Il bambino di Auschwitz
Di Suzy Zail
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Info su questo ebook
Ispirato a una storia vera
Il commovente tentativo di restare bambini nell'inferno di un campo di concentramento
A10567: è ancora giovanissimo Alexander Altmann, ma non ha bisogno di guardare il numero tatuato sul suo braccio, lo conosce a memoria. Sa anche che per sopravvivere ad Auschwitz, dovrebbe irrobustirsi, ma è difficile in quell’inferno.
Ogni giorno deve assistere a umiliazioni, violenze e soprusi indicibili. Ma Alexander ha imparato subito che per non morire bisogna essere forti e duri soprattutto nel cuore. Quando però gli viene affidato il compito di domare il nuovo cavallo del comandante di Auschwitz, in Alexander nasce un motivo di nuova speranza: se riuscirà a superare la diffidenza dell’animale e a condurlo al passo, forse guadagnerà il rispetto dei suoi carcerieri. Se fallirà, invece, sarà la morte per entrambi.
Si può rimanere umani dove non c’è più compassione? Ispirato a una storia vera, un racconto toccante e commovente.
«Suzy Zail è riuscita a gestire con la massima delicatezza una storia terrificante. Ha dato un volto umano a un evento tragico.»
«Ho amato il protagonista, semplicemente perché è REALE!»
«Una storia avvincente, che non riuscivo a smettere di leggere.»
Suzy Zail
Ha lavorato come avvocato prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. In uno dei suoi libri ha raccontato la storia del padre, un sopravvissuto all’Olocausto. Vive a Melbourne.
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Anteprima del libro
Il bambino di Auschwitz - Suzy Zail
Capitolo 1
Alexander Altmann stava in piedi nel grigio spiazzo polveroso, sudava. Guardò il sole e ipotizzò che fosse mezzogiorno. Il suo stomaco brontolò. Se fosse stato a casa, sua madre avrebbe chiamato lui e la sorella per il pranzo. Sentì che i suoi occhi cominciavano a inumidirsi. Smettila
, si disse sospirando. Smettila di piangerti addosso
. Si asciugò il naso con la manica e aspettò che venisse chiamato il suo numero. Non aveva bisogno di guardarsi il braccio per ricordare le cifre tatuate sulla pelle. Le conosceva a memoria. A10567.
L’ultima volta che aveva sentito pronunciare il proprio nome era stato cinque settimane prima, forse sei. Non aveva riconosciuto sua madre, quando lei lo aveva chiamato. Le avevano rasato i capelli e indossava scarpe spaiate e un vestito cencioso che si apriva sul collo e, per la prima volta da quando era sceso dal treno, Alexander si era reso conto dell’aspetto che doveva avere lui stesso.
«Alex!», aveva gridato lei, aggrappandosi al recinto di filo spinato che separava il campo degli uomini dalle baracche delle donne. «Alex, sono io». Si erano stretti le mani attraverso gli spazi nel reticolato e Alexander rammentava di essersi sentito euforico, prima di avvertire un senso di nausea nell’accorgersi che sua sorella non era con lei.
Provò a scacciare quel ricordo e a sgombrare la mente. Era abituato a cieli blu e prati verdi, ai nitriti dei cavalli e al crepitio delle foglie. Non a quello delle pistole. Rimase in ascolto per sentire l’ululare del vento e il ronzio degli insetti, ma quando riaprì gli occhi il cielo sopra Birkenau era ancora sporco di fumo, e tutto quel che riusciva a udire era il brutale suono di uomini che urlavano e di cani che abbaiavano.
«Giù i cappelli!». Una guardia delle
SS
estrasse un manganello di gomma dalla cintura. Alexander si tolse il cappello e imprecò in silenzio.
«Su i cappelli!».
Alexander si rimise il cappello in testa e si lamentò tra sé e sé. A cosa serviva costringere i prigionieri a continue esercitazioni che fiaccavano le loro energie? Poi, due file più avanti, un ragazzo collassò e Alexander capì: a quello serviva.
«Cappelli giù». La guardia si fermò davanti a un vecchio con le mani sulla pancia. «Cappelli giù!», gridò, con due rivoli di bava agli angoli della bocca. L’uomo sollevò un braccio da uccellino ma la guardia fu più veloce, e gli strappò via il cappello a strisce dalla testa. Alexander guardò l’anziano piegarsi per riprenderlo e vide la guardia sorridere e stringere la pistola. Alexander serrò i pugni e affondò le unghie nella pelle morbida finché il dolore non annebbiò tutti i pensieri. La prima volta che aveva visto fucilare un uomo si era irrigidito per la paura e aveva distolto lo sguardo dal corpo accasciato, con il cuore che martellava così forte da fargli temere che le guardie potessero sentirlo. Più tardi, quello stesso giorno, quando aveva visto una guardia buttare a terra un uomo con un calcio perché camminava troppo lentamente, la sua paura si era tramutata in rabbia. La rabbia era meglio, ma era anch’essa rischiosa. Mentre osservava il corpo sanguinante del vecchio, floscio come un sacco di foraggio, Alexander aveva raccolto la propria furia e l’aveva soffocata insieme a tutti gli altri pensieri pericolosi che avrebbero potuto ucciderlo.
Devo diventare più forte
, si era detto. No, non più forte. Temprato. Insensibile
. Essere forti non serviva a niente. Non di fronte alle guardie che impugnavano fruste e pistole. Una qualunque poteva avvicinarsi a lui, puntargli una pistola alla testa e premere il grilletto. E lui non poteva farci niente; non c’era modo di fermarle, per quanto forte lui fosse. Alexander guardò i muscoli indeboliti delle proprie braccia. Un tempo era stato forte. Quasi quanto suo padre, che aveva gambe grosse come tronchi d’albero. Si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano e si domandò se trovandosi davanti il padre lo avrebbe riconosciuto. Abbassò lo sguardo sugli stivali. Erano quelli di suo padre. Dopo che la polizia ungherese lo aveva portato via dalla loro fattoria con le mani legate dietro la schiena, Alexander era volato nel fienile e aveva trovato i vecchi stivali da cavallo vicino alla porta sul retro. All’epoca aveva solo dieci anni ed erano troppo grandi per lui, così li aveva riposti in una scatola e nascosti dietro il suo armadio. Quattro anni dopo erano ancora di due taglie più grandi, ma erano stati la prima cosa che si era messo addosso quando la polizia aveva preso d’assalto la fattoria per la seconda volta. Da allora non se li era mai tolti, e di notte li teneva vicino alla testa per evitare che qualcuno glieli rubasse. La pelle consumata conservava l’odore di suo padre e quello delle stalle, e lo faceva sentire un po’ meno solo.
«A10567».
«Jawohl». Alexander si fece avanti. Da quando era arrivato a Birkenau aveva sentito chiamare il suo numero una marea di volte, ma ancora ne percepiva il dolore acuto, immancabilmente. La guardia con la cartella che l’aveva pronunciato non alzò gli occhi, e si limitò a muovere la penna verso il fondo della pagina. La banda accordò gli strumenti e, mentre la prima unità di lavoro marciava in fila verso il campo dall’ingresso principale, il direttore batté la bacchetta dalla pedana. L’uomo aveva in testa un cappello sbiadito e un buco nero dove una volta si trovava un dente, ma gli occhi erano ancora vispi e i suoi movimenti veloci. Alexander aveva sentito che i membri della banda dormivano su letti con giacigli di paglia e ricevevano razioni extra. Che mangiavano formaggio insieme al pane e bevevano acqua quando avevano sete. Alexander poteva prendere al lazo una mucca da cinquanta metri e far arrestare un cavallo in scivolata dopo un galoppo lanciato, ma non avrebbe saputo suonare il violino, neanche se ne andava della sua vita. Lanciò un’occhiata al direttore e provò a non odiarlo. Devo lavorare
, pensò. Se sarò di qualche utilità ai nazisti, mi daranno da mangiare
.
I prigionieri di ritorno si trascinavano attraverso l’ingresso a tempo di musica, le teste chine, tutti pelle e ossa. I più forti trasportavano i cadaveri. Accatastavano i corpi come ciocchi di legno marcio e si mettevano in fila per essere contati. Nessuno piangeva i morti. Alexander si domandò se gli uomini più vicini ai cadaveri li vedessero realmente, o se vi guardassero solo attraverso, posando gli occhi sulle tasche che avrebbero potuto svuotare o sugli stivali che avrebbero potuto rubare. Forse erano tutti inebetiti. Forse a Birkenau gli unici prigionieri che continuavano a respirare erano quelli senza un cuore.
Un ufficiale tedesco in divisa nera salì su una pedana e ordinò che sessanta uomini rimpiazzassero gli scavatori deceduti quel giorno. Nessuno si fece avanti. Di solito quelli che lavoravano nelle cave non duravano più di una settimana. Le guardie strapparono i detenuti che sembravano più robusti dalla fila e li mandarono di fianco a quelli impiegati nella cava. L’ufficiale in divisa nera sollevò gli occhi dai suoi appunti e ordinò alle guardie di trovare un cuoco, due sarti e un muratore per sostituire gli uomini deceduti in quelle unità. Alcune mani si levarono, ma quelle di Alexander rimasero lungo i fianchi. Se fosse stato più grande, se fosse stato un ragioniere o un falegname, se avesse saputo cucinare, cucire o saldare, avrebbe potuto evitare la cava e assicurarsi un posto in un’unità che lavorava al chiuso.
Alexander voleva lavorare. Era abituato a farlo. «Renditi utile», diceva sempre suo padre, e Alexander correva a pulire le stalle o ad abbeverare i cavalli. Alexander si leccò le labbra. Erano secche e screpolate e sapevano di sangue. Aveva bisogno di acqua. Si guardò le mani sudice e i pantaloni impolverati. Non si faceva una doccia da cinque settimane. Dal primo giorno trascorso a Birkenau. Tremò al ricordo dell’acqua gelata che era uscita dalle condutture arrugginite e le risate degli uomini nudi che avevano preso a baciarsi gli uni con gli altri sulle guance dopo che erano cadute le prime gocce. Non aveva compreso quella strana reazione – non fino alla sera, quando nella camerata aveva chiesto al capo blocco se sapeva dove fossero stati mandati i bambini che erano sul treno.
«Ho una sorella». Gli era mancato il fiato pronunciando l’ultima parola, quando la guardia polacca lo aveva afferrato per il colletto e trascinato fino alla porta.
«Ci sono due tipi di baracche per le docce a Birkenau», aveva detto con una smorfia il polacco. «Quella dove sei stato tu, in cui ti bagni, e un’altra…», aveva indicato un edificio di mattoni grigi nascosto dietro un boschetto di abeti, «…dove invece no».
Alexander aveva scosso la testa. «Non capisco», aveva detto, rimpiangendo quelle parole subito dopo averle pronunciate.
«Gas», il capo blocco aveva soffiato la parola in faccia ad Alexander. «Usano il gas».
Alexander e gli altri uomini furono rispediti ai loro alloggi. Durante l’appello, un altro carico di ungheresi era stato stipato nel suo blocco e Alexander si mise in fila dietro di loro in attesa della cena. Non mangiava da mezzogiorno e la minestra acquosa che aveva mandato giù per pranzo aveva soltanto acuito la fame, che adesso si era fatta straziante. Sentì una voce alle sue spalle che gli chiedeva: «Da dove vieni?», ma lui non si girò.
«Io sono di Medzev», insisté il ragazzo. Alexander alzò gli occhi al cielo. I nuovi arrivati erano tutti uguali. Cercavano un alleato, qualcuno che li aiutasse a dare un senso a quel che li circondava. Ma non c’era niente che lui potesse dire in grado di dare un senso a quel posto. Le
SS
li volevano morti. Il che non aveva senso, ma loro avevano le pistole, e quindi non era necessario che ce ne fosse uno.
Alexander si allontanò dal ragazzo, si allentò la cinta e liberò la propria ciotola. Aveva una fame feroce. Quando fu il primo della fila porse la ciotola e il capo blocco vi calò dentro un tozzo di pane nero e una punta di salsiccia.
Alexander si sedette per terra a gambe incrociate. Il capo blocco dispensò l’ultimo pezzo di pane e si voltò verso gli uomini sparpagliati lì intorno.
«Io sono il vostro capo blocco», si rivolse ai nuovi prigionieri. «Mi chiamano Mietek il Sanguinario
».
Alexander aveva sentito quel discorso un’infinità di volte, ma ancora gli sembrava che il capo blocco stesse parlando direttamente a lui.
«Scoprirete il perché», disse Mietek a denti stretti. Era un uomo basso e brutto, con gli occhi color ocra e il naso adunco, e Alexander si domandava se la sua vena sadica avesse a che fare con il suo orecchio sinistro mutilato, che immaginava gli fosse stato strappato durante un combattimento, in seguito al quale era rimasto solo un piccolo pezzo di carne.
«Ci sono solo due cose da tenere a mente in questo blocco». Mietek sorrise, mostrando i denti gialli. «Primo: fate quello che vi dico io. E secondo: non provate a scappare. L’unico modo per andarsene di qui è attraverso il camino». Il ragazzo di Medzev sembrava confuso e, per un momento, Alexander si pentì di come lo aveva trattato e si chiese se non fosse il caso, più tardi, di prenderlo da parte e parlargli, raccontargli delle docce che emettevano gas e del fumo dei forni. Ma poi quello avrebbe pensato che Alexander volesse essere suo amico e non era vero. Non quando c’era la reale possibilità che il giorno dopo, al risveglio, gli amici non fossero più lì.
Mietek il Sanguinario rovesciò per terra aghi, filo e un mucchio di tessuti, e diede istruzioni ai nuovi arrivati perché prendessero due triangoli di stoffa colorata e un rettangolo di panno con il loro numero stampato sopra e se li cucissero sulle giacche. I triangoli erano tutti gialli, gli uomini tutti ebrei. Gli ebrei portavano due di questi triangoli cuciti l’uno sopra l’altro a formare una stella di David, come quella che Alexander era stato costretto a indossare quando era ancora a casa. C’erano anche altri colori all’interno del campo. Alexander aveva visto triangoli rosa, neri e viola. L’uomo di fianco al quale aveva dormito la settimana precedente portava un triangolo rosso sulla camicia. Aveva detto ad Alexander di stare attento ai triangoli verdi. Erano i criminali di professione: ladri, piromani e assassini. Mietek portava un triangolo verde.
«Benvenuti nella vostra nuova casa». Il capo blocco lasciò che gli uomini osservassero ciò che li circondava. I prigionieri guardarono i tre piani di tavole che facevano da letti. Sopra non c’erano materassi, ma solo ciuffi di paglia che puzzavano di escrementi e sottili lenzuola grigie. Le pareti erano spoglie e il pavimento sudicio. Una conduttura percorreva tutta la lunghezza dello stanzone, e finiva da una parte nella camera del capo blocco, e dall’altra fra un mucchio di contenitori imbrattati di escrementi.
«Vi auguro una buona permanenza». L’uomo afferrò un’asse di legno di fianco alla porta. «Adesso uscite». Colpì l’uomo più vicino e Alexander si affrettò fuori. Gli uomini correvano per sfuggire ai colpi del capo blocco, montando gli uni sopra gli altri pur di raggiungere lo spazio aperto. Alexander andò nel capanno della latrina, trovò un buco vuoto nella lastra di cemento, si tirò giù i pantaloni e si sedette sulla panca. Nonostante fosse estate, il pavimento era lordo di fango e la stanza era umida.
«Scheissen!», ordinò Mietek, abbassando il legno. Era difficile fare i propri bisogni a comando, seduti spalla a spalla con un altro uomo terrorizzato. Soprattutto quando il tuo stomaco era vuoto; ma sarebbero passate ore prima di avere di nuovo il permesso di tornare alle latrine, così Alexander ci provò.
«Non hai ancora finito?». L’uomo che osservava Alexander si allungò per dargli una spinta. Alexander gli sferrò un calcio e l’uomo andò avanti lungo la fila, strofinandosi lo stinco. C’erano solo cinquantotto aperture scavate nella panca di cemento, cinque minuti per fare tutto e centinaia di uomini. Spesso scoppiavano delle risse, in cui il più forte aveva la meglio. L’uomo che aveva spinto Alexander si stava litigando un buco vuoto con un prigioniero più anziano, tre posti più in là. Alexander si turò le orecchie e provò a ignorare le urla e i suoni prodotti dagli uomini che tentavano di vuotare le proprie viscere e, dietro il capanno, quello dei cani che latravano e delle pistole che sparavano. Agognava il silenzio, ma nel campo non c’era alcun posto in cui fosse possibile sottrarsi al rumore. Non c’era spazio né cibo a sufficienza, pensò alzandosi per poi pulirsi con un pezzo di fodera strappato dalla giacca. C’erano troppe persone, troppi nazisti e cani e armi, troppo rumore.
Quando era in Ungheria, Alexander evitava sempre le strade trafficate della città di Košice, preferendo gli spazi aperti della campagna e il cielo sconfinato. Una parte di lui si era sentita sollevata quando era stato proibito agli ebrei di frequentare la scuola. Si era stufato delle prese in giro e dei drappi con le svastiche che decoravano le strade. Odiava i chiassosi altoparlanti appesi ai lampioni e i cartelli che recitavano:
VIETATO
AGLI
EBREI
. Detestava essere intrappolato al chiuso, dietro un banco, quando tutto ciò che voleva era cavalcare tra le colline. Ed eccomi qui
, pensò, in trappola dietro il filo spinato
. Si chinò sopra un lavandino arrugginito, lavò via le macchie dal suo quadrato di fodera e tornò nel blocco.
Mietek spense le luci e gli uomini si arrampicarono nelle cuccette. Il ragazzo di fianco ad Alexander chiuse gli occhi e si addormentò. Alexander non disse buonanotte. All’interno della baracca c’era sempre qualcuno che il giorno dopo non si svegliava. E allora perché dire buonanotte, pensava, quando quello che realmente intendevi era addio
? Distolse lