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I Centurioni
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I Centurioni
E-book556 pagine8 ore

I Centurioni

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Info su questo ebook

La saga di Correo e Flavio

Due fratelli. Due guerrieri. La brutale lotta per il potere è cominciata.

I secolo d.C. 
Correo e Flavio sono fratellastri, figli di un acclamato generale: Appio Giuliano, comandante della decima legione. Correo, figlio di una schiava, è un guerriero abilissimo, destinato a eccellere. Flavio, nobile di nascita, deve lottare senza sosta per avere successo. 
Sono due facce diverse della stessa medaglia; capi opposti destinati a percorrere strade parallele, tracciate sin dalla nascita. Entrambi puntano al ruolo di centurioni, una posizione che Flavio ritiene sua per diritto e che Correo ha a lungo desiderato, e affronteranno insieme la brutale realtà della guerra. 
Combattere i barbari si rivelerà pericoloso, non solo per i loro corpi, ma anche per le loro anime…

Perfetto per i lettori di Simon Scarrow e Anthony Riches

«Un approccio completamente inedito alla narrativa storica. Un libro imperdibile.» 

«La storia di due fratellastri simili ma profondamente diversi. Si legge con gusto.» 

«Epico, commovente, profondo e ricco di azione.»
Damion Hunter
È lo pseudonimo della professoressa universitaria Amanda Cockrell, docente di inglese alla Hollins University, in Virginia. Le sue saghe storiche hanno riscosso grande successo.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2021
ISBN9788822751577
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    Anteprima del libro

    I Centurioni - Damion Hunter

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    I. Gli dèi delle nuove imprese

    II. La città in festa

    III. Il tempo dei saluti

    IV. Centurione

    V. Gli Agri Decumates

    VI. Lupo rosso, lupo nero

    VII. Il cinghiale

    VIII. Gli specchi della memoria

    IX. La pace delle anfore di vino

    X. La maschera da cavallo

    XI. Primavera di guerra

    XII. Un traffico di anime

    XIII. La strada verso casa

    XIV. La Notte del Raccolto

    XV. Il cavallo lixiano

    XVI. L’arena

    XVII. Il rinnegato

    XVIII. In licenza

    XIX. Un viso illuminato da una fiaccola

    XX. Spie e alleati

    XXI. La battaglia in collina

    XXII. Fine e inizio

    Gli imperatori romani

    Personaggi

    Glossario

    Nota dell’autore

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    2872

    Titolo originale: The Centurions

    Copyright © Amanda Cockrell, 1981

    The moral right of Amanda Cockrell to be identified

    as the author of this work has been asserted in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act, 1988

    All rights reserved

    First published in the United States in 1981 by Ballantine Book

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Traduzione dalla lingua inglese di Vittorio Ambrosio

    Prima edizione ebook: maggio 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    by agreement with Johnson & Alcock Ltd

    ISBN 978-88-227-5157-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Damion Hunter

    I Centurioni

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Per Mouse e D.B.

    Prologo

    Si chiamava Correo, in onore di uno dei vecchi capitribù del popolo di sua madre, ed era stato concepito nella tenda di un accampamento di marcia, durante un viaggio dalla Siria a Roma. Suo padre era un soldato di professione: Appio Giuliano, legato della decima legione Fretensis, richiamato con urgenza a Roma dall’imperatore Claudio nei suoi ultimi giorni di vita. Sua madre, Helva, aveva diciassette anni ed era stata acquistata come schiava dopo il fallimento di una delle tante ribellioni nella Gallia Belgica un paio d’anni prima. Come amante, la ragazza era del tutto ineccepibile. Come accompagnatrice di un uomo che tutt’a un tratto si era ritrovato immerso fino al collo negli affari dell’imperatore, era diventata un peso; così lui l’aveva introdotta tra le serve della giovane consorte. Prima ancora che fossero di ritorno a Roma, anche sua moglie aveva dato alla luce un bambino.

    Appio Giuliano fece del suo meglio per aiutare il vecchio imperatore, ma alla fine poté ben poco. Claudio morì, si diceva fosse stato avvelenato, e Appio fece la cosa più sensata: si riappacificò con Nerone, pronipote e successore di Claudio. Dopodiché se ne tornò alla sua legione in Siria, vale a dire il più lontano possibile dal carattere instabile del nuovo principe, e riprese la carriera nell’esercito, che amava più di ogni altra cosa.

    Si lasciò dietro due figli, due fratellastri nati a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro, simili eppure diversi come due facce della stessa moneta.

    I

    Gli dèi delle nuove imprese

    A diciassette anni compiuti, la loro somiglianza fisica era impressionante, ma ciò che condividevano era ben più importante dell’aspetto: un legame tenue e oscuro nell’anima, un nodo invisibile che spesso ardeva nelle loro viscere.

    Correo, i piedi piantati sulla biga trainata da una coppia di puledri del padre, provò a scrollarsi di dosso la sensazione che l’aveva oppresso per tutto il giorno. Si chiedeva se anche Flavio la sentisse. Da quando, due anni prima, il loro celebre padre era tornato a Roma per godersi il meritato riposo di chi aveva servito l’impero per tutta la vita, quel presagio si era fatto sempre più intenso. E quel giorno aleggiava nell’aria, come trasportato dal vento.

    I puledri grigi arrivarono alla curva con la testa alta e la coda che frustava impaziente. Quando la biga da addestramento si fermò sul punto di partenza del rettilineo, Correo si sporse in avanti e urlò: «Forza, demoni, volate!».

    Gli animali allungarono la falcata, e sotto l’elmo i suoi occhi si strinsero per proteggersi dal vento e dalla luce del sole. L’elmo era quello dell’esercito, privato della cresta e delle insegne. Quattro anni prima, quando aveva iniziato a condurre le bighe, era stato riluttante a indossarlo, perché, a suo dire, gli rendeva le orecchie incandescenti.

    «Ti renderò incandescente la schiena a suon di frustate, se ti vedo di nuovo correre senza!», aveva detto il vecchio Diulio, premendo l’elmo sui capelli castani del ragazzo. «Non ti servirà a niente spaccarti la testa in due ancora prima di aver imparato come si fa a non ribaltarsi alla prima curva!». Diulio un tempo correva con le bighe nel Circo Massimo, quindi la sua parola era legge, perfino per il figlio del padrone. Così Correo aveva iniziato a indossare sempre l’elmo, e ora gli sembrava una parte di lui al pari delle ossa del cranio, anche se di tanto in tanto – quando lo sguardo severo di Diulio era rivolto altrove – se lo toglieva per sentire il vento tra i capelli.

    I puledri sfrecciarono oltre il braccio decorato dell’asta di partenza, e Diulio abbassò la mano con la quale aveva tenuto il tempo picchiettando sulla balaustra. «Il giro più veloce finora! Questa sì che è una pariglia! Domani schieriamo queste bestie contro i cavalli neri di Flavio e gli facciamo mangiare la polvere».

    «No, aspetta un paio di giorni, non è ancora tempo di agitare le acque», disse l’uomo alle sue spalle. Fece un cenno con il capo verso la pista poco distante, dove Flavio stava addestrando un baio a serpeggiare tra una fila di pali conficcati nel terreno.

    Diulio sputò attraverso il buco che aveva lasciato uno dei suoi denti, quando era caduto tra la sabbia del Circo insieme a ciò che restava della sua biga. «Che Tifone ti porti via! Non sono un paio di galli da combattimento. Non posso tenerli separati per sempre. Anche tu lasci che si allenino insieme, è una cosa naturale».

    L’altro uomo, Alano, era un veterano della cavalleria ausiliaria in congedo, nonché maestro dei cavalli che venivano allenati per essere rivenduti all’esercito. «Sì, e quando succede, nove volte su dieci Correo si dimostra il migliore, e il padroncino fa la figura dell’idiota. Ascolta quello che ti dico, Diulio: lascia correre, per il momento. Non metterli in competizione».

    «È solo invidia, e il padrone farebbe bene a imparare a evitarla. Tanto il suo obiettivo non è diventare un auriga. Sarà un comandante, come lo è stato il padre. Correo, al contrario, già ora potrebbe avere mezza Roma a lanciargli fiori nel Circo. E per un ragazzo senza alcun patrimonio è un ottimo modo per cavarsela in questo mondo».

    «Già, ma potrebbe anche servire nella cavalleria», replicò Alano, lanciando uno sguardo di sfida al vecchio amico. «Fare un lavoro degno di un uomo, invece di andare a pavoneggiarsi in una tunica alla moda per far divertire qualche vecchia gallina».

    Era evidente che il dissapore tra i due partiva da lontano. «Dimmi una sola persona che si è arricchita prestando servizio nella cavalleria», sbuffò Diulio. Poi sollevò una mano per salutare Correo, che nel frattempo aveva riportato i cavalli al cancello di partenza. «Il tempo migliore finora! Adesso falli riposare un po’, prima che arrivi Sabino e inizi ad accusarmi di averti fatto saltare l’addestramento con la spada!».

    Correo si sfilò l’elmo e scrollò la testa nella brezza leggera, per liberarsi dai capelli sudati che gli si erano incollati sul viso. «Per gli dèi, non sia mai!», disse, riprendendo in mano le redini e lanciando un sorrisetto furbo ai due addestratori.

    Alano alzò il braccio e fischiò, e il ragazzo sulla pista più lontana indirizzò il suo baio verso di loro.

    Flavio Appio Giuliano il giovane, per tutti semplicemente Flavio, arrestò il cavallo davanti ai due insegnanti. Era due o tre dita più basso di Correo, aveva i suoi stessi occhi scuri e i tratti aquilini, ma i capelli neri e ricci come quelli di un fauno. Accarezzò l’animale sul collo e gli diede una pacca affettuosa. «Sta venendo su bene, come tutti quelli di quest’anno. Penso sia l’annata migliore», disse rivolgendosi ad Alano.

    «È un po’ presto per dirlo, padrone», rispose l’uomo, «ma credo che tu abbia ragione. L’esercito farà un affare quest’anno, a comprarli da tuo padre. Ora riportalo al coperto e va’ a prendere il tuo scudo».

    Flavio annuì e si avviò verso la scuderia, mentre i due uomini lo osservavano. Alano sospirò. «Potrebbe anche diventare un brav’uomo, se non dovesse confrontarsi sempre con la figura di un padre come Giuliano».

    «Non puoi farne una colpa al vecchio generale», rispose Diulio.

    «Non è colpa di nessuno, infatti. Quando sei il figlio di un generale famoso tutti si aspettano che anche tu impugni la spada sotto l’insegna dell’Aquila di Roma, e lui lo sa bene». Alano osservò la figura esile a cavallo del baio. «Mi chiedo solo se è ciò che desidera».

    «È come chiedere al giovane Correo se desidera essere il bastardo nato da una schiava», commentò Diulio spazientito. «La vita che ti tocca è quella che le Parche hanno filato per te, e puoi solo cercare di fare del tuo meglio. E tu dovresti saperlo, vecchio testone». Alano era un britannico, e in gioventù era stato costretto a unirsi agli ausiliari romani pena la morte, insieme ad altri giovani soldati reclutati dopo la conquista della loro tribù. «In ogni caso il generale lo affrancherà presto, altrimenti non avrebbe speso una fortuna per educarlo. A quel punto vedremo quali insegnamenti gli saranno più utili, i miei o i tuoi».

    Alano restò in silenzio e si passò una mano tra i capelli grigi. Li portava corti, alla maniera romana, sebbene sfoggiasse ancora i lunghi baffi ricurvi tipici della sua gente.

    Sotto la tunica, le sue cosce erano un dedalo di cicatrici, testimonianze indelebili di una carriera nella cavalleria. Avvolti in morbidi stivaletti di pelle, i suoi piedi erano sempre distanziati come se ancora cavalcasse un destriero invisibile.

    «Sembri una gallina che sta covando l’uovo. Immagino che tu sappia qualcosa che io ignoro», disse Diulio. «E spero tu sia abbastanza furbo da restarne fuori, qualunque cosa sia».

    «Oh, sì», rispose Alano. «Ci sarà già fin troppa gente che non saprà resistere alla tentazione di ficcare il naso in quest’affare».

    Nelle scuderie, i due ragazzi lasciarono le redini agli stallieri che accorsero verso di loro, poi si diressero insieme al capanno dove erano riposte le armi da addestramento. Fianco a fianco, sembravano due gocce d’acqua, non fosse stato per l’altezza di Correo e per il fatto che in lui i riccioli neri del padre si erano fusi con il biondo nordico della madre, dando vita a una chioma di capelli lisci e castani. Entrambi avevano la postura dritta del soldato, ma più che un’eredità paterna era il risultato delle scudisciate di Sabino, il maestro d’armi. Il loro era l’incedere sicuro e quasi arrogante dei membri delle classi agiate. I tratti aquilini e le sopracciglia arcuate li marchiavano inconfutabilmente come figli dello stesso padre. Erano cresciuti insieme. Quando avevano cinque anni, Correo era diventato il servo personale del fratello, e così aveva imparato fin dalla tenera età quali erano i limiti invalicabili tra loro. Ciò nonostante, studiavano e giocavano insieme, e spesso finivano nei guai per le stesse bravate.

    Anche se il vecchio generale aveva riconosciuto Correo come figlio, rendendolo di fatto privilegiato rispetto agli altri servi di casa, il ragazzo era pur sempre uno schiavo, e non sarebbe mai arrivato allo stesso livello di Flavio. Correo aveva imparato presto a tenersi in equilibrio su quel crinale rischioso: da una parte figlio del padrone, dall’altra membro della servitù. Di tanto in tanto la sua condizione lo infastidiva, ma fin da piccolo aveva capito che era meglio sopportare e andare avanti.

    Correo sciolse i lacci dei suoi bracciali di cuoio e li lanciò nell’angolo dove Flavio aveva gettato gli stivali. Infilarono la testa in un secchio pieno e si scrollarono l’acqua dai capelli come due cagnolini. «Hai corso bene», disse Correo. «Qualche comandante di cavalleria ti sarà grato per quell’animale».

    Flavio sorrise. «Sì, quel cavallo è fin troppo valido per finire sul campo di battaglia. Dirò a nostro padre di strappare un buon prezzo. Sempre se trova il tempo di dedicarsi agli affari, invece che ai suoi grandi piani per dar fastidio alla sua stessa famiglia», aggiunse piegando il suo sorriso in una smorfia cupa. Si infilò i sandali e poggiò un piede sulla panca di legno per stringere i lacci.

    A Correo sembrò di sentire in quelle parole un avvertimento velato. Circolavano delle strane voci negli ultimi giorni, e forse anche Flavio aveva sentito qualcosa. Se ciò che si sussurrava era vero, gli sarebbe convenuto muoversi con i piedi di piombo. «Cosa bolle nella pentola del generale, ultimamente?», chiese con prudenza mentre assicurava alla vita la cintura da cui pendeva il fodero logoro della spada.

    Flavio indossò la sua, poi prese dalla rastrelliera un paio di armi militari che avevano visto giorni migliori. «Si è messo in testa di trovarmi moglie», disse disgustato. Si infilò una spada nel fodero e passò l’altra al fratello, che aveva tirato un sospiro di sollievo alle sue parole.

    «Be’, non mi sembra la fine del mondo», disse Correo staccando dalla parete due scudi rettangolari. Erano decorati con ali di ferro e fulmini seghettati e appuntiti, e un tempo avevano portato incisi il nome, il rango e la legione del loro proprietario. Un giorno, i figli di Appio ne avrebbero avuti di simili, in qualità di ufficiali della propria legione. O almeno questo era il destino di Flavio. Per quanto riguarda Correo, lui sognava di diventare un centurione, ma era un desiderio che cercava di non cullare troppo, perché probabilmente non si sarebbe mai realizzato. «Non mi preoccuperei così tanto, se fossi in te», disse al fratello. (Se fossi in te… Se fossi Flavio, darei tutto per scontato come fa lui, si sorprese a pensare con una punta di amarezza). «Tra un mese partirai per l’addestramento e non dovrai pensare a sposarti per anni! Potrai spassartela dove ti pare senza la minaccia di un matrimonio forzato». Agli occhi di un romano, il fidanzamento era altrettanto vincolante delle nozze. «A meno che… Non è un mostro quella ragazza, vero?»

    «Per quanto ne so potrebbe essere brutta quanto Efesto», rispose Flavio. «Non l’ho mai vista, tutto quello che so è che per mio padre la sua bellezza consiste nel fatto che Emilio, il padre, ha acquistato la proprietà accanto alla nostra e non ha altri figli a cui lasciarla. Anche se fosse nata con due teste sarebbe lo stesso. Prendi il povero Iunio: è stato costretto a sposare una bambina di otto anni, che già adesso ha il culo grosso come quello di un ippopotamo. Immagina cosa diventerà quando sarà abbastanza grande da poterla portare a letto…».

    «Almeno non deve portarsela a letto ora, visto che ha ancora otto anni».

    «Sì, è per questo che l’ultima volta che l’ho visto stava ringraziando gli dèi e bevendo per dimenticare». Scoppiarono a ridere entrambi. «Ora sbrighiamoci. Dopo averla vista avrò tutto il tempo di decidere se tagliarmi le vene o no, ma adesso conviene correre ad allenarci, altrimenti Sabino ce la farà pagare».

    Presero gli scudi, i pila e un paio di spade di legno e si avviarono verso il campo di addestramento, dove il maestro li stava aspettando. Era spazientito: quei due erano in ritardo proprio il giorno in cui Appio Giuliano aveva avuto la bella idea di venire a osservare come se la cavavano i figli. I due vecchi accolsero i ritardatari con un’occhiata dura.

    Erano entrambi soldati di lungo corso, fatti con lo stesso stampo. L’unica differenza tra loro era il diritto di nascita, che aveva reso l’uno un generale e l’altro un suo ufficiale per più di vent’anni. Sabino aveva scalato posizioni fino a diventare centurione, e la maggior parte dei soldati che ci erano riusciti si erano fermati al rango di comandante di coorte. Sabino, al contrario, era entrato nella cerchia più stretta degli ufficiali di Appio già ai tempi del primo incarico del vecchio generale, restando al suo fianco fino al congedo.

    «Per le mele di Atalanta, dove vi eravate cacciati?», chiese con lo sguardo torvo.

    «Eravamo sudati e puzzavamo di cavallo», si scusò Correo. Sabino gli stava simpatico, non voleva metterlo in difficoltà sotto gli occhi di Appio. «Abbiamo fatto tardi per lavarci».

    «Avete solo perso tempo», replicò Sabino, «dal momento che ho intenzione di farvi sudare come se foste sotto il sole d’Egitto. E se il generale non sarà soddisfatto del vostro allenamento, lo ripeterete daccapo».

    Non era una bella notizia per i ragazzi, perché il generale non era mai soddisfatto, o almeno non davanti agli altri. «Andate a riscaldarvi», ordinò Sabino indicando i manichini di paglia legati a dei pali al centro del campo di allenamento. I due giovani accennarono una protesta poco convinta dicendo di essere già pronti, ma poi si strinsero nelle spalle e si avviarono. Sapevano bene cosa avrebbe risposto Sabino: i muscoli che si usano per andare a cavallo sono diversi da quelli che servono per combattere contro un altro uomo.

    Si avvicinarono ai manichini con lo scudo sollevato e le spade in mano, nella posizione a ranghi serrati – affonda il colpo e avanza di un passo, affonda il colpo e avanza di un passo – che era il nucleo della tecnica di combattimento romana. «Spada corta e formazione compatta: è questo il cuore delle Aquile», amava dire Appio. Con gli scudi perfettamente in posizione, attaccarono i manichini con colpi rapidi dal basso, al di sotto delle difese immaginarie dei bersagli. Come ogni volta, i ragazzi si chiesero cosa si provasse ad affondare la lama nella carne di un uomo invece che nella paglia autunnale: Flavio provò a immaginare cosa sarebbe successo quando l’avversario avrebbe contrattaccato, mentre Correo si domandò come doveva essere uccidere uno sconosciuto, un uomo che non aveva mai visto prima.

    Sabino osservava, annuendo con un certo orgoglio. «Il sangue non è acqua», disse ad Appio. «Il sangue non è acqua, non importa quanto sia diluito. Hai tirato su due soldati, signore». La sua voce era abbastanza bassa da non farsi sentire dai ragazzi, per evitare che si montassero la testa. «Va bene, basta così! Passiamo al pilum, signori!».

    I due fratelli si portarono il pugno al petto accennando a un finto saluto militare, poi rinfoderarono le spade. Con gli scudi ancora sollevati, arretrarono di qualche passo dai manichini, afferrarono i pila che si erano legati in spalla e si misero in posizione, tenendo nella destra l’asta di legno. Quei giavellotti mortali avevano una testa di ferro che correva per quasi metà della loro lunghezza. La punta era temprata, al contrario del resto della parte in ferro, in modo che il pilum si piegasse una volta trafitto il bersaglio, che si trattasse di carne umana o di uno scudo nemico: diventava così molto difficile da estrarre. Era un’arma in grado di trafiggere un uomo a novanta piedi di distanza.

    «Prepararsi!», urlò Sabino. I ragazzi si misero in posizione di lancio, con il braccio all’indietro e i pila accanto al volto. «Lanciare!». I proiettili schizzarono in avanti con un sibilo mortale, e quello di Flavio trapassò il manichino e andò a infilarsi nel terreno. Il pilum di Correo colpì il bersaglio al centro, infilzando il palo di supporto e piegandosi.

    «Bel colpo!», gridò Sabino mentre Correo corse a recuperare l’arma. «Flavio, mira al palo, non solo al petto. Ti aiuterà a colpire meglio». Poi raccolse un altro pilum da un mucchietto che aveva ai piedi e lo passò a Correo, che nel frattempo aveva gettato via quello piegato. Più tardi sarebbe toccato al fabbro raddrizzarlo. «Ancora una volta. Mirate al bersaglio».

    I due vecchi soldati restarono a guardare in piedi, appoggiati alla balaustra. L’abitudine di starsene seduti comodamente l’avevano persa a suon di bastonate fin dalla giovinezza, ormai quarant’anni prima. «Oggi Hafed mi porta un uomo che potrei comprare», disse Appio, indicando con la testa lo scudo e la spada che giacevano a terra accanto alla balaustra. «Lavora con lui e dimmi che ne pensi».

    «Hafed!», sbuffò Sabino. «Truffatore, straniero e adoratore di demoni!».

    «Non so di preciso cosa venerino gli arabi», rispose Appio, «ma credo proprio che non si tratti di un demone. Nel suo caso, immagino sia un qualche genio dell’avidità».

    «Ti venderà qualche rottame tirato a lucido per l’occasione, o un piantagrane a cui sarà meglio togliere la spada per stare tranquilli. Sei sicuro di volere che lo addestri con le armi?»

    «Mmm. Si tratta di un germano, solo gli dèi sanno come è finito tra le grinfie di Hafed…».

    «Di sicuro l’avrà stordito con un colpo alla testa in qualche vicolo buio», disse Sabino.

    «In ogni caso, alla frontiera del Reno sta per succedere qualcosa, e quest’uomo potrebbe tornarci utile. Un soldato che conosce già il nemico ha un vantaggio notevole. Voglio che i miei figli sappiano cosa aspettarsi, e questo germano può mostrarci come combatte la sua gente».

    «Un piano nobile e lungimirante, mio signore», disse una voce effeminata alle loro spalle, e Hafed si avvicinò svolazzando nelle sue vesti voluminose. Era seguito da due dei suoi uomini, che ne conducevano un terzo. «E poiché so quanto il mio signore tiene all’addestramento dei giovani, gli ho portato il più valente guerriero che abbia mai calcato i campi da battaglia del profondo e barbaro Nord».

    «Se è così forte, com’è finito in catene?», intervenne Flavio. Lui e Correo avevano sfruttato l’arrivo del mercante come scusa per prendersi una pausa dall’allenamento.

    L’arabo sfoggiò un sorriso cortese ma evitò di rispondere, riportando la sua attenzione su Appio. «Vedi, mio nobile signore, vedi quant’è forte, e giovane pure. Controlla con i tuoi occhi. Hafed vende soltanto merce di un certo livello». Incrociò le mani sulla pancia abbondante ostentando una grande calma, ma i suoi occhi scattanti continuarono a osservare gli altri uomini con uno sguardo furbo.

    Appio si avvicinò al germano e fece cenno agli uomini di Hafed di farsi indietro. Lo schiavo superava il vecchio generale di tutta la testa, e aveva i lunghi capelli chiari legati in un nodo a un lato del capo. Indossava delle brache corte e lacere e nient’altro, a parte il collare di metallo che gli cingeva la gola. Fissò negli occhi Appio con un’espressione dura come il granito. «Parli latino?», gli chiese lui in tono cortese.

    Fu Hafed a rispondere: «Purtroppo, mio signore, temo che non conosca altra lingua che la sua parlata barbara, ma sono sicuro che imparerà presto. Sa bene che gli conviene». Poi rivolse al germano uno sguardo che non aveva bisogno di interpreti, e che diceva: «Se mi fai perdere questa vendita ti farò pentire di trovarti tra le mie mani».

    «Non importa», disse Appio. «Come hai detto, può sempre imparare. E poi può insegnare ai miei figli la sua lingua. Potrebbe tornare utile».

    Correo tese le orecchie a queste parole – aveva sempre sognato di imparare una lingua straniera – mentre il fratello borbottò: «Per la grazia di Atena, ho già abbastanza problemi a imparare il greco da un maestro, e ora vuole farmi imparare anche una lingua barbara».

    «Quello che voglio è che tu impari qualsiasi cosa possa esserti utile», lo zittì il padre. «L’uomo colto ha un vantaggio considerevole sull’uomo ignorante. Lo capirai con il tempo». Tornò a rivolgersi al germano e gli parlò lentamente nella lingua dura e gutturale del Nord.

    «Qual è il tuo nome, straniero?»

    «Forst, signore».

    «Forst. Ho sentito dire che per la tua gente i giuramenti sono sacri. È vero?»

    «Un giuramento è ciò-che-non-può-essere-infranto, signore».

    «Esatto. E dunque ti chiedo, Forst: se dovessi comprarti da quel grasso ladro di un arabo, giureresti di obbedire alle regole della mia casa e di essermi fedele?»

    «Ho altra scelta, signore?», rispose il germano con amarezza.

    «Certo. Un giuramento forzato non può legare due uomini. Non ti comprerò, se non giuri liberamente. Se rifiuti, dirò a Hafed che non sono interessato a te».

    Il barbaro gettò un’occhiata piena d’odio al mercante. «In questo caso, signore, ti do la mia parola… di mia volontà. Non so come sarai come padrone, ma so com’è quello lì. Dubito che ti dimostrerai peggiore di lui».

    «Non mi piace questo paragone, ma apprezzo la tua onestà», mormorò Appio. «Bene, Forst, il mio maestro d’armi ti metterà alla prova, dopodiché prenderò la mia decisione». Fece un cenno a Sabino, che prese una spada lunga e uno scudo ovale decorato con un ornamento di bronzo al centro e li porse al germano. L’uomo sollevò appena le sopracciglia per la sorpresa.

    «Ho combattuto un paio di campagne lungo il Reno ai miei tempi», disse Appio nella sua lingua, e notò che Forst aveva iniziato a guardarlo con un certo rispetto, seppur riluttante.

    «Vieni con me, forza», disse Sabino, indicando con la testa il campo da addestramento per farsi capire. Poi prese anche lui uno scudo e una spada.

    Il germano sembrava divertito, e soppesava lo scudo ovale e la lunga lama. Non avrebbe mai pensato di poter stringere di nuovo tra le mani le armi tra le quali era nato, quelle della sua terra.

    «Muovi il culo!».

    La voce di Sabino distolse il barbaro dal pensiero della patria lontana, così si mosse verso di lui. Sabino impugnava uno scudo rettangolare da legionario e una spada corta, ed era forte di anni e anni di esperienza con le Aquile dell’impero. Portava anche un elmo battuto da centurione e un pettorale di metallo.

    All’inizio si studiarono con attenzione. Ovvio che nessuno dei due intendesse uccidere l’altro, anche se sui campi d’addestramento gli incidenti erano all’ordine del giorno. Ma Forst si giocava il tutto per tutto in quella sfida, e Sabino aveva ricevuto l’ordine di spingere il barbaro al massimo delle sue possibilità. Appio non voleva che un guerriero debole instillasse cattive abitudini nei suoi figli.

    Il germano si mosse in avanti e attaccò, un fendente dall’alto indirizzato al collo. Sabino lo parò con lo scudo e arretrò di un passo, preparandosi a contrattaccare nella guardia scoperta dell’avversario. Affondò la spada con un colpo dal basso verso il torace, ma il barbaro riuscì a deviare l’attacco con la parte esterna dello scudo. Si girarono intorno un altro po’, prima di lanciarsi in una sequenza di colpi e parate, dalla quale Sabino uscì con un graffio sulla coscia: la spada del germano era arrivata dal basso, e lui aveva tardato un solo istante a girarsi di lato per evitare il colpo.

    «Proprio come dicevo, mio signore: è un soldato senza pari!», si vantò Hafed. «Il migliore della sua tribù, e stiamo parlando di una tribù di guerrieri». Fece del suo meglio per incensare la mercanzia, ma ciò che evitò di raccontare era che in realtà aveva comprato il germano per pochi spiccioli, da un altro mercante che l’aveva definito un buono a nulla senza alcuna qualità se non quella di attaccare briga con qualunque altro schiavo gli capitasse a tiro. Hafed aveva subito pensato ad Appio, intuendo che se a un uomo piace tanto fare a pugni, vuol dire che deve cavarsela bene nel combattimento. Se Appio non l’avesse comprato, il germano non avrebbe avuto alcuna utilità se non come schiavo nelle miniere, e Hafed era riuscito a farglielo capire molto bene senza bisogno di interpreti.

