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Come tutte le madri
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E-book483 pagine6 ore

Come tutte le madri

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Info su questo ebook

Dall’autrice di L’opposto di me stessa, un romanzo unico sulle famiglie, quelle che abbiamo, quelle che vorremmo e su tutte le storie che ci raccontiamo.

Eccezionale e affascinante. Un romanzo meravigliosamente costruito sulle amicizie al femminile.” — MarieClaire

E se trovassi la famiglia perfetta, ma non fossela tua?

Abi ha sempre desiderato una vera famiglia, molto diversa da quella che le è toccata in sorte, soprattutto a causa di sua madre, che per lei non c’è mai stata davvero. Ecco perché, quando rimane incinta di uno studente australiano in visita, non ci pensa due volte e si trasferisce a Sydney per vivere con lui e realizzare il suo sogno. Essere una brava mamma e occuparsi con cura del bambino. Come tutte le madri sanno fare.

Ma la realtà è ben diversa, Stu è un incapace e l’Australia è grande, calda e per lei incomprensibile. Abi si ritrova priva di punti di riferimento.

Finché un giorno non conosce Phyllida, la sua vicina di casa. Lei è la madre che Abi avrebbe voluto avere. Una che tiene le foto dei figli come trofei, che si occupa di cucinare pasti gustosi e sani, che sa ascoltare e consigliare. Le due diventano inseparabili. Se non fosse per la piccola bugia che Abi ha detto il primo giorno che si sono incontrate…

Dopo il grande successo internazionale di L’opposto di me stessa, HarperCollins pubblica il primo romanzo di Meg Mason. Una storia divertente, irresistibile ed emozionante sulle famiglie, l’amicizia e le piccole bugie a fin di bene che a volte diciamo.

LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2023
ISBN9788830592964
Come tutte le madri

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    Anteprima del libro

    Come tutte le madri - Meg Mason

    PARTE I

    1

    Buon ritorno a casa

    Da dietro sembrava quasi che la ragazza tremasse, ma poteva essere il costante movimento sussultorio con cui cullava il bambino piccolo nel marsupio.

    Brigitta, in coda alle sue spalle, la vide togliere un articolo per volta dal bancone della farmacia aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. Un pacchetto di salviette profumate e un Twix furono i primi a essere sacrificati. Poi il deodorante formato viaggio e la confezione da due ciucci di plastica azzurra. Ogni volta chiedeva al commesso di rimettere alla prova la sua carta di credito. «E così? E adesso?»

    A mano a mano che le urla secche e stridule del bambino si rafforzavano, il movimento sussultorio della ragazza si faceva più frenetico. Brigitta cercò di essere paziente. In realtà, però, voleva solo pagare la sua acqua e trovare un angolo deserto dell’aeroporto dove passare la notte.

    Guardò l’orologio. Era ancora sul fuso di Sydney. Immaginò che fosse mezzogiorno a Londra, e qualche orario assurdo lì a Singapore. Da più di quaranta minuti erano stati tutti scaricati dall’aereo, dopo essere rimasti fermi per il doppio del tempo sulla pista, mentre la pioggia martellava la fusoliera facendo sembrare l’interno dell’aeromobile un capanno di lamiera.

    Ogni dieci minuti il capo cabina aveva fatto un annuncio per chiedere di pazientare, finché alla fine aveva comunicato, suscitando versi di scherno dai passeggeri, che quella notte non c’erano voli in partenza e cominciava lo sbarco. Aveva avvisato che nessuno poteva uscire dal terminal, nel caso fosse richiesto di imbarcarsi di nuovo con scarso preavviso.

    Ora il terminal traboccava di viaggiatori esausti dall’aria un po’ sudicia e la coda che si stava formando dietro Brigitta iniziava a emanare un’energia inquieta.

    «E solo questi?» chiese la ragazza. Restava sul bancone un unico pacco di pannolini da neonati. Parlava con un forte accento di Croydon, anche se all’orecchio di Brigitta, allenato dalla scuola di teatro e da un anno e mezzo passato in un monolocale di Kentish Town, sembrava che si fosse un po’ sforzata di eliminare l’impronta di South London. «Quanto vengono i pannolini da soli?»

    Brigitta capì che ormai era sull’orlo delle lacrime e avvertì un moto di compassione. Restare bloccati per ore da soli era brutto, figurarsi con un bambino piccolo…

    «Li vendete singoli allora?» implorò la ragazza. «Perché sono così cari?»

    Brigitta spostò il peso da un piede all’altro. Quando la carta di credito della ragazza fu rifiutata nuovamente, Brigitta si sporse in avanti e le batté sulla spalla. La ragazza si girò ad affrontarla.

    In circostanze normali o con una luce più favorevole, la sua faccia avrebbe potuto essere molto graziosa. Ma la carnagione pallida, perfetta a parte una sottilissima cicatrice sulla fronte, era tirata e smorta, tinta di lilla sotto gli occhi scuri a mandorla. L’orlo delle palpebre luccicava di lacrime. I capelli ramati erano raccolti all’indietro e legati con un elastico; due ciocche sfuggite sul davanti avevano le punte seghettate, quasi fossero state tagliate con una forbice da scolari. Brigitta lanciò un’occhiata nel marsupio e vide che il bambino era piccolissimo; sotto il bordo imbottito spuntava solo la cima di una morbida testolina bruna.

    «Senti, ti spiace se pago le nostre cose insieme con la mia carta?» sussurrò Brigitta. «Così almeno ce ne usciamo di qui?»

    «Oh, no, non potrei mai. Ecco, passa prima tu. Scusa.»

    Si fece da parte mentre l’uomo dietro il bancone prendeva i pannolini e li gettava in un cestino di plastica ai suoi piedi.

    «Non essere sciocca» disse Brigitta, «è chiaro che ne hai bisogno. Chissà per quanto rimarremo bloccati. Davvero.» Poi rivolgendosi al commesso disse decisa: «Prendiamo tutte quelle cose lì, grazie». Brigitta gli porse una Visa nera. Be’, in realtà si trattava di una carta di sua madre, solo per le emergenze, ma questa chiaramente lo era.

    «Se mi scrivi i tuoi recapiti, posso rimborsarti quando arrivo in Australia» disse la ragazza, accettando il sacchetto della spesa con uno sguardo di scuse imbarazzatissimo.

    «Oh, buffo. Io arrivo proprio da lì» rispose Brigitta. «Ma non preoccuparti. Non mi dispiace affatto l’idea di essere la salvatrice, per una volta, al posto della salvata.» D’impulso Brigitta tese la mano e strinse quella della ragazza. «Buon ritorno a casa, se è lì che stai andando.»

    «Anche a te» disse l’altra. Alla porta si separarono e si avviarono in direzioni opposte, verso i rispettivi voli che, quando il tempo fosse migliorato, le avrebbero portate tanto lontano da casa quanto era possibile andare.

    2

    Sto sdraiata lì

    Il cancello non si apriva, ma Abi non poteva tornare indietro proprio adesso. Tirò forte il chiavistello, sull’altro lato dei paletti, finché il ferro arrugginito non le fece spuntare una piccola mezzaluna carnosa sul pollice. Il chiavistello si spostò di un promettente centimetro, poi si bloccò. Con l’altra mano Abi teneva il manubrio della pesante carrozzina di Jude per impedirle di scendere lungo il ripido sentiero che, staccandosi dalla passeggiata principale intorno a Cremorne Point, conduceva a quello spazio chiuso circondato da grandi alberi. Protetta dalla loro ombra, continuò ad armeggiare con il chiavistello. In alto una folla di uccelli dai colori vivaci beccava le dure noci nere cresciute a grappoli intorno ai tronchi, gettando i gusci vuoti sul sentiero con un ticchettio simile alla pioggia.

    Il bisogno di Abi di varcare quel cancello crebbe fino a una specie di furia. Faceva un tale caldo. Feroce al sole, umido all’ombra e così implacabilmente soffocante in pianura che il sudore formava un rivolo continuo dal collo, attraversando il reggiseno, fino alla vita dei calzoncini di jeans.

    Prima di arrivare al cancello Abi aveva trovato un piccolo campo giochi erboso ed era entrata per allattare Jude, sicura che, sebbene adesso il luogo fosse deserto ed esposto al sole cocente, altre madri avrebbero cominciato ad arrivare da un momento all’altro. Quasi immediatamente una bambina unta di crema solare era apparsa dal nulla correndo verso le altalene.

    «Due minuti, ciccia, non di più, fa troppo caldo. No. Emily! Il cappello lo tieni» le aveva gridato una voce femminile alta e chiara. Abi aveva raddrizzato la schiena.

    «Brucia, eh?» aveva detto la donna, entrando lentamente e vedendola lì. Si tolse gli occhiali da sole e si mise a pulirli con un lembo della maglietta. «Dov’è il tuo maggiore?»

    Abi aveva fatto un sorriso vivace. «Io ho solo questo.»

    «Dio.» La donna era parsa quasi offesa. «Allora cosa ci fai al parchetto?»

    Abi non aveva saputo cosa rispondere, così dopo un intervallo di cortesia aveva smesso di allattare Jude e lo aveva rimesso agitato e infelice nella carrozzina, per poi proseguire lungo il sentiero.

    Solo dopo la curva seguente erano apparsi alla sua destra dei forti lampi di luce dorata tra gli alberi e Abi era scesa trotterellando dove si trovava ora, a sbirciare cosa c’era al di là del cancello. Anche se il pianto di Jude aumentava suggerendo uno stato quasi di inedia, lei riusciva solo a osservarla piena di meraviglia.

    Una piscina. Un lungo, stretto rettangolo di acqua profonda, bordato sui quattro lati da una piattaforma di legno sbiancata dal sole. L’estremità sporgeva a sbalzo sopra l’acqua mossa e lucente del porto, ma i bordi di cemento erano dipinti di un azzurro municipale che in qualche modo faceva diventare l’acqua all’interno di un verde pallido, quasi da fiume. Incantata, Abi cercò di individuare una similitudine adatta, ma la sua mente stanca non poté pensare a niente di meglio del dentifricio Aquafresh al gusto di menta fredda. Dall’altra parte dello steccato non c’era nessuno, un venticello increspava la superficie della piscina. Il pensiero di spingere di nuovo la carrozzina in salita senza prima toccare l’acqua, immergerci i polsi per raffreddare il sangue, concentrò la sua energia. Mentre il pianto di Jude raggiungeva il picco, provò a spingere più a fondo il chiavistello nel cilindro, nel caso il trucco fosse quello.

    Non era così.

    «Cazzo.»

    Il nodo che sentiva dietro lo sterno si strinse mentre Jude si scatenava. Magari bisognava pagare qualcuno che ti dava la chiave? Sperava di no, visto che non aveva ancora soldi australiani.

    Quando anche lo sforzo successivo fallì, un’ondata di debolezza intensa le attraversò il corpo. Era stato così difficile arrivare fin lì. Ogni tratta, da Croydon a Heathrow. Quelle otto ore solitarie bloccata a Singapore. Fino ad arrivare in Australia e in un appartamento all’ultimo piano di quel sobborgo sconosciuto.

    Ma il suo percorso era stato stabilito dal momento in cui una stanca dottoressa del centro medico studentesco aveva confermato la sua gravidanza. A quel punto Abi già lo sapeva, ma restava così profondamente terrorizzata da quella prospettiva che, quando aveva portato a casa un test dalla farmacia, si era scoperta incapace, in tre diversi tentativi, di stillare una sola goccia del liquido necessario. Solo quando gli estranei avevano cominciato a cederle il posto sull’autobus e gli altri studenti del campus a guardarla in modo eloquente, nonostante le magliette larghe e il montgomery da uomo che aveva iniziato a indossare, Abi si era costretta a fissare una visita.

    All’ambulatorio la dottoressa tirò fuori un dépliant intitolato I tre trimestri, sbarrò i primi due con un pennarello e lo fece scivolare verso di lei sulla scrivania.

    «Come hai fatto a non accorgerti?» le chiese, irritata.

    «Ho pensato che stavo solo ingrassando.» Abi non riusciva a guardare negli occhi la dottoressa.

    «Ma sei così minuta, non hai notato quando ha cominciato a vedersi?»

    «Non si è visto per un sacco di tempo» rispose sinceramente Abi. «E comunque a casa non ho uno specchio dove ci si vede per intero. Bisogna mettersi in piedi sul water ma si arriva solo fin qui.» Fece un movimento a sega appena sotto il petto.

    La dottoressa prese da un cassetto un disco di cartone a due strati che giravano su un fermaglio, e scuotendo la testa ruotò il cerchio più piccolo e interno.

    «Allora, se le date che mi hai detto sono giuste, il termine è fra dieci settimane, il 13 gennaio. Ma davvero non lo sapevi?»

    Abi tenne gli occhi fissi in grembo.

    «Da quanto sei sessualmente attiva?» chiese la dottoressa, esaurita dal compito di fare da barriera fra tutti gli ovuli e lo sperma presenti nel campus della Kingston University.

    «Ah, non sono attiva» disse Abi arrossendo. «In realtà sto sdraiata lì e basta.»

    La dottoressa sospirò e ripose il disco di cartone nel cassetto. «Comunque, se sai chi è il padre, fossi in te lo avviserei al più presto.»

    3

    È nato un salvatore

    Quel giorno Abi si fermò alla pensilina del bus fuori dall’ambulatorio e cercò di chiamare Stu, ma non aveva credito sul telefono. Tornata all’Highside Circuit si chiuse in camera sua, slacciò il complicato sistema di elastici che da qualche tempo teneva chiusi i suoi jeans e si sedette davanti al computer portatile massiccio e antico. Non si poteva ragionevolmente rimandare oltre. E poi Abi doveva cominciare a pianificare una fuga. Non voleva tirare su il bambino nelle ex case popolari in cui era cresciuta, e dove ancora viveva con sua madre Rae, che in generale passava sedici ore al giorno sulla poltrona del soggiorno con addosso piumino e berretto per difendersi dal freddo tremendo, e una tazza di passato di verdura Weight Watchers che faceva la pellicina sul tavolino di fronte a lei.

    Si rianimava quando la vicina Pat arrivava con la sua rivista OK! da scambiare con quella che prendeva Rae, Hello, e si fermava a guardare Ballando con le stelle senza mai lasciare che la sigaretta perdesse la sua umida presa sul labbro inferiore.

    Ogni tanto le due si dedicavano al collage, incollando immagini delle riviste su album economici comprati al discount. A Pat piacevano le foto eleganti, con belle acconciature e trucco, preferibilmente scattate a casa delle star. Rae prediligeva esempi del fatto che le celebrità sono come noi!, quindi di rado rivolgevano le forbici verso la stessa preda.

    «Cosa ti piace di più, la samba o la rumba?» chiedeva ogni tanto Rae alla figlia, un occhio sul collage, l’altro sul palco scintillante.

    Avvolta in un sacco a pelo sul divano di fronte, Abi rispondeva che non le importava. Poi, sentendosi in colpa: «Forse la samba».

    «Oh, ma senti un po’ come siamo raffinati» diceva Pat ogni volta che Abi parlava con un accento che non fosse quello di Croydon duro e puro. Abi l’aveva adottata come strategia di sopravvivenza non appena aveva iniziato ad andare a scuola dall’altra parte del fiume. Lì non te la potevi cavare con un accento di South London; avrebbero capito subito che eri una con la borsa di studio.

    «Sahm-ba. Saahm-ba» la imitava Pat. «Hai sentito, mamma? Uuuh, mi piace ballare la saahm-ba

    «Lasciala stare, eh, Pat. Adesso danno i punteggi.»

    Ora, nel freddo della sua camera, Abi aprì Instant Messenger. Stu risultava online, e lei cominciò a scrivere.

    Pensò di aggiungere una faccina sorpresa, ma non voleva sembrare frivola. Poi ci fu una lunga pausa che Abi sapeva non dovuta, in quel caso, al bisogno di Stu di guardarsi le mani mentre digitava. Era un solido studente di architettura con una sorprendente dislessia, notevolmente più abile con penna e carta millimetrata. Quando Stu sta scrivendo apparve e scomparve altre due volte, Abi non poté sopportarlo.

    Abi sollevò la canottiera e si guardò la pancia mentre sotto la superficie passava una lieve increspatura. Una manina, forse un piede.

    Dopodiché Stu attraversò un ciclo accelerato di rabbia, negazione, dolore, accettazione e la salutò.

    Nelle settimane successive escogitarono un piano. Stu avrebbe finito l’anno accademico in Australia, si sarebbe guadagnato i soldi del biglietto con i turni al pub fino a Natale, poi avrebbe preso un volo per Londra due settimane prima del termine della gravidanza. Dopo, appena possibile, l’intenzione era di tornare a Sydney e, nelle parole di Stu, provarci insieme.

    «L’unica cosa è che non potrai stare da me» disse Abi durante una delle rare telefonate. «Non c’è spazio. Io dovrò fare i bagagli e comunque mia mamma non sta particolarmente bene. Pensi di poter trovare un altro posto?»

    «La vedrò mai casa tua, cosa dici?» rispose Stu. «Sono preoccupato che cuciniate metanfetamina.»

    Abi rise. «Ma no, la vedrai. E la metanfetamina è per uso personale.» Si salutarono e riattaccarono. Il piano era pronto.

    Due giorni prima di Natale, nella corsia dei prodotti per unghie di Superdrug, un flusso di liquido caldo lungo la gamba di Abi annunciò l’arrivo anticipato di Jude. Un’ora dopo, nella sala d’aspetto del St George’s Hospital a Tooting, Abi afferrava un inserviente per il colletto tirando tanto da cominciare a scucirlo. L’ostetrica, china alle caviglie della ragazza, la implorò di togliersi gli slip perché il bambino premeva la testa sulla stoffa bagnata.

    Nel momento in cui Abi ricevette fra le braccia il corpicino scivoloso e perfetto di suo figlio, accanto a loro si accesero spontaneamente le luci di un piccolo albero di Natale artificiale. L’inserviente si raddrizzò il colletto. «È nato il salvatore, eh?»

    L’uomo rise, ma Abi dentro di sé sapeva che era vero. Cinque ore dopo, Jude fu ufficialmente dichiarato non prematuro con un vantaggio di tre giorni e centocinquanta grammi, ed ebbe il via libera per le dimissioni. Abi chiamò un economico minicab e quella sera, sul suo letto singolo, imparò insieme a lui come allattare.

    Dall’altra parte della camera c’era il letto di sua sorella, da tempo senza lenzuola e declassato a piano d’appoggio. Ogni volta che Jude si svegliava di notte, e Abi doveva restare vigile mentre allattava, mormorava nel buio come se Louise fosse sdraiata là. La poppata delle quattro era la più solitaria, quando tutte le luci erano spente nel casermone visibile dalla finestra ghiacciata, dove Abi aveva sgombrato un cerchio con la mano.

    A tre settimane dalla nascita, Abi portò Jude a Heathrow – sulla District Line fino a Earl’s Court e poi un cambio – con una valigia di vestiti che sarebbero risultati troppo pesanti e una copia di Il primo anno con il tuo bambino presa in biblioteca. Aveva intenzione di restituirla prima di partire ma, non avendo avuto tempo, ora non le restava che strappare il risguardo con il timbro Proprietà della biblioteca distrettuale di Wandsworth.

    4

    Mi sa che gli piaci più di me

    Per tutto quel periodo Abi era stata spinta da una forza che sembrava del tutto esterna a lei, ma adesso che finalmente era lì, riunita a Stu, non sapeva bene cosa doveva fare. Erano rimasti separati per otto mesi, il doppio di quanto erano stati insieme.

    Mentre diventava sempre più rotonda e contava i giorni fino al momento di portare il suo bambino in Australia, Abi aveva cercato di immaginare come sarebbe andata. L’appartamento offerto dai genitori di Stu, lui come padre, e Sydney, che lei conosceva allora tramite un mosaico di documentari naturalistici, la soap opera Home and Away e una cartolina natalizia di Bondi Beach che sua madre aveva trovato da qualche parte e che aveva appeso perché Babbo Natale su una tavola da surf la faceva sempre ridere.

    Sydney non avrebbe avuto quartieri di merda, di questo Abi era sicura. Sydney sarebbe stata moderna e pulita, e riccamente popolata di amiche mamme. Non come le ragazze madri più giovani di lei che bazzicavano fuori dal centro commerciale Centrale e davano ancora il ciuccio ai figli di quattro anni, li schiaffeggiavano sulle gambe fino a farli piangere e poi li facevano smettere corrompendoli con un sorso di Fanta. Abi avrebbe conosciuto brave madri simpatiche, come lei stessa voleva diventare. A Sydney le sue cattive abitudini se ne sarebbero andate come quando si cambia pelle. Dire parolacce e bugie. Sostituire la colazione con una Red Bull. Mangiarsi le unghie, succhiarsi i capelli. Per esserne sicura, prima di andare via dall’Highside Circuit per l’ultima volta Abi si era messa in piedi sul water del minuscolo bagno e si era tagliata i capelli a caschetto con le forbicine delle unghie, per poi avvolgere le punte irregolari nella carta igienica e farle sparire tirando l’acqua.

    All’aeroporto, Stu era in ritardo. Quando arrivò, trafelato, la trovò che aspettava da una parte, vicino alla valigia e alla carrozzina ripiegata.

    «Ehi piccola, sei di nuovo in anticipo! Sta diventando un’abitudine» disse, cercando di abbracciarla in modo da inglobare il marsupio sul davanti. Un attimo dopo si raddrizzò e si strofinò il mento, come se si fosse preparato solo per l’abbraccio e ora non sapesse che fare.

    «Vuoi vederlo?» disse Abi rendendosi conto che Stu non glielo chiedeva, sebbene il terminal B degli arrivi, accanto al gabbiotto Avis, fosse il sacro terreno del primo incontro tra padre e figlio.

    Stu si irrigidì un poco mentre lei toglieva Jude dal marsupio. «Oh certo, sì.»

    Mise le braccia a culla e lasciò penzolare in modo allarmante la testa del bambino prima di appoggiarla nell’incavo del gomito. Il marsupio, aperto e slacciato, pendeva come un grembiule dalle spalle di Abi mentre Stu tentava qualche incerto dondolio, finché Jude non emise un unico grido acuto.

    Stu glielo porse. «Mi sa che gli piaci più di me.»

    «Non dire sciocchezze. Ti adora» disse Abi avvertendo la ben nota effervescenza di una bugia. Ma era soltanto per metterlo a suo agio, per rendere i nudi fatti della loro situazione più felici, quasi normali. «Solo che deve abituarsi a te.»

    Era la prima volta che permetteva a qualcuno di tenerlo, senza contare una visita domiciliare dell’azienda sanitaria di South London. Sua mamma una volta le aveva chiesto se poteva «spupazzarlo un po’», offrendo il grembo ossuto, ma Abi aveva sentito se stessa spiegare che, secondo il parere generale, nel primo mese di vita nessuno doveva toccare il neonato tranne la madre. Dato che Rae non lo aveva messo in discussione, Abi si era pentita di non aver detto sei mesi.

    Nel taxi soffocante che portava la piccola famiglia improvvisata verso Cremorne Point, Stu e Abi si tennero per mano, anche se la calura formava una condensa sul sedile in similpelle. Abi appoggiò piano la mano libera sul pancino di Jude, sperando che il seggiolino peloso del taxi non fosse contaminato dalla peste bubbonica. I suoi pantaloni della tuta erano induriti nei punti in cui le chiazze di bava di Jude si erano asciugate durante il lungo viaggio. Ormai sentiva l’odore delle proprie ascelle, e il manzo in crosta più succo d’arancia che aveva consumato a quarantamila piedi sopra Tashkent si riproponeva con insistenza.

