigolo lungo Church Road, il meno ombreggiato tra i suoi nove siti di osservazione. Qualche ora dopo si spostò al sito della Jory Farm, e dopo in Cave Holland Road.

    Staccò alle cinque, un po’ prima del solito. Erano due anni che l’insonnia non le dava tregua, da quando sua madre aveva ricevuto la diagnosi e poi era morta, ma per qualche ragione da tre giorni a quella parte la sua ansia era peggiorata. Voleva mettersi a letto alle nove in punto e recuperare qualche ora di sonno.

    Si fermò a comprare qualcosa a un banchetto, ma arrivò comunque su Turkey Creek Road così presto che il Ragazzo delle uova, un giovane barbuto, era ancora seduto sotto la sua tenda blu all’incrocio con la superstrada. Nei rari giorni in cui Jo era di riposo – in genere a causa della pioggia – aveva notato che il tipo era piuttosto regolare, vendeva uova il lunedì sera e il giovedì mattina.

    Quando la vide svoltare le fece un cenno di saluto. Lei ricambiò, dispiaciuta di non potergli comprare altre uova perché ne aveva ancora almeno quattro in frigorifero.

    Turkey Creek Road era una stradina senza uscita, non asfaltata, che finiva con il torrente e con la proprietà dei Kinney. Ci voleva un po’ per percorrerla tutta in automobile, anche con un fuoristrada. Dopo il primo chilometro si restringeva, si faceva tutta curve, buche e pozzanghere, e verso la fine era anche particolarmente ripida e pericolosa nei punti in cui il torrente – nei periodi di piogge forti – l’aveva consumata. La via del ritorno era il suo momento preferito della giornata. Ogni curva poteva svelare una sorpresa, un tacchino, una famiglia di quaglie, a volte una lince rossa. Alla fine si affacciava sul torrente roccioso, e un sentiero sulla sinistra conduceva al cottage in cima alla collina.

    Stavolta però non c’erano animali selvatici quando svoltò sulla strada di casa. C’erano l’aliena dell’Orsa Maggiore e il suo cane, Orsetto. La piccola indossava gli stessi vestiti della sera prima, ed era ancora scalza. Jo parcheggiò e saltò giù dalla macchina senza nemmeno togliere la marcia. «Che ci fai ancora qui?»

    «Te l’ho detto», rispose. «Vengo da…».

    «Devi tornare a casa tua!».

    «E lo farò! Giuro che lo farò quando avrò visto i miei cinque miracoli».

    Jo tirò fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni. «Mi dispiace. Devo chiamare la polizia…».

    «Se lo fai, scappo. E mi trovo un’altra casa».

    «Ma non puoi! È pericoloso, non sai chi puoi incontrare…».

    La bambina incrociò le braccia al petto. «Allora non chiamare».

    Buona idea. Meglio non farlo davanti a lei. Jo rimise via il telefono. «Hai fame?»

    «Un po’», rispose la piccola.

    Probabilmente non mangiava dalla sera prima. «Le uova ti piacciono?»

    «Ho sentito dire che le uova strapazzate hanno un buon sapore».

    «C’è un tipo che vende uova qui in fondo alla strada. Vado e torno». La bambina guardò Jo avviarsi alla macchina. «Se mi stai mentendo e porti qui la polizia, io scappo».

    La disperazione che vide negli occhi della ragazzina la mise a disagio. Svoltò su Turkey Creek Road dopo aver fatto manovra. Si fermò a un chilometro e mezzo dal cottage, su una collina, sperando di trovare una connessione sufficiente e digitò le informazioni per ottenere il numero dello sceriffo. Dopo tre tentativi falliti, mise via il telefono. Aveva un’idea migliore.

    Arrivò giusto in tempo. Il Ragazzo delle uova aveva smontato il suo banco e il cartello Uova fresche, ma non aveva ancora messo via il tavolo e i tre cartoni di uova invendute che erano rimasti sulla sedia. Jo parcheggiò sul ciglio della strada tra le erbacce e prese il portafogli. Aspettò dietro di lui mentre si chinava sul tavolo per piegarne le gambe. Non l’aveva mai visto per intero perché ogni volta che si era fermata a comprare le uova era seduto. Era alto circa un metro e ottanta, con i muscoli scolpiti dal duro lavoro quotidiano, il tipo di forza proporzionata e armoniosa che Jo preferiva a quella gonfia e tesa da sollevamento pesi.

    Si girò e le sorrise, guardandola più a lungo del solito. «Un’improvvisa voglia di omelette?», disse, notando il portafoglio.

    «Magari», replicò Jo, «ma non ho il formaggio. Dovrò accontentarmi di farle strapazzate».

    «Sì, be’, senza formaggio l’omelette non si può fare».

    Aveva comprato le uova da lui tre volte da quando era arrivata cinque settimane prima, e non le aveva mai detto tante parole tutte insieme. Di solito la sua parte della transazione si limitava a un cenno con la testa, una mano callosa che prendeva i soldi, e un «grazie», se gli diceva che poteva tenere il resto. Il Ragazzo delle uova era un mistero per lei. Era portata a credere che se vendi uova per la strada devi essere come minimo un po’… lento, mentre i suoi occhi – che spiccavano sul viso barbuto – erano azzurri e taglienti come pezzi di vetro. Doveva essere anche giovane, più o meno suo coetaneo, e non capiva perché un ragazzo intelligente e giovane dovesse vendere uova in mezzo al nulla.

    Il Ragazzo delle uova lasciò cadere sull’erba il tavolo piegato e le chiese: «Una dozzina o mezza?».

    Jo non rilevò traccia della cadenza tipica degli abitanti del Sud dell’Illinois. «Una dozzina», disse, allungandogli una banconota da cinque.

    Lui prese una scatola da sopra la sedia e le offrì il resto. «Va bene così», fece Jo.

    «Grazie», disse, infilandosi i soldi nella tasca posteriore. Poi prese il tavolo e lo caricò sul suo vecchio pick-up bianco. Jo lo seguì. «Posso chiederti una cosa?».

    Ripose il tavolo nel bagagliaio aperto del furgone e si voltò verso di lei.

    «Sì».

    «Ho un problema».

    A lui si accesero gli occhi, più per curiosità che per preoccupazione.

    «Tu vivi su questa strada, giusto?»

    «Sì», disse. «La proprietà proprio accanto a quella di Kinney, in effetti».

    «Ah, non lo sapevo».

    «Qual è il tuo problema, vicina?»

    «Immagino che tu conosca tutte le persone che vivono su questa strada… dato che probabilmente vendi loro le uova».

    Annuì.

    «Ieri sera si è presentata nella mia proprietà una bambina. Per caso hai sentito parlare di bambini scomparsi da casa?»

    «No».

    «Ha circa nove anni, magra, lunghi capelli biondo scuro, grandi occhi castani… un bel viso, interessante, una specie di ovale con una fossetta su una guancia quando sorride. Ti suona familiare?»

    «No».

    «Eppure deve essere di queste parti. È scalza e indossa il pigiama».

    «Dille di andare a casa».

    «Ci ho provato, ma si rifiuta. Penso che potrebbe avere paura di farlo. Non ha mangiato per un giorno intero».

    «Forse è meglio che chiami la polizia».

    «Dice che se lo faccio scapperà. Mi ha raccontato questa storia assurda

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