Nebbia
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Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1914, vede la luce tra le trincee della grande guerra e provoca subito un gran rumore. De Unamuno definisce il suo romanzo una “nivola”, per definire l’intreccio romanzo-protagonista-autore che rende speciale questo libro.
Unamuno si concentrò particolarmente sull'evoluzione e sullo sviluppo psicologico dei vari personaggi, contrapponendosi al narratore onnisciente in terza persona presente nel realismo. L'idea quindi è preponderante rispetto alla forma, e la distinzione tra autore e personaggi è spesso labile, tanto da scomparire.
La trama è di per sé piuttosto semplice almeno fino al capitolo 31: da lì in poi inizia un altro libro. Un dialogo serrato tra l’autore e il personaggio principale che – tra accuse reciproche di “inesistenza” – si conclude con la mesta uscita di scena del protagonista, rassegnato alla morte per mano dell’autore.
Qualche dettaglio in più va dato, per incuriosire chi ancora non conoscesse quest’opera.
La vita di Augusto è avvolta in una sorta di nebbia non fisica ma spirituale, che non gli consente di vivere appieno, di accorgersi di quanto accade attorno a lui ma nemmeno di quanto accade dentro di lui. Incontrerà delle donne sulla sua strada, se ne innamorerà (o crederà di innamorarsi), sarà sul punto di sposarsi quando una tremenda delusione lo porta a decisioni estreme.
Il libro diventa speciale quando Augusto decide di incontrare l’autore del libro. Quindi esce dal libro (e dalla nebbia) e si confronta con Unamuno. È un confronto serrato in cui l’identità di Augusto si frammenta e diviene indecisa e indefinita.
È un testo calato nel suo tempo (possiamo vedere il libro anche come un atto di accusa “contro” la guerra appena iniziata), eppure “eterno”: sono gli anni del definitivo crollo delle geometrie euclidee (oltre che di una serie di scoperte “sconvolgenti” e “anti-intuitive”) e da lì in poi inizia il crollo per le idee di certezza assoluta, individuo e verità. Forse, l’uscita dalla nebbia del personaggio è solo l’ingresso in una nebbia ancora più fitta dalla quale – purtroppo – crediamo di essere usciti.
Riscoprire e ri-leggere questo testo ci aiuta a riconnetterci con un “circolo ermeneutico” che davamo disperso, e ci fa godere del piacere di un’ottima prova di grande letteratura.
L’autore: Scrittore e pensatore spagnolo (Bilbao 1864 - Salamanca 1936), è il maggior rappresentante degli intellettuali innovatori della "generazione del '98". Già nei primi saggi En torno al casticismo (1895) attaccò il fanatismo conservatore; la critica dell'isolamento orgoglioso e dell'ostinata fedeltà alla tradizione proseguì nei successivi Ensayos, riuniti da ultimo in sette volumi (1916-18). Ma, partito dalla polemica antitradizionalista e, come più tardi Ortega y Gasset, dall'esigenza di definire il posto della Spagna nell'Europa industrializzata, U. identificò il ruolo della hispanidad nel mantenimento del "senso tragico della vita", cioè nella viva coscienza delle antinomie fondamentali (ragione e fede, vita e intelletto) che il moderno razionalismo non potrà risolvere. Questo e gli altri temi di U., l'ansia di eternità, il rapporto fra Dio e l'uomo, sono sviluppati in saggi, romanzi e nel teatro.
Miguel de Unamuno
Miguel De Unamuno (1864 - 1936) was a Spanish essayist, novelist, poet, playwright, philosopher, professor, and later rector at the University of Salamanca.
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Anteprima del libro
Nebbia - Miguel de Unamuno
Miguel de Unamuno
Nebbia
Nivola
Maree
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Seconda edizione digitale: 2022
Edizione originale: Niebla, 1914
Traduzione di Umberto Arenal
In copertina: Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich, 1818, Hamburger Kunsterhalle di Amburgo.
ISBN 9788833260297
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Table Of Contents
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
Orazione funebre a titolo di epilogo
I
Quando Augusto si affacciò alla porta di casa stese il braccio destro con la palma in giù ed aperta, e volgendo gli occhi al cielo rimase un momento fermo in questa posizione statuaria ed augusta. Non era che prendesse possesso del mondo esteriore, osservava solamente se pioveva. E nel ricevere sul dorso della mano il fresco della lenta pioggerella, aggrottò le sopracciglia. E non era che gli desse noia la pioggerella, ma il dovere aprire l’ombrello. Era così elegante, così slanciato, piegato dentro la custodia! Un ombrello chiuso è tanto elegante quanto è brutto un ombrello aperto.
«È una disgrazia che uno debba servirsi delle cose» pensò Augusto, «doverle usare. L’uso sciupa e persino distrugge ogni bellezza. La funzione più nobile, degli oggetti è quella di essere contemplati. Com’è bella un’arancia prima di essere mangiata! Questo cambierà nel cielo quando ogni nostra occupazione si ridurrà, o piuttosto si estenderà, a contemplare Iddio e tutte le cose in Lui. Qui, in questa povera vita, ci curiamo solamente di servirci di Dio; pretendiamo di aprirlo, come un ombrello, perché ci protegga da ogni genere di mali».
Così parlò a se stesso e si curvò per rimboccarsi i calzoni. Infine aprì l’ombrello e rimase un momento perplesso pensando: «E adesso dove vado? Giro a destra o a sinistra?», perché Augusto non camminava, ma passeggiava nella vita. Aspetterò che passi un cane» si disse «e prenderò la direzione che lui prenderà».
In quell’istante passò per la strada non un cane, ma una graziosa ragazza, e seguendo i suoi occhi, Augusto se ne andò come magnetizzato e senza accorgersene.
E così per una strada ed un’altra ed un’altra ancora.
«Ma quel ragazzino» si diceva Augusto, che più che pensare parlava con se stesso, «cosa farà lì, lungo disteso per terra? Starà a guardare qualche formica, certo! La formica, bah, uno degli animali più ipocriti! Non fa altro che passeggiare e ci fa credere che lavori. È come, quel vagabondo là che va a passo di carica dando di gomito contro tutti quelli che incontra, e sono certo che non avrà niente da fare! Che cos’ha da fare perbacco, cos’ha da fare! È uno sfaccendato, uno sfaccendato come... no, io non sono uno sfaccendato.
La mia fantasia non riposa. Gli sfaccendati sono loro, quelli che dicono di lavorare e non fanno che stordirsi e soffocare il pensiero. Perché, vediamo: quello sgorbio di cioccolataio che si mette là, dietro a quella vetrina, a maneggiare il matterello perché lo si veda, quell’esibizionista del lavoro, cose se non uno sfaccendato? Ed a noi che importa se lavora o no? Il lavoro. Il lavoro! Ipocrisia! È lavoro quello di questo povero paralitico che passa trascinandosi. Ma, che ne so io? Scusi, fratello — questo lo disse a voce alta — Fratello. Fratello in cosa? In paralisi! Dicono che tutti siamo figli di Adamo. E questo Giovannino è anche lui figlio di Adamo? Ciao, Giovannino! Caspita, e adesso l’inevitabile automobile, rumore e polvere! Si progredisce forse, sopprimendo così le distanze? La mania di viaggiare deriva dalla topofobia e non dalla filotopia; chi viaggia molto, fugge da ciascun luogo che lascia e non cerca ciascun luogo a cui giunge. Viaggiare... viaggiare... Che oggetto noioso è l’ombrello!... Taci, che c’è?».
E si fermò alla porta di una casa in cui era entrata la graziosa ragazza, che lo aveva guidato magnetizzandolo con i suoi occhi. Ed allora Augusto si rese conto che l’aveva seguita. La portinaia della casa lo guardava con occhietti maliziosi, e quello sguardo suggerì ad Augusto ciò che doveva fare in quel momento. «Questa Cerbera aspetta» si disse «che le domandi il nome e le condizioni della signorina che ho seguito, e certamente questo è ciò che capiterà adesso. Sarebbe un’altra cosa lasciare il mio inseguimento senza coronamento, ma questo no, le opere devono essere finite. Odio l’imperfezione!». Cercò il borsellino e non vi trovò che uno scudo. Non era il caso di andare a cambiarlo proprio allora; avrebbe perduto tempo e anche l’occasione propizia.
— Mi dica, buona donna — chiese alla portinaia senza togliere l’indice e il pollice dal borsellino — potrebbe dirmi qui, in confidenza ed inter nos, il nome della signorina che è entrata proprio adesso?
— Questo non è un segreto e neppure un male, signore.
— Infatti.
— Allora si chiama Eugenia Domenico dell’Arco.
— Domenico, sarà Domenica...
— No, signore, Domenico; Domenico è il suo primo cognome.
— Ma quando si tratta di donne, un cognome come questo dovrebbe cambiare in Domenica. Altrimenti dove la concordanza?
— Non la conosco, signore.
— E mi dica... mi dica: — aggiunse, senza togliere le dita dal borsellino — come mai esce così, da sola? È signorina o sposata? Ha i genitori? È signorina ed orfana. Vive con degli zii...
— Paterni o materni?
— So solamente che sono zii.
— È sufficiente ed anche troppo.
— So che dà lezioni di pianoforte.
— E lo suona bene?
— Non so tanto.
— Bene, bene, basta; e prenda per il disturbo.
— Grazie, signore, grazie. Desidera altro? Posso servirla in qualcosa? Desidera darmi qualche incarico?
— Forse... forse... Non per ora... Addio!
— Disponga di me, signore, e conti sulla mia assoluta discrezione.
«Dunque signore» si diceva Augusto allontanandosi dalla portinaia «guarda qui come ti sei compromesso con questa buona donna. Perché adesso non posso abbandonare la cosa senza che ne vada di mezzo la mia stessa dignità. Altrimenti chissà cosa dirà di me questo modello di portinaia. Dunque... Eugenia Domenica, cioè Domenico dell’Arco? Molto bene, lo segno, perché non mi capiti di dimenticarlo. Non vi è maggiore arte mnemonica di quella di portare un taccuino in tasca. Me lo diceva sempre il mio indimenticabile don Leonzio: «Non mettete mai nella testa ciò che vi sta in tasca». Al che si potrebbe aggiungere per complemento: «Non mettete mai in tasca ciò che vi sta nella testa». E la portinaia, come si chiama la portinaia?».
— Tornò indietro di qualche passo.
— Mi dica ancora una cosa, buona donna...
— Comandi.
— E lei come si chiama?
— Io? Margherita.
— Molto bene, molto bene...; grazie.
— Niente.
Ed Augusto se ne andò di nuovo trovandosi poco dopo nel corso dell’Alameda.
La pioggerella era cessata. Chiuse l’ombrello, ravvolse e lo mise nella fodera. S’avvicinò ad una panchina e toccandola con la mano s’accorse ch’era umida. Tirò fuori un giornale, lo pose sulla panchina e si sedette. Poi prese il taccuino e brandì la penna stilografica. «Ecco qui un oggetto utilissimo» si disse, «altrimenti dovrei annotare con la matita il nome di quella signorina con il pericolo che si cancelli. Si cancellerà la sua immagine dalla mia memoria? Ma come la dolce Eugenia? Ricordo soltanto certi occhi... ho la sensazione del tocco di quegli occhi... Mentre divagavo liricamente, degli occhi attiravano dolcemente il mio cuore. Vediamo! Eugenia Domenico; sì, Domenico dell’Arco. Domenico? Non mi abituo al fatto che si chiami Domenico... No; devo farle cambiare il cognome e che si chiami Domenica. Ma, i nostri figli maschi, dovranno portare come secondo cognome quello di Domenica? E siccome dovranno sopprimere il mio, questo impertinente Pérez, lasciando solamente una P., il nostro primogenito dovrà chiamarsi Augusto P. Domenica? Ma... dove mi trascini pazza fantasia?». Ed annotò sul taccuino: Eugenia Domenico dell’Arco, via dell’Alameda, 58. Sopra questo appunto v’erano questi due endecasillabi:
Dalla culla ci viene la tristezza
e dalla culla anche l’allegria.
«Eh» si disse Augusto, «questa piccola Eugenia, la professoressa di piano, ha spezzato un eccellente inizio di poesia lirica trascendentale. Rimane interrotto. Interrotto?... Sì; l’uomo non fa che cercare nei successi, nei casi della sorte, l’alimento per la sua tristezza o per la sua allegria innate. Uno stesso caso è triste o allegro secondo la nostra disposizione innata. Ed Eugenia? Devo scriverle. Ma non da questo posto, da casa. Andrò piuttosto al circolo? No; a casa, a casa. Queste cose, da casa, dal focolare. Focolare? La mia casa non è un focolare. Focolare... focolare... cenere, piuttosto! Oh, mia Eugenia!».
Ed Augusto tornò a casa sua.
II
Quando il domestico gli aprì la porta...
Augusto era ricco e solo, perché sua madre ormai anziana era morta non più di sei mesi prima di questi avvenimenti di poca importanza, ed egli viveva con il domestico e la cuoca, da anni servitori nella casa e figli di altri che avevano già servito in famiglia. Il domestico aveva sposato la cuoca, ma non avevano avuto figli.
Quando il domestico aprì la porta, Augusto gli domandò se durante la sua assenza fosse venuto qualcuno.
— Nessuno, signorino.
Erano la domanda e la risposta sacramentali poiché Augusto non riceveva quasi mai visite in casa.
Entrò nello studio, prese una busta e vi scrisse sopra: «Signorina Eugenia Domenico dell’Arco. S. g. m.», ma dopo, dinanzi al bianco foglio, appoggiò la testa fra le mani, i gomiti sullo scrittoio e chiuse gli occhi. «Per prima cosa pensiamo a lei», disse fra sé. E si sforzò di afferrare nell’oscurità lo splendore di quegli occhi che lo trascinavano verso l’ignoto.
Rimase così un attimo suggerendo a se stesso la figura di Eugenia e siccome l’aveva appena scorta, fu costretto ad immaginarsela. Grazie a questa fatica evocativa scorse poco per volta nella sua fantasia una vaga figura di sogno. E si addormentò. Si addormentò perché aveva passato una cattiva nottata insonne.
— Signorino!
— Eh? — esclamò svegliandosi.
— La cena è servita.
Fu la voce del domestico o fu l’appetito, di cui quella voce non era che l’eco, a svegliarlo? Misteri psicologici! Così pensò Augusto dirigendosi verso la sala da pranzo mentre diceva fra sé: «Oh! la psicologia». Mangiò con buon appetito il suo pranzo di tutti giorni: due uova fritte, una bistecca con patate e un pezzo di formaggio Gruyère. Prese poi il caffè e si distese sulla sedia a dondolo. Accese un avana, se lo portò alle labbra, dicendosi: «Eugenia mia» e si mise a pensare a lei.
«Eugenia mia, sì, mia», ripeteva a se stesso «colei che sto modellando in solitudine e non l’altra, non quella di carne e d’ossa, non quella che vidi passare dinanzi la porta di casa mia, apparizione fortuita, non quella della portinaia! Apparizione fortuita? E quale apparizione non lo è? Quale la logica delle apparizioni? Quella di queste figure che si susseguono formate dalle nubi di fumo del sigaro. Il caso! Il caso è l’intimo ritmo del mondo, il caso è l’anima della poesia. Ah, mia accidentale Eugenia! Questa mia vita tranquilla, abitudinaria, umile, è un’ode pindarica tessuta con i mille nonnulla di ogni giorno. Le cose quotidiane! Dacci oggi il nostro pane quotidiano! Dammi Signore i mille nonnulla di ogni giorno. Noi uomini non soccombiamo alle grandi pene o alle grandi allegrie perché queste pene e queste allegrie sono avvolte in un’immensa nebbia di piccoli incidenti. E la vita è questo, nebbia. La vita è una nebulosa. Ed ora sorge da essa Eugenia. Ma chi è Eugenia? Oh! Mi accorgo che da molto tempo la stavo cercando. E mentre la cercavo, ella mi è venuta incontro. Questo non significa forse incontrare qualcosa? Quando si svela a noi un’apparizione che cercavamo, non significa forse che l’apparizione impietosita dalla ricerca ci viene incontro? L’America non è andata in cerca di Colombo? Eugenia non è venuta a cercare me? Eugenia, Eugenia, Eugenia».
E Augusto si sorprese a pronunciare ad alta voce il nome d’Eugenia. Sentendolo parlare, il domestico, che passava proprio in quei momento dinanzi alla sala da pranzo, entrò dicendo:
— Ha chiamato, signorino?
— No, non te. Però ascolta, ti chiami Domenico?
— Sì, signorino — rispose Domenico per nulla sorpreso della domanda che gli era stata rivolta.
— E perché ti chiami Domenico?
— Perché mi chiamano così.
«Bene, bene», disse fra sé Augusto. «Ci chiamiamo come ci chiamano. Nei tempi omerici le persone e le cose avevano due nomi, quello che davano loro gli uomini e quello che davano loro gli Dei. Come mi chiamerà Iddio? E perché io non posso avere un nome differente da quello che mi danno gli altri? Perché non dovrei dare ad Eugenia un altro nome, differente da quello che le danno gli altri, da quello che le dà Margherita? Come la chiamerò?».
— Puoi andare — disse al domestico.
Si alzò dalla sedia a dondolo, andò nello studio, prese la penna e si mise a scrivere:
Signorina,
questa mattina, sotto la dolce pioggerella del cielo, lei è passata, apparizione fortuita, dinanzi alla porta della casa dove vivo, ma dove non ho un focolare. Quando rinvenni, sono andato alla porta di casa sua, dove ignoro se lei abbia o non abbia un focolare. Mi hanno portato là i suoi occhi, i suoi occhi che sono due stelle fulgenti nella nebulosa del mio mondo. Mi perdoni Eugenia, e permetta che la chiami familiarmente con questo dolce nome: perdoni il mio lirismo. Io vivo in perpetua lirica infinitesimale.
Non so cosa dirle d’altro. Sì, sì, lo so. Ma è così importante, così importante tutto ciò che devo dirle, che giudico opportuno rimandarlo a quando ci vedremo e ci parleremo. Infatti ciò che ora desidero è che ci si possa vedere e parlare, che ci si possa scrivere e ci si possa conoscere. Dopo... dopo, Dio e i nostri cuori parleranno!
Mi darà lei, allora, Eugenia, dolce apparizione della mia vita quotidiana, mi darà lei ascolto?
Immerso nella nebbia della vita, attende una sua risposta,
Augusto Pérez.
E commentando la lettera, disse fra sé: «Mi piace quest’abitudine della rubrica delle cose inutili».
Chiuse la lettera e si buttò nuovamente nella strada.
«Grazie a Dio» diceva fra sé mentre andava lungo via dell’Alameda, «grazie a Dio so dove vado e dove devo andare! Questa mia Eugenia è una benedizione di Dio; ha dato una finalità, una meta ai miei vagabondaggi lungo le strade. Ormai ho una casa da spiare, ormai ho una portinaia come confidente...».
Mentre parlava così a se stesso, passò accanto ad Eugenia senza avvertire assolutamente lo splendore dei suoi occhi. La nebbia spirituale era troppo densa. Però Eugenia da parte sua si accorse di lui, e si disse: «Chi sarà questo giovanotto? Ha un bel portamento e pare abbastanza ben vestito!», e senza rendersi perfettamente conto delle cose, indovinò ch’era uno che l’aveva seguita quella mattina. Le donne sanno sempre quando le si guarda, anche senza vederle, e quando le si vede, senza guardarle.
E tutte e due, Augusto ed Eugenia, continuarono a camminare in direzioni opposte, fendendo con le loro anime l’intricata ragnatela spirituale della strada. Infatti la strada forma come un tessuto in cui s’incrociano sguardi di desiderio, d’invidia, di disprezzo, di compassione, d’amore, d’odio, vecchie parole il cui spirito rimane cristallizzato, pensieri, bramosie, tutta una tela misteriosa che avvolge le anime di coloro che passano.
Ed alla fine Augusto si trovò