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Absinthe
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E-book376 pagine4 ore

Absinthe

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Info su questo ebook

La morte, signora volubile e temuta, veglia su ogni anima e la brama. L’ultimo respiro di ogni essere finito le appartiene e chi osa cercare di ingannarla non può che essere condannato a un’eternità di dolore e sofferenze. La morte è un bacio di gelida quiete, l’eternità è un nulla viscoso di peccato.
Julian è sfuggito alla morte diventando un vampiro, ma la maledizione di un’eternità di sangue l’ha messo in catene. James è sfuggito alla morte diventando un demone, ma la morte gli è comunque rimasta dentro e lo segue in ogni dove da quando è tornato dall’inferno.
I cuori di entrambi vivono in un passato da dimenticare, i corpi si muovono in un presente in bilico tra vizi e virtù. Le menti, le colonne portanti della loro esistenza, sostengono il gran tempio delle loro vite nutrendosi d’arte. E il passato dimostrerà di non essere poi così impotente sul loro presente.
Jago, burattinaio inarrestabile, ha sete di vendetta e niente gli impedirà di ottenerla: Julian è il suo antagonista da annientare e James un mero strumento da piegare.
Peccato che James, un dandy che mai si è inchinato davanti ad anima viva o morta, non appartenga a nessuno se non alla musica del proprio violino.
Peccato che Julian, un affascinante Conte dalle fattezze angeliche, annientato dal senso di colpa per i propri errori passati, si rivelerà più interessante e nobile di quanto prospettato.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2023
ISBN9791220706094
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    Anteprima del libro

    Absinthe - Selene Alaska

    1

    JULIAN

    «Perché l’oblio, signor Ravensward?» chiese Anne, facendo seguire alle sue parole lo scoppio di un tappo di champagne.

    Oblivion. Oblio.

    Erano giorni, ormai, che Julian gustava e rigustava quella parola sulla punta della lingua. Era una parola che aveva un peso inesprimibile sul suo cuore, ma che ora assumeva tutto un altro significato, pronta a divenire il nome del suo teatro.

    Non rispose immediatamente alla domanda della cameriera, ma si prese il suo tempo, sfiorando il labbro inferiore con il dito indice. La testa mollemente abbandonata sul dorso della mano, il gomito posato sul bracciolo della poltrona posta nella tribuna d’onore, lo sguardo sulla compagnia teatrale impegnata a provare sullo sfarzoso palco.

    «Perché l’oblio…» ripeté Julian, senza portare gli occhi sulla giovane. Non ancora.

    «Sì… mi chiedevo perché vi foste rifatto a un nome che richiama il concetto di oblio. È una cosa singolare,» spiegò la donna, rivelando uno spiccato senso critico, che non poteva non stuzzicare l’attenzione di Julian.

    L’uomo, però, era distratto. Era distratto dalla propria euforia, dall’aspettativa… e dai battiti del cuore di Anne, che spingevano il sangue a riempirle le arterie, in un turbinio sonoro e ipnotizzante.

    Chissà che sapore aveva il suo sangue. Ognuno aveva un gusto diverso: dolce, salato, aspro, amaro; la varietà dei sentori poteva quasi essere paragonata al vino. Champagne, amarognolo e frizzante; Barolo, vino italiano scuro e corposo; Cabernet, bianco o rosso, con una punta di dolcezza; il Moscato, dolce come il miele… L’odore del sangue della cameriera pareva avere un sentore dolciastro, probabilmente con un retrogusto aspro.

    «Signore? Vi ho forse offeso con la mia domanda? Non volevo…» provò ad aggiungere Anne, chiaramente preoccupata, se non mortificata. Julian sollevò una mano a fermare il fiume di parole che sarebbe certamente seguito e, finalmente, portò gli occhi sulla donna dai corti capelli neri.

    Lo sguardo dell’uomo era terribilmente penetrante, soprattutto quando la fame gli prosciugava i tratti e lo rendeva meno umano e florido alla vista.

    Era tentato di assaggiarla, di far scendere i canini appuntiti, che avrebbero reso la sua bellezza principesca a dir poco selvaggia. Avrebbe approfondito lo sguardo, ipnotizzando con la sua forza mentale la giovane, l’avrebbe fatta inginocchiare al suo cospetto e poi avrebbe passato la lingua sul suo collo abbronzato, appena prima di morderlo con decisione, i gemiti della ragazza a risuonargli nelle orecchie.

    «Io…» provò ancora a dire Anne, ma il sorriso freddo e cortese di Julian parve zittirla. Probabilmente, anche senza l’utilizzo della compulsione, la giovane schiava di sangue non si sarebbe fatta pregare troppo per concedersi al suo morso.

    «La vostra domanda è arguta, e mi piacciono le persone argute,» proruppe Julian, con voce vellutata. Il suo pareva un tentativo di adulazione, ma era piuttosto chiaro che non lo era. Non stava tentando di sedurla, il suo tono di voce era altero, accademico. «Ho scelto il nome Oblivion per il teatro perché, semplicemente, credo che il concetto di oblio sia terrificante,» spiegò, osservando i tratti della giovane mutare un poco per lo stupore. Solo un uomo totalmente consapevole di se stesso e del proprio valore poteva ammettere una delle proprie più grandi paure con quella leggerezza d’animo. La paura di dimenticare e di essere dimenticato.

    «Se credete che sia terrificante, perché lo accostate a una cosa tanto bella come un teatro?» chiese lei, riuscendo finalmente a riempire il calice.

    Julian sorrise, rendendosi conto del pomposo modo di rivolgerglisi che la cameriera aveva adottato. «Vedete, credo che il miglior modo di esorcizzare una paura sia quello di tenersela vicina e di prenderne una dose ogni giorno, proprio come si fa con i veleni per diventarne immuni,» spiegò con estrema semplicità, intavolando un concetto di un certo peso con la facilità e l’immediatezza di un respiro. «Richiamando l’oblio nel pensare al mio teatro, avrò l’opportunità di esorcizzare poco alla volta la paura che questo concetto mi crea,» aggiunse, accettando il calice di champagne che Anne gli porgeva.

    Le loro dita si incontrarono e la schiava di sangue inevitabilmente si accorse di quanto fossero fredde quelle di Julian. Il vampiro aveva bisogno di nutrirsi.

    «Signore… permettete?» chiese, sfilando un elegante coltellino dalla tasca del gilet dorato della divisa. Lo accostò al polso, aspettando la risposta di Julian per recidersi la pelle ricoperta di cicatrici.

    Gli occhi predatori della parte più bestiale di Julian si posarono sulla pulsante vena che animava il corpo di Anne e i canini punsero le gengive, premendo per essere sfoderati. Anne, avvezza a trattare con la fame bruciante dei vampiri, fece affondare la lama affilata nella pelle del polso, aprendo un piccolo taglio che prese immediatamente a sanguinare.

    I sensi di Julian si erano dolorosamente acuiti di fronte all’odore del sangue. La sua gola bruciava come quella di un ostaggio condannato alla fame e alla sete. Oh, la sete. La sete non lo abbandonava mai. Mai.

    «Signorina, perdonate la mia sfacciataggine,» mormorò, portando la mano libera ad avvolgere il polso di Anne per farne sgorgare altro sangue, liquido e copioso come un vino rosso di prima qualità estratto direttamente dall’otre. Gocce purpuree minacciarono di cadere sulla moquette borgogna, ma la mano libera di Julian le intercettò, macchiandosi di peccato.

    Ipnotizzato, portò le dita sporche alle labbra per assaggiare quella sostanza paradisiaca e quasi gemette di fronte a quel gusto debilitante. Ma no, gesti così fisici non erano degni di Julian. Desiderava morderla, aveva bisogno di farlo. Nessuno avrebbe potuto vederlo, si trovavano nel suo palchetto privato, fuori dalla portata degli occhi degli attori… perciò un piccolo assaggio di peccato era ammissibile, no?

    Anne, da esperta tentatrice, gli porse il polso bianco con un sorriso materno e, di conseguenza, le pupille di Julian si allargarono tanto da ingoiare le iridi color cielo d’estate. I capillari sanguigni apparvero pian piano a rendere lo spettacolo ancora più macabro e la pelle intorno al suo sguardo animale si increspò come carta velina in una maschera di bestialità.

    Il calice venne posato sul bracciolo della poltrona, l’equilibrio precario un problema decisamente secondario. Julian riusciva a sentire il cuore della cameriera battere attraverso le sottili arterie, il rivolo di sangue sulla sua pelle bianca uno spettacolo degno di essere immortalato in uno scorcio d’arte. Si portò il braccio della giovane alle labbra e i suoi canini affilati come pugnali d’avorio squarciarono la morbidezza di quel polso, affondando nella sua carne come burro. Il sangue, denso e ferroso, gli riempì la bocca e la bestia che era dentro di lui ruggì di soddisfazione, vedendosi concedere ciò che più anelava.

    Era stato incauto, Julian, ad affamarsi in quel modo, ma l’agitazione per l’imminente soirée d’inaugurazione dell’Oblivion Theatre aveva assopito anche il suo senso di sopravvivenza. Così, ecco che il vampiro cauto e schivo si faceva sopraffare dal mostro assetato di sangue che portava dentro da più di cinquecento anni.

    La sua parte razionale era forte, però, e fu in grado di farlo ritornare alla coscienza, per evitare di prosciugare Anne di ogni spinta vitale.

    Il vampiro inspirò, malgrado non ne avesse bisogno, continuando a reggere tra le dita l’arto della schiava di sangue, che era caduta a sedere sulla poltrona al suo fianco.

    Ritornato in sé in qualche respiro, sfilò il fazzoletto che teneva nel taschino e lo portò a tamponare la ferita di Anne. Non sembrava affatto turbata dall’aver appena nutrito la bestia che albergava dentro il proprio padrone. Aveva gli occhi spalancati, ma un sorriso quasi ebbro sulle labbra leggermente dischiuse. Era grata, totalmente grata di aver potuto beneficiare delle endorfine che il morso di vampiro sprigionava, sensazioni che potevano facilmente portare alla dipendenza. Che l’avevano portata alla dipendenza.

    «Perdonatemi, Anne: un comportamento increscioso da parte mia,» si scusò Julian, obbligando i propri tratti vampireschi a ritirarsi e a lasciare il posto a un’espressione angelica, ma corrucciata. «I gentiluomini solitamente sanno controllare i propri istinti… lasciate che mi faccia perdonare,» esalò, levandosi in piedi per recuperare un altro calice dal vassoio che Anne aveva portato, per riempirlo. Servile come solo un padrone di casa poteva essere, offrì lo champagne alla schiava di sangue, premurandosi che questa stesse continuando a tamponare la ferita sul proprio polso.

    «Signore… non è necessario, io sono qui per questo…» cercò di dire la giovane, ma Julian la obbligò a prendere il bicchiere, per sedare la propria colpevolezza.

    «Insisto,» esalò l’uomo. Il suo colorito era più florido, i suoi occhi più lucenti, le labbra gonfie e tinte di un meraviglioso rosso borgogna; il cuore aveva ricominciato a battere flebilmente nel suo petto, rimesso in moto dal fiotto di sangue che aveva gustato.

    «Il mio sangue è vostro, mio Signore,» disse questa, accettando però il bicchiere.

    Quell’affermazione compiacque Julian, al quale piaceva parecchio essere trattato alla stregua di un nobile. Cosa che era, in effetti. Gli piaceva che, anche in quel secolo in cui il rispetto aveva perso ogni valore, chi lo circondava sapesse approcciarsi a un Conte centenario, malgrado il suo titolo avesse ormai perso consistenza.

    Si sedette accanto alla ragazza, con il proprio champagne di nuovo in mano. Anne immerse un lembo pulito del fazzoletto nel proprio bicchiere e portò la stoffa inumidita alle labbra di Julian per detergerle dall’alone lasciato dal sangue.

    «Beviamo insieme,» chiese lui, offrendole di scontrare i bicchieri in una sorta di brindisi silenzioso, per gratificare quella premura. Adorava, ricercava le particolarità nelle persone che incontrava, e Anne pareva essere un’anima interessante.

    Arguta, consapevole, delicata, materna e discreta.

    Julian non si circondava spesso di schiave di sangue, le aveva assunte all’Oblivion solo per vezzeggiare i vampiri del Consiglio che vi avrebbero fatto tappa, ma Anne gli piaceva, perciò non l’avrebbe lasciata alle loro grinfie. L’avrebbe portata con sé, nella propria magione, e le avrebbe concesso un ruolo nella propria vita. Da tempo stava cercando una persona che potesse custodire la sua casa durante le numerose assenze a cui i suoi viaggi lo costringevano.

    Era difficile accendere l’attenzione di Julian: Anne c’era riuscita.

    2

    JAMES

    Gli piacevano i momenti di quiete. Era quando James non si trovava in mezzo alla confusione, quand’era in preda agli spasmi di una pasticca di troppo che la dolce voglia di uccidere lo assaliva.

    Quiete. Silenzio. Buio.

    Una vittima giovane. Un’adolescente innocente. Un pianoforte alla parete chiuso ai piedi del letto di lei.

    Era così che James sceglieva le sue vittime. Non si accontentava di una ragazza qualunque. La voleva istruita, la voleva musicale, di bell’aspetto, fragile…

    E non amava gli spargimenti di sangue, no. Dovevano essere gli incubi a consumare quell’anima. Doveva essere la propria musica, la colonna sonora di quella morte.

    Con passo felpato il demone si accostò al letto della giovane. Un sorriso pacato sconvolse per qualche secondo la serietà della sua espressione.

    Allungò una mano ad accarezzare la tempia rilassata della dormiente, in un estremo e tenero saluto, prima di avvicinarsi silenzioso al pianoforte.

    Aveva sentito la ragazzina suonare quel pomeriggio, tutto il tempo. Era rimasto in estasi sotto la sua finestra ad ascoltarla. Sì, lei… era perfetta.

    Con uno sguardo dolce quanto letale accarezzò piano quella tastiera bianca, vivida nell’oscurità della camera.

    A uno a uno, nella loro consistenza, premette quei tasti, e la musica riempì l’ambiente.

    Chopin.

    Il sonno della giovane divenne agitato, i respiri affannosi.

    Il ghigno tornò sul volto di James mentre delle lame invisibili dilaniavano il corpo della vittima, nei suoi incubi peggiori. Lui era là, in un angolo della sua mente, ad assistere alla scena mentre le proprie dita si muovevano sicure e reali sulla tastiera.

    Le lenzuola precipitarono dal letto scomposte. La giovane continuò a dimenarsi, a piangere con gli occhi ancora serrati, mentre James le dava le spalle.

    Infine, un ultimo grido, più forte, si confuse con la melodia dolce e straziante del brano… poi più nulla.

    Nella stanza non riecheggiarono che le dolci note di un pianoforte fino alla chiusura sfumata e vibrante del pezzo.

    Quando il demone si voltò, gli occhi sbarrati della sua vittima erano senza vita, vacui e perduti nel vuoto. Pietrificati in un’espressione di puro terrore.

    Un rivolo di sangue scorreva silenzioso dall’angolo delle labbra. L’unghia spezzata aveva scalfito la seta del suo cuscino.

    James assaporò il profumo della morte tra quelle lenzuola. Sfiorò con un indice quel rivolo di sangue che macchiava il guanciale e con estrema lentezza scostò da esso un ciuffo di capelli che vi si era impigliato, liberando con nauseante premura il viso cereo della giovane vittima.

    «Buonanotte, angelo,» mormorò lugubre, sfiorando l’orecchio di lei, ancora caldo, con le proprie labbra.

    Con un ultimo bacio alla tempia la abbandonò, impossessatosi di quel sonno che non gli apparteneva, e confondendosi, così come era venuto, tra le ombre.

    Per quella notte anche lui avrebbe potuto riposare.

    Era una notte buia a Camden Town.

    Il vento appena pungente scompigliava i capelli di James, e il giubbotto in pelle lo riparava da esso mentre distrattamente camminava sui marciapiedi di Camden Lock alla ricerca di qualcosa di interessante. Qualcuno da tentare, da torturare mentalmente, da spingere al dolore, alla disperazione.

    Ne aveva voglia. Ne aveva una disperata, matta voglia.

    Il momento della giornata che meglio prediligeva era la notte. Solo allora, con il proprio dono onirico di morte, James poteva spingersi oltre i limiti del consentito.

    Gioiva, una sensazione di piacere lo pervadeva quando da dietro una finestra poteva stare a osservare un povero malcapitato contorcersi nel letto dalla sofferenza, o morire dopo aver subito sulla propria carne tutto quello che in sogno aveva patito.

    Lo aveva appena fatto, e l’avrebbe rifatto, ancora.

    Il violino, quello non poteva mancare. Era qualcosa che si portava dietro dagli anni mortali: l’amore per la musica, per la poesia, per l’arte, che adesso aveva tramutato in qualcosa di orribile e fatale.

    Il suono della morte, con James, prendeva la forma del dolce vibrare delle corde di un violino.