    Forst roteò ancora una volta la spada, e Sabino si lanciò verso di lui assorbendo il colpo con lo scudo per poi continuare a spingere contro quello del barbaro, che riuscì a non perdere l’equilibrio e a fare un passo indietro appena in tempo per bloccare un affondo del maestro d’armi. Sapeva bene quanto fosse pericoloso lasciare che un nemico armato di spada corta si avvicinasse troppo: in un combattimento ravvicinato, la lama lunga della spada germanica non sarebbe riuscita a parare gli agili colpi del gladio romano, che potevano arrivare sia dall’alto che da sotto lo scudo. In effetti, a un uomo capace di superare l’arco mortale di una spada lunga, sarebbe bastato un pugnale per abbattere l’avversario.

    Il germano arretrò e sollevò lo scudo, allungando la spada. In questo modo poteva tenere a bada Sabino per tutto il tempo che voleva. Era nel momento in cui caricava il colpo, che la sua difesa era vulnerabile. Forst fintò un fendente alla gamba dell’avversario e poi affondò la lama più in alto, e allo stesso tempo spinse con il suo scudo quello di Sabino verso il basso. L’elmo del maestro risuonò sotto il colpo della spada del barbaro, ma il romano aveva letto la finta ed era riuscito a farsi prendere solo di striscio. Si allontanarono l’uno dall’altro, con il respiro pesante e il sudore che rigava i loro volti. Il germano si asciugò le sopracciglia con un braccio, tenendo sempre lo scudo alto e gli occhi puntati sull’avversario. Correo pensò che quello era un ulteriore motivo valido per tenersi l’elmo ben saldo sulla testa: il rivestimento interno imbottito permetteva di non restare accecati dal proprio sudore. Ma gli eserciti germanici non facevano del metallo la loro forza. La gran parte dei combattenti non aveva nemmeno una spada, contava soltanto su una lancia. Se questo guerriero aveva esperienza nel combattimento con la spada, allora doveva aver occupato senza dubbio un rango elevato nella sua tribù, come millantato da Hafed. Ma Sabino era una vecchia volpe e conosceva più di un trucchetto, sapeva come gestire un nemico armato di spada lunga.

    Iniziò ad aumentare il ritmo dei suoi colpi, tenendo così occupati sia lo scudo che la spada del barbaro, mentre la sua lama corta affondava senza sosta alla ricerca dell’attimo giusto in cui Forst avrebbe lasciato aperto uno spiraglio nella sua guardia. Lanciandosi nell’assalto finale, Sabino si voltò di scatto di lato, facendo sì che gli occhi del germano fossero abbagliati per un attimo dalla luce del sole. Fu abbastanza perché la spada corta si infilasse sotto la difesa del barbaro, che provò a spingere via Sabino facendo cozzare con violenza il suo scudo contro quello romano. Ma la lama del maestro aveva già percorso tutto l’addome di Forst, fermandosi all’altezza del petto e lasciando dietro di sé uno squarcio largo quanto un laccio da sandalo, che si estendeva dalla pancia all’ascella. L’impatto dello scudo di Forst fece arretrare Sabino di tre passi, e per poco non perse l’equilibrio. Sul petto del barbaro, la ferita aveva iniziato a sanguinare copiosamente.

    «Basta così», urlò Appio.

    Sabino sollevò la sua spada e poi la lasciò cadere. «Quel demonio di un ladro ha ragione», disse il vecchio soldato al suo generale, con il fiato corto. «Quest’uomo sa combattere».

    Appio annuì. «Chiedi a mia moglie di mandare una delle sue serve a occuparsi di lui». Il suo sguardo si posò sulla spessa fascia di ferro che Forst aveva al collo. «E fatti dare da Hafed la chiave di quell’affare. I miei schiavi non portano collari come cani. Di’ al guardiano di mandarlo da me questa sera, dopo cena. E non dimenticare di farti curare quella ferita sulla gamba».

    «È solo un graffio», rispose Sabino. «Ci sarà tempo di medicarlo, una volta che avrò finito con i ragazzi».

    «No, va’ a farti medicare adesso. Non sono ancora così vecchio da non poter giocare con le spade di legno insieme ai miei figli», insisté Appio. «E poi, alla tua età, un’infezione alla gamba può essere pericolosa». La sua voce si ammorbidì. «Devo prendere una decisione, amico mio, e questo mi sembra un modo come un altro per fare la scelta giusta».

    Erano solo delle ombre illuminate alle spalle dall’ultimo sole del pomeriggio inoltrato, e ognuno di loro impugnava una spada di legno bilanciata in modo da imitare l’acciaio delle sue sorelle più nobili. Le creste degli elmi brillavano nella luce tenue come se fossero nel mezzo di una parata militare. Sulla collinetta alle loro spalle si ergeva la casa di famiglia: muri ciechi, senza finestre, riparati da un tetto di tegole rosse, proteggevano la vita che si svolgeva al loro interno, tra corti e giardini. Un anello di abeti circondava la casa e si apriva in un filare imponente che digradava fino alla strada per Roma. Alla base della collina, le stalle imbiancate di calce erano affiancate dai campi di fieno e dai pascoli per le cavalle da monta. I puledri nati in primavera correvano per il campo come stormi di uccelli. Di tanto in tanto, un gruppetto di oche si faceva strada tra gli zoccoli zampettanti e si sparpagliava a beccare l’erbetta tenera. Un bel posto dove invecchiare, pensava Appio. Soprattutto per un uomo abituato a lunghe ed estenuanti marce. Un rifugio, certo, ma anche una grossa eredità da lasciare. I suoi occhi tornarono sulle sagome dei due figli, quasi impossibili da distinguere con quella luce. Una somiglianza che gli strappava il cuore a metà. Appio sollevò la spada e fece un cenno con il capo ai ragazzi. Puoi sapere tanto di un uomo, combattendo contro di lui: era un’altra delle sue massime preferite.

    Flavio si fece avanti impugnando spada e scudo. Quando padre e figlio si disposero in modo che nessuno dei due avesse il sole negli occhi, Appio notò che il ragazzo si era morso il labbro inferiore con tanta forza da lasciarsi dei segni rossi sulla pelle.

    Le loro lame finte si abbatterono sui rispettivi scudi, mentre ognuno cercava di guadagnare un piccolo vantaggio sull’altro. Una spada di legno è il miglior modo per imparare: fa malissimo sulla pelle nuda, e può far girare la testa anche quando si abbatte contro l’elmo. Inoltre consente di combattere sul serio, cercando sempre il colpo mortale. Allenarsi con una lama d’acciaio non avrebbe avuto senso: Appio non voleva che i suoi figli imparassero a trattenere i colpi fermandosi all’ultimo istante, come impone una spada vera. Sarebbe stata un’abitudine difficile da perdere, e che poteva costare la vita. Un uomo che si allena con il legno, al contrario, non deve mai preoccuparsi di dosare la forza dei suoi affondi, e di conseguenza non corre il rischio di prendere cattive abitudini.

    Appio poteva contare su quasi quarant’anni di onorato servizio tra le fila delle Aquile. Quarant’anni in cui aveva sempre e solo combattuto sul serio. Fintò un colpo basso alle gambe, e quando Flavio abbassò lo scudo per pararlo, Appio affondò un fendente dall’alto verso il basso sulla clavicola del figlio, che sarebbe bastato per aprirgli il petto in due. Flavio digrignò i denti per il dolore, e Appio gli disse: «Guarda i miei occhi e i miei piedi. Se un nemico muove la spada ma tiene i piedi fermi vuol dire che non ha intenzione di sferrare l’attacco che vuole farti credere».

    Flavio si lanciò in avanti e provò un attacco di punta che si infranse sullo scudo del padre. «E non rischiare che la tua spada resti infilzata nello scudo dell’avversario. Potresti non riuscire più a estrarla».

    «Ti assicuro che non era quello che volevo», disse Flavio a denti stretti. Parò il colpo successivo sollevando la spada e quello ancora dopo opponendosi con lo scudo.

    «Ottimo!», commentò Appio.

    Flavio fece un sorriso poco convinto. Per gli dèi immortali, quanto odiava tutto ciò: allenarsi con il padre, non essere mai all’altezza del vecchio generale, sentirsi addosso gli occhi di Correo che li osservava appoggiato al suo scudo. Forse sarebbe stato meglio essere il figlio di uno schiavo, non avere pressioni né modelli a cui aspirare. Strinse di nuovo i denti e parò l’ennesimo attacco del padre. Uno schiavo non avrebbe dovuto preoccuparsi di essere all’altezza di nessuno.

    «Basta così», disse Appio, osservando il volto del figlio al di sopra dello scudo. «Va’ a prepararti per la cena. Manderò Correo ad aiutarti non appena avrò finito con lui».

    Flavio aprì la bocca e subito la richiuse. Fece il saluto militare portandosi il pugno al petto e si avviò per la collina, verso le mura senza finestre. Appio lo osservò allontanarsi, con un’espressione indecifrabile sul viso, e notò che anche Correo lo stava guardando. «Bene, scansafatiche, direi che ti sei riposato abbastanza».

    Correo sollevò la spada e fece il saluto, aggiungendo con ironia: «Sì, signore!». Appio vide il sorrisino che il figlio nascondeva sotto l’elmo, e non poté fare a meno di ricambiarlo.

    Il ragazzo si fece avanti con prudenza ma con sguardo sicuro. La brezza leggera agitava le ciocche di capelli che spuntavano al di sotto del suo elmo. Aveva l’aria di chi sa che sta per divertirsi, l’esuberanza nervosa e scattante del guerriero nato. Appio conosceva bene quello sguardo: l’aveva visto più di una volta guardandosi allo specchio. «Un po’ più di umiltà non guasterebbe», disse mentre Correo si avvicinava.

    «Sono sicuro che me la insegnerai a colpi di spada, signore!», rispose il ragazzo, ed entrambi risero alla battuta. Quella risata arrivò alle orecchie di Flavio mentre risaliva la collinetta, e gli sembrò un commento di scherno nei suoi confronti. Anche quando il vento la spazzò via, continuò a risuonare nelle sue orecchie.

    Correo si lanciò con foga contro Appio, stringendo lo scudo e tenendo la spada inclinata per colpire dal basso verso l’alto, l’attacco più letale di tutti. Appio colpì per primo, ma Correo assorbì il tentativo con lo scudo senza troppa difficoltà. Poi il ragazzo contrattaccò provando a sorprendere il padre dal basso, ma il vecchio riuscì a deviare il colpo. Si scambiarono una serie di attacchi e parate, schivate e finte, e Appio sentì quel piacere che solo un avversario all’altezza delle sue capacità sapeva dargli. Non si concedeva quasi mai di combattere con il suo secondogenito. Sapeva che il piacere che provava con lui rischiava di annebbiare il suo giudizio di padre, e che chiunque avesse assistito alla scena se ne sarebbe accorto all’istante.

    Dopo dieci minuti si allontanarono l’uno dall’altro, accaldati, sudati e con il fiato corto, ma del tutto soddisfatti e appagati. Nessuno dei due era riuscito a penetrare di un’unghia nelle difese dell’altro. Era come combattere contro uno specchio, ancor di più per il fatto che Correo era mancino. Quando da piccolo aveva iniziato a fare tutto con la sinistra, le donne di casa avevano provato a costringerlo a usare l’altra mano, considerando i mancini un veicolo di malasorte, un segno che gli dèi stavano tramando qualche terribile punizione. Durante un periodo di licenza, Appio era tornato a casa e aveva trovato il figlio in lacrime per la frustrazione, con il braccio sinistro legato al fianco. Aveva subito ordinato di togliergli la fasciatura: prima di allora non si era quasi accorto che esistesse, quel figlio bastardo, ma la feroce determinazione del piccolo lo aveva colpito. Non avendo mai visto un soldato nato mancino in grado di combattere bene con la mano destra, non si era curato delle proteste delle donne di casa. E Correo, finalmente libero di assecondare la sua natura, gli aveva dato ragione: dopo essersi allenato per tutta la vita a lottare contro destrimani, era abituato a combattere contro un’immagine speculare, cosa che non si poteva dire dei suoi avversari. Era un vantaggio che aveva imparato a sfruttare alla perfezione.

    «Sei migliorato», disse Appio, e Correo sentì un guizzo d’orgoglio nel petto. Era raro che il padre lodasse qualcuno in maniera così esplicita. Il vecchio lasciò cadere lo scudo, e lui lo imitò dopo una breve esitazione. Allora era vero che c’era qualcosa nell’aria…

    Camminarono fianco a fianco fino al terreno di pascolo. Appio restò a lungo in silenzio, osservando i cavalli e il fieno appena falciato. Gettò lo sguardo verso la grande casa, al di sopra della quale il carro di Apollo si apprestava a condurre il sole verso le tenebre oltre l’orizzonte. «Il futuro sta per abbattersi su di noi, figlio mio», disse infine. Correo si sorprese a stringere con forza la staccionata del campo. Le occasioni in cui il padre l’aveva chiamato così si potevano contare sulle dita di una mano.

    «Sai bene che la mia intenzione era quella di liberarti, una volta che saresti stato abbastanza grande», continuò Appio.

    «È quello che pensavo, signore».

    «Tutto questo…», disse Appio accennando con la testa alle vaste proprietà di famiglia illuminate dagli ultimi raggi di sole. «Non posso darti niente di tutto questo. Appartiene a Flavio, e anche se potessi non lo darei a te. È suo per diritto di nascita, gli dèi hanno voluto così. O almeno credo. Ma tu… Alano e Diulio mi dicono che hai la stoffa per farti strada nella cavalleria, o anche nel Circo Massimo. Anche se il Circo non è proprio quello che sceglierei per te, malgrado siano molti quelli che si sono arricchiti con le corse. Dimmi: è ciò che vuoi?»

    «Tra le due strade, signore, credo che sceglierei la cavalleria. È più vicina a quello che…». Si fermò senza finire la frase. La cavalleria era più vicina a quello che desiderava davvero. E quello che desiderava davvero gli sembrava tanto irraggiungibile, anche da uomo libero, quanto le proprietà terriere di Appio.

    Il vecchio studiò il volto del figlio. «È più vicina al ruolo di centurione, stavi per dire. È questo che vorresti, vero?»

    «Sì, è così». Correo non tradì alcuna emozione nella voce. Diventare centurione… Avere il rango di ufficiale nelle legioni, tra le Aquile, tra i migliori soldati di Roma. Ripercorrere i passi di suo padre, quelli che suo fratello Flavio era chiamato per diritto, e dovere, di nascita a seguire. «Pensi che mi accetterebbero, signore?»

    «Mio figlio verrebbe accettato ovunque nell’esercito», disse Appio. «Correo, ragazzo mio, ascoltami bene. Sei nei miei pensieri più di quanto tu creda. Ciò che un uomo si lascia alle spalle è importante, lo capirai tu stesso quando sarai più vecchio. Non posso darti ciò che spetta a Flavio, ma il mio nome è abbastanza grande da poterlo dividere tra voi due. Questo posso dartelo: un nome da tramandare a tua volta, un nome che ti spiani la strada per diventare centurione».

    Appio colse negli occhi del figlio una luce improvvisa, che spazzò via l’ombra cupa che avvolgeva lo sguardo di Correo ogni volta che si trovavano a parlare dell’esercito. Solo questo posso fare per lui, pensò. Solo questo, per il sangue del mio sangue.

    «Se il mio padrone riuscisse a tenere i piedi fermi, i lacci si stringerebbero meglio». La voce dello schiavo tradiva la sua esasperazione, e Appio capì che doveva smetterla di muoversi per la stanza e lasciare che l’uomo sistemasse il complicato intreccio dei lacci dei suoi sandali. Erano in pelle morbida e flessibile, tinti di un marrone semplice, ma si trattava pur sempre delle calzature di un uomo abituato a stare in casa, e Appio non si sarebbe mai trovato a suo agio indossandoli, non importa quanta cura avrebbe impiegato lo schiavo ad allacciarli. I suoi piedi avevano calzato per tutta la vita dei sandali pesanti da marcia, che gli avevano lasciato in eredità tutta una serie di calli e bitorzoli dall’alluce al tallone. Ciò nonostante, si decise a studiare il mosaico del pavimento finché lo schiavo non ebbe stretto l’ultimo nodo. Raffigurava un tritone dalla coda di pesce nell’atto di placare le acque al suono della sua tromba a forma di conchiglia. Le pareti della stanza sembravano emergere dal mare, e rappresentavano Flora in un giardino fiorito e un piccolo Pan nascosto dietro un alberello a spiare una divinità misteriosa.

    Le finestre si aprivano su un roseto, al cui centro c’era una vasca. Il gatto della cucina era steso sul bordo a contemplare i pesci che guizzavano tra le ninfee. Oltre il roseto, un grazioso cortile rivestito di marmo ospitava una statua di Atena. In una stanza adiacente c’era un bagno privato, e più oltre la camera da letto. Appio si era tenuto la sala del tritone come stanza per sé, ma come quasi tutti i romani di vecchio stampo era solito dividere la camera da letto con sua moglie.

    Le stanze più lontane, quelle che davano sull’atrio, erano attraversate dal consueto viavai di una familia romana che si preparava alla cena. L’atrio era l’ambiente centrale della casa, costruito intorno a un impluvium, la piccola vasca sulla quale si allargava un’apertura nel tetto per far entrare la luce del giorno e raccogliere l’acqua piovana. Sulle pareti dell’atrio, dei piccoli altari rendevano onore alle divinità protettrici della casa. Dalla cucina si levava un profumo di pesce e spezie, una giovane serva si affrettava per il colonnato con una cesta di frutta, seguita dalla figlioletta del cuoco, che portava un vassoio con aria solenne. Dal roseto arrivò un’esclamazione indignata, e subito dopo una risata. Flavio e Correo, ben lavati e pettinati e con addosso tuniche

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