    Dal finestrino Abi vide distintamente dei quartieri depressi che avrebbero potuto essere la zona brutta di Croydon, fra il Tesco Metro e Ruskin Road. Il suo morale crollò. Quello che aveva immaginato era sbagliato.

    Fece un respiro profondo e si girò per osservare il profilo di Stu. Mentre erano lontani, aveva cominciato a pensare a lui come a un tipo biondo, ma adesso le appariva decisamente rosso, con una tale densità di lentiggini della stessa sfumatura rossiccia da sembrare quasi di un colore unico. Ricordava di lui la schiena ampia, le braccia grosse e le gambe corte, massicce, che non stavano mai veramente ferme ma si alzavano e abbassavano in continuazione.

    Avvertendo il suo sguardo, Stu si girò verso di lei. «Ehi, lo sai che ti amo, eh?»

    Come aveva già notato una volta quando Stu l’aveva portata alla festa d’addio degli studenti d’oltreoceano, anche lui tendeva a cambiare accento a seconda della persona con cui parlava. Con Abi aveva rinunciato quasi del tutto alla pronuncia lenta e strascicata, a ridere fortissimo e a guarnire i discorsi di impenetrabile slang australiano. Con il tassista, invece, l’inflessione era al massimo.

    «Pure io. Tantissimo. Ti amo anch’io» rispose Abi mentre si voltava per guardare fuori dal finestrino e notava, delusa, che la Opera House era piastrellata come un bagno degli uomini, non uniformemente liscia e bianca a mo’ di torta glassata come appariva in tv.

    5

    Stuzzichini e piatti semplici

    Si erano conosciuti all’ufficio Servizi agli studenti della Kingston University, dove Abi lavorava part-time per pagarsi la retta. Era un cupo venerdì di gennaio e il sottile nastro di cielo visibile dalla finestra vicino alla scrivania era di un bianco piatto e immobile. Appena prima della chiusura la sua coordinatrice, una neozelandese di nome Tanya Teo che aveva un piercing al setto nasale e dei polpacci come prosciutti, le aveva chiesto se le andava bene aspettare nel caso fosse arrivato lo studente che mancava per il semestre primaverile. Volevano andare tutti al pub, disse Tanya, e Abi era sempre disponibile a fare straordinari.

    Infatti accettò subito, per le 12 sterline in più e per non andare a casa. E poi Tanya si comportava in modo strano con lei da quando, due venerdì prima, Abi si era calata tre White Russian a stomaco vuoto e le aveva detto per sbaglio che la considerava la sua migliore amica. «La mia unica amica, adesso che ci penso. Ci prendiamo un altro di questi cocktail?»

    Mentre il personale usciva alla spicciolata abbottonandosi il cappotto, Abi spense le luci e i monitor di ogni postazione. Fumò una sigaretta veloce socchiudendo appena la finestra del cucinotto e tornò alla scrivania ad aspettare.

    L’ultimo Pacchetto Orientamento era pronto nel vassoio delle pratiche in sospeso. Ne staccò il fascicolo dello studente e si mise a sfogliarlo per noia, portandosi distrattamente una ciocca di capelli alla bocca e passandosela sulle labbra. Era secca come la punta di un pennello, essendosi asciugata dopo che l’aveva succhiata tutto il giorno.

    Kellett, Stuart Roger. Nato il 27.07.1990.

    Facoltà di Architettura, University of Technology, Sydney.

    Media del B meno.

    Appena prima delle sette qualcuno scosse la maniglia della porta e dal vetro Abi vide Kellett, Stuart Roger, enorme zaino in spalla, senza giacca. Lo condusse alla sua postazione comportandosi in modo molto spiccio, per compensare il fatto che erano da soli nella semioscurità.

    Lui si tolse lo zaino e si accomodò su una sedia davanti alla scrivania. Abi aspettò con i polpastrelli congiunti, chiedendosi se non fosse un gesto un po’ eccessivo quanto a ufficialità.

    «Ecco. Scusa. Ehi, Stu Kellett» disse porgendole una mano carnosa che risultò sorprendentemente calda e ruvida.

    «Sì, lo so.»

    «Certo, scusa. Non ti sarai fermata solo per aspettare me?» chiese, come se si rendesse conto per la prima volta che erano soli.

    «No, non ti preoccupare, avevo un po’ di arretrati» disse lei facendo scivolare una cartina del campus sopra la copia di Jude l’oscuro aperta sulla scrivania. «Va bene, allora, meglio venire al dunque.»

    Mentre sfogliava l’opuscolo di benvenuto, tenendolo al contrario così che lui potesse seguirla a mano a mano che circolettava le parti più importanti – con una biro su cui era stampigliato Kingston University: portale della conoscenza –, Abi si accorse che la concentrazione di Stu era lontana dai documenti. Continuava ad appoggiarsi allo schienale strofinandosi gli occhi con i pugni, sbadigliando e dicendo: «Cacchio, quel volo è una roba… Non sapevo che facesse così freddo… E studi qui anche tu o cosa» con un marcato accento australiano che Abi non poté non trovare disperatamente esotico. Cercò di non farsi distrarre ma c’era qualcosa in lui, un’energia che le faceva venire voglia di rimettere le carte tra i fascicoli in sospeso e nascondercisi dentro. Si portò una ciocca di capelli alla bocca e poi la sputò in silenzio, sperando che lui non se ne fosse accorto.

    Per tutto il tempo Stu dondolò un piede su e giù, in un modo che si riverberava nel pavimento e su per la sedia girevole di Abi. «E pensa che è il semestre primaverile» gli disse, e lui rise come se avesse fatto una bella battuta.

    Celando la sua esultanza, Abi proseguì. «Qui c’è una cartina. K-15, ecco il tuo studentato. Il Selwyn è uno di quelli nuovi, quindi ti è andata bene.»

    «Ottimo» disse Stu infilandosi una mano sotto la maglietta per grattarsi pigramente la pancia. «Ehi, muoio di fame. Tu dopo hai finito, o come funziona?»

    Abi sentì un brivido. L’aveva invitata fuori a cena? Si poteva dire così? Si schiarì la voce. «Ecco, firma qui con le iniziali per confermare che hai letto le regole di comportamento, e abbiamo finito.»

    «Spero non dicano che non posso cenare con una ragazza dei Servizi agli studenti, perché ho seriamente bisogno di mangiare e non so dove cacchio sono in rapporto a dove cacchio è tutto il resto.»

    «Siamo qui, H-8.»

    Lui accettò la cartina e la infilò in una tasca dello zaino senza piegarla. «Per venire ho preso un taxi privato estremamente losco che mi ha mollato all’ingresso principale. Probabile che adesso il tizio sia impegnato a stampare copie della carta di credito dei miei per tutti i suoi cugini.»

    «Dài, posso aiutarti a trovare il circolo studentesco, mi è di strada per il bus navetta. È aperto fino alle undici, serve stuzzichini e piatti semplici.»

    Stu si alzò così in fretta da far pensare a Abi che volesse andarsene di colpo, indignato dalle scarse risorse del circolo studentesco.

    «Stuzzichini e piatti semplici sono proprio quello che mi va» disse il ragazzo. «Prendi le tue cose e ti offro quello che vuoi per ringraziarti di avermi aspettato.»

    In effetti, Abi moriva di fame. In tutto il giorno aveva mangiato solo una confezione piccola di Hula Hoops e due cioccolate calde della macchinetta. A casa non avrebbe trovato niente e già le dolevano le reni per la fame.

    «Va bene» disse lanciando un’occhiata alla postazione vuota di Tanya. «Comunque non c’è problema, perché sono una studentessa anch’io. Part-time» aggiunse in fretta. «Immatricolata in età tardiva.»

    Stu rise fino all’uscita. Abi si chiese come facesse una persona a essere così allegra e ben disposta tutto il tempo.

    «Aspetta, fammi provare» disse Stu dopo averla guardata litigare con la serratura. Quando si avvicinò, Abi sentì il calore del suo braccio. In un attimo la porta fece un forte clic e loro, fianco a fianco, attraversarono la luce arancione del campus dirigendosi al circolo. Abi incrociò le braccia e chinò la testa per difendersi dal vento pungente.

    «Ridimmi cosa studi? Non mi ricordo più» disse Stu. Teneva le mani sprofondate nelle tasche dei jeans.

    «Non te l’ho detto. Corso di laurea in Servizio sociale. Ma mi fa un po’ schifo.»

    «Peccato» disse lui mentre arrivavano alla meta.

    Quella risposta così sintetica diede a Abi un’inattesa sensazione di sollievo. Quasi di piacere. Perché era un peccato avvicinarsi alla fine di un corso che avevi odiato dall’inizio e che ti avrebbe dato un lavoro che non volevi. Era un grande peccato. Stu era la seconda persona a cui l’aveva detto, dopo Tanya, che lo considerava emblematico della tendenza di Abi a essere impulsiva. Le aveva portato ad esempio la settimana precedente, quando Abi era andata in pausa pranzo da Claire’s Accessories e si era pentita immediatamente di aver aggiunto due buchi all’orecchio sinistro. «Dovresti riflettere sulle cose prima di farle» le aveva detto Tanya, dimenticandosi di essere stata lei a suggerire che poteva essere un modo per donarle un look più aggressivo.

    Nell’accogliente sala del circolo, Stu prese un vassoio dalla pila e lo scosse per togliere delle gocce d’acqua. «Cosa desidera la signora?» disse passandole il vassoio e indicando con uno svolazzo tutto il buffet dei piatti caldi.

    Quando ebbe finito la sua patata al cartoccio con burro e formaggio, la cosa più economica del menu, Abi rimase a guardare Stu che si spazzolava pane e burro, un piatto di curry e riso e due dolci diversi confezionati in vaschette di plastica. Il suo appetito era stupefacente. Non aveva mai visto nessuno mangiare così tanto e così volentieri.

    «Allora, cosa mi dici di te?» disse Stu con la bocca piena. «Hobby, fratelli e sorelle, mandati di arresto in corso.»

    «Oh» disse Abi, cercando disperatamente di risultare interessante. «In breve, sono nata a Southfields ma vivo a Croydon, e avevo una sorella di un anno più grande, ma è morta quando avevo nove anni. E non sono mai stata arrestata, anche se una volta ho rubato dei collant da Debenhams, ma poi mi sentivo così in colpa che li ho riportati di nascosto in negozio.»

    «Pazzesco. È terribile» disse Stu. Abi si preparò alle condoglianze che sapeva di doversi aspettare se mai nominava la sorella.

    Stu scosse lentamente la testa. «Dei collant? Spero fosse un pacco da tre.» Allungò il braccio sul tavolo e le diede una leggera pacca sul polso. Fu la migliore dimostrazione di solidarietà che Abi avesse mai ricevuto.

    «Allora tocca a me. L’anno scorso sono finito con la macchina di mia madre contro un cassonetto e ho negato tutto. Niente fratelli o sorelle. La mia infanzia probabilmente non è stata male in confronto alla tua, ma sappiamo tutti e due com’è essere figli unici, eh? Mia mamma vorrebbe che fossi perfetto, e adesso che ci penso, forse è per questo che sono venuto qui.» Spostò da parte il vassoio. «Così non può più sputare sul fazzoletto per cercare di pulirmi la faccia.»

    Detto questo ripescò i documenti dalla tasca dello zaino e si mise a lisciare con le mani le carte spiegazzate. «Non è che il tuo servizio di orientamento si estende a mostrarmi dov’è il mio studentato?» chiese.

    Abi disse di no.

    «E come favore a un amico?»

    «Allora adesso siamo amici?» Abi sperò che la frase risultasse ammiccante, anche se in realtà voleva davvero saperlo.

    «Be’, ho appena investito due sterline e venti nella tua cena.» Andò all’ultima pagina. «Altrimenti, un tale Pra-Sharnt-Nai-Doo, iscritto a Ingegneria, diventerà il mio migliore amico.»

    Abi controllò l’ora sul telefono. «Okay, ma non posso perdere il bus.»

    6

    Inserimento soddisfacente

    Abi perse il bus. Quando trovarono la camera di Stu, del suo compagno di stanza non c’era traccia e lui in qualche modo la convinse a tenergli compagnia mentre disfaceva i bagagli, il che voleva dire tirare fuori a manciate i vestiti dallo zaino e ficcarli spiegazzati in un cassetto. Dava la schiena a Abi, che stava appollaiata sul bordo di una scrivania di metallo. Non riusciva a smettere di guardare il suo collo, così lentigginoso e abbronzato, e le scapole che si muovevano sotto la maglietta. Si morsicò l’unghia del pollice e cercò di pensare a curiosità interessanti da dirgli sulla vita del campus, ma pareva che lui non ascoltasse. Perciò quando si mise a raccontargli delle feste studentesche a cui personalmente non era mai stata, e lui si raddrizzò, fece un passo avanti e la baciò fino a toglierle il fiato, fu presa alquanto alla sprovvista.

    Si sarebbe sempre chiesta perché lui l’avesse fatto, perché si fosse staccato per un momento, avesse riso, asciugandosi la bocca con il dorso della mano, e poi avesse ricominciato. Alla fine tese le braccia sopra la testa, scoprendo un paio di centimetri di pancia, e le chiese se qualcuno l’avesse mai disegnata.

    «In che senso?»

    «Cioè, se qualcuno ti ha mai fatto un ritratto.»

    «Non credo proprio.»

    Dallo zaino mezzo vuoto Stu prese una cartella di pelle che si aprì rivelando due file di matite dall’aria costosa.

    «Davvero vuoi disegnarmi?» Abi rise. «Sai disegnare le persone?»

    «So fare le mani e tutto» disse Stu indicandole il letto e sistemandosi su una sedia di fronte. «Mettiti come vuoi.»

    Abi esitò.

    «Sul serio.» Stu estrasse la mina più sottile. «Nella mia testa sono le quattro del mattino. Non dormirò per un bel po’ e chissà se Prashant sarà disposto a posare per un nudo artistico.»

    Stu la guardò negli occhi,

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