    Ma la sera precedente ne aveva spezzato una corda, che l’indomani avrebbe dovuto sostituire. Il consumo di una dose eccessiva di polvere bianca, proprio prima di suonare un adagio lento e straziante, aveva reso il violinista impreciso e scoordinato.

    Così avvezzo alla bellezza, la sgradevolezza degli errori d’esecuzione aveva spinto il demone a ritrarre l’anulare con fin troppa energia, e la corda più sottile si era divelta, arricciandosi innaturalmente con uno sgradevole suono accusatorio.

    James aveva imprecato. Aveva abbandonato con stizza lo strumento sopra il letto, e, invasato dalla droga in circolo, se ne era uscito di casa.

    Aveva finito per rimanere appoggiato a un vecchio portone con la testa riversa contro l’angolo dello stipite, con il respiro umanamente irregolare ma i sensi demoniaci in costante allerta.

    «Guardati, James, sei ridicolo!»

    Una voce familiare era sopraggiunta all’udito del demone, che pure in quelle circostanze era rimasto sopraffino.

    James aveva sorriso, ben conscio che quella sensazione ovattata di rifugio regalatagli dalla droga, nel suo corpo da demone, sarebbe durata molto poco.

    Aveva scosso il capo ciondolante, concedendosi un rumoroso sospiro prima di levare gli occhi lucidi, ma palesemente coscienti, sul volto severo di chi gli aveva rivolto la parola.

    «Diana, dannazione. Quando la pianterai di starmi tra i piedi nei momenti meno opportuni?» si lagnò contrariato.

    «Sembri un reietto,» infierì Diana, porgendogli spiccia una mano affusolata e perfettamente curata nei dettagli delle unghie dipinte. «Dobbiamo parlare. Ho bisogno che ti faccia passare lo sballo, James.»

    Il demone sorrise sornione e, nella penombra, il taglio profondo della cicatrice sullo zigomo divenne addirittura più evidente. Afferrò la mano di Diana, tirandosi su a fatica ma rimanendo controllato nei movimenti teatrali che ne seguirono. Si avvicinò alla donna con il busto, sollecitandola con il proprio sguardo a portare le labbra vicino alle proprie, per negargliele successivamente.

    «Suvvia, Diana…» sussurrò compiaciuto, perdendo le proprie dita nell’intrico corvino di quei capelli lisci. Lo sguardo esotico della donna demone percorse lascivo i tratti del viso di James e tanto gli bastò per negarle totalmente le attenzioni che le avrebbe dovuto.

    «Non ti sei ancora stancata di fargli da piccione viaggiatore, dolcezza?» domandò, con un’inclinazione della voce palesemente melensa.

    Diana non poté non scuotere il capo esasperata. La donna conosceva bene i colpi di testa di James, le sue ironie, i suoi capricci, perfino le sue perversioni.

    James sapeva di condividere parecchi passatempi con quella compagna di dannazione.

    «Domani si terrà l’inaugurazione di un teatro nel centro di Londra, l’Oblivion,» esordì la donna, accarezzando con ostentazione la zazzera scompigliata di James, mentre si issava sulle punte. «Jago desidera che una nostra delegazione sia presente.» Rise, scorrendo le unghie laccate lungo la sinuosa curva del collo muscoloso del demone. «Dice che sarà scenico e spettacolare,» aggiunse eccitata, abbassando il proprio sguardo tentatore sulle labbra secche e disidratate di James.

    La punta della sua lingua corse a inumidire le proprie, in un riflesso condizionato, ma non osò andare oltre, conscia probabilmente della scarsa lucidità in cui il compagno demone verteva in quel momento.

    «Perciò domani verrai con me alla soirée. Cerca di non ridurti come oggi…» concluse schiettamente, rivolgendogli un ultimo sguardo di biasimo.

    James grugnì infastidito, poi lasciò cadere il proprio corpo di peso sul gradino in cui si era rannicchiato poco prima.

    «Stanne certa, domani sarò più in forma che mai,» la rassicurò, poco convincente. Ridacchiò invasato, cercando di cavare fuori dalla tasca il pacchetto delle sigarette. Quando lo prese, questo ruzzolò ai suoi piedi strappandogli un’imprecazione poco signorile.

    Con un gesto violento James afferrò il pacchetto e lo aprì, tirando fuori una sigaretta. Era frastornato, abbastanza da non centrare nemmeno la punta di questa con la fiamma dell’accendino.

    «Dammi, faccio io,» lo anticipò Diana rubandoglielo di mano. James la vide chinarsi di fronte a lui e accendere, rivolgendo esasperata gli occhi al cielo.

    «Usi le stesse premure ossequiose anche con il tuo signore o io sono un privilegiato?» ironizzò il demone, a quel gesto. «Oltre a fargli da piccione viaggiatore, intendo… Gli asciughi il rivolo dal mento e gli riponi la salvietta dopo il pasto?» scoppiò a ridere, sguaiatamente divertito dalla trovata sarcastica.

    Diana, che fino a quel momento aveva mostrato un controllo inappuntabile, ringhiò minacciosa spintonandolo contro il portone con la mano libera.

    Il demone allora inarcò le sopracciglia, genuinamente divertito da quella reazione inaspettata.

    «Solo il fatto che tu sia un demone come me non ti dà alcuna libertà di fare certi commenti nei miei confronti, James,» sibilò ostile.

    Il sorriso scintillante di James si illuminò tetro nell’oscurità. «Solo per il fatto che tu sia un demone come me, non vuol dire che non possa concedermi tutte le libertà che desidero…» la rimbeccò.

    Diana si incupì. Mollò la presa dal giubbotto di pelle di James e si rimise in piedi. Guardandolo dall’alto del suo metro e settantotto, le sue sopracciglia si inarcarono a coronamento di un’occhiata sprezzante. Non disse altro, le sue labbra truccate articolarono solo una parola: «Domani,» poi gli voltò le spalle e, accelerato il passo, scomparve nell’oscurità.

    3

    JULIAN

    Il gran giorno era arrivato e Julian era curiosamente radioso. Era da diverso tempo che sentimenti così densi non pizzicavano la sua anima sopita.

    I secoli si erano accumulati dentro di lui in un alternarsi bipolare di brevi episodi maniacali, all’insegna delle passioni, e di altri più densi di sentimenti oscuri e totalizzanti, di solitudine.

    Julian era proprio immerso in uno dei periodi più ritirati e improduttivi. L’immobilità divorante inquinava le sue giornate, trasformandole in insopportabile routine, ed era proprio per quel motivo che aveva deciso di dare una scossa alla propria vita imprenditoriale. Aveva infatti acquistato un vecchio teatro di Leicester Square da riportare a nuova vita, proprio come il vampirismo aveva fatto con lui.

    L’uomo era particolarmente difficile da accontentare, soprattutto su progetti su cui aveva rimuginato per diversi anni, ma il team di architetti e di decoratori di interni di prima scelta aveva reso quel luogo un capolavoro. C’erano diverse influenze architettoniche all’interno dell’Oblivion Theatre, che provenivano da ogni angolo del mondo. C’era il barocco, c’erano influenze vittoriane, c’era il classicismo nelle colonne di marmo bianco che costellavano l’enorme androne, che ora ospitava le centinaia di invitati che avrebbero goduto della prima teatrale di quella sera. C’era l’oriente negli arazzi e nei tappeti, c’era l’opulenza bizantina nell’oro delle ringhiere delle scale che si arrampicavano sulla struttura interna color panna, per permettere a ogni spettatore di raggiungere le proprie poltrone.

    Raggiante di soddisfazione, Julian soppesava i propri passi mentre si aggirava tra gli invitati. Chi riusciva a catturare la sua attenzione cercava di tenersela cara, perché era da parecchio tempo che l’uomo non metteva piede in società, per così dire. Aveva abbracciato la propria solitudine e lo aveva fatto con insolito stoicismo, chiudendosi nelle proprie stanze a leggere. A studiare. A vivere intrappolato nella propria mente.

    «Godetevi lo champagne e lo spettacolo di questa sera. La compagnia teatrale che lo mette in scena è una delle mie preferite,» si congedò Julian dall’ennesima coppia altolocata che gli era stata presentata a un evento qualche tempo prima. Cuori senz’anima, teste senza pensieri, tediosi discorsi di marche e finanza… decisamente dettagli da affogare in un rinfrescante bicchiere di champagne.

    Fu proprio per quel motivo che decise di avvicinarsi al bar in stile anni Venti, posto di fronte alla biglietteria. Quello era stato uno sfizio a cui il vampiro, che aveva la passione per i buoni vini, non aveva proprio potuto rinunciare.

    «Una flûte di champagne,» ordinò al cameriere, proprio mentre un’altra voce faceva lo stesso, amalgamandosi alla sua. «Un Dom Pérignon,» precisò questa, attirando l’attenzione di Julian, già messo in allerta dai suoi sensi soprannaturali. Perché il proprietario della voce che aveva dato forma a quella richiesta non era un semplice umano… affatto. Il suo sangue aveva un sentore particolare, speziato, ma era stata la sua aura a delineare la consapevolezza di Julian: pericolo, tentazione, deriva.

    Lo sconosciuto poggiava mollemente con la schiena contro il bancone, il braccio penzolante e lo sguardo perso oltre la folla.

    Il cameriere riempì due calici gemelli e li posò sul marmo; così il nuovo arrivato si voltò e abbassò per la prima volta lo sguardo sulla propria consumazione.

    Per un momento i due rimasero immersi nei propri pensieri, l’uno di fianco all’altro, ma abbastanza distanti da mantenere intatto il proprio spazio vitale.

    «Non credevo di aver invitato anche dei demoni alla soirée,» commentò Julian, senza posare lo sguardo sull’individuo al suo fianco. «La mia memoria vacilla, suppongo,» ironizzò, tagliente. Il suo commento, che era stato pronunciato per creare almeno un pizzico di disagio, non sortì l’effetto sperato, perché il demone rispose con tranquillità.

    «Arguta osservazione, signor Ravensward. Sono impressionato dal vostro acume,» ironizzò senza nascondere l’ilarità nel tono della propria voce.

    Julian spostò lo sguardo, cogliendo con la coda dell’occhio lo sconosciuto che sollevava il proprio bicchiere in un gesto scenico. Decise di non ricambiare il brindisi, andando contro la propria connaturata educazione. «Temo non sia acume… ma istinto,» commentò, concedendosi la possibilità di analizzare il volto dell’uomo. Colse immediatamente l’imperfezione della cicatrice sullo zigomo sinistro, evidente sotto le luci calde dell’androne. «Il mio istinto si nutre di esperienza. E questa mi avvisa del fatto che i demoni non sono mai in cerca di pace e concordia… peccato che io non desideri drammi. Non questa sera.»

    «Così tanti pregiudizi su noi demoni… così poca cordialità, signor Ravensward. Non mi avete neanche dato la possibilità di presentarmi come si conviene,» replicò il demone, senza svestire l’espressione di garbo apparente. «Il mio nome è James Sirius, e mi ritengo un estimatore dell’arte oltre ogni dire,» concluse con scarsa modestia, prendendo un discreto sorso dal proprio calice di champagne. «Non penso debba necessariamente esserci un secondo fine che non sia l’arte per se stessa ad avermi condotto a questa inaugurazione, oggi,» concluse, falsamente rassicurante.

    Julian si ritrovò a rammaricarsi un poco della povera accoglienza che aveva concesso all’uomo e portò le dita al nodo della cravatta per ridarsi un certo contegno. «Julian Faustus Ravensward, piacere,» dichiarò, per redimere la propria scortesia. «Siete dunque un amante del teatro, signor Sirius?» domandò poi, forse sperando di coglierlo in fallo al riguardo, decidendosi ad assaggiare il proprio champagne.

    «Della buona musica, per la verità,» replicò James Sirius, rigirandosi la flûte tra le mani per scorgere la trasparenza del liquido in controluce. «Sono un violinista.»

    «Siete approdato nel luogo sbagliato, temo. Qui non si celebra la vostra arte, ma quella di Shakespeare,» gli fece notare Julian, pur apprezzando la confessione artistica del demone.

    «Mi sorprendete, Faustus,» tornò a parlare il demone, dando l’impressione di marcare volutamente l’accento sul secondo nome del vampiro, per dar mostra di averlo notato con coscienza. «Non esiste arte di primo o di secondo ordine. Un teatro potrebbe ospitare una tragedia tanto quanto un’opera lirica. E voi, come direttore di un prestigioso teatro dovreste saperlo.»

    Quelle parole toccarono un nervo scoperto, che portò Julian a impettirsi e a riconsiderare il proprio atteggiamento. «Non considero la musica un’arte più povera del teatro, dato che la prima, in molte occasioni, arricchisce il secondo,» cercò di salvare le apparenze il vampiro, che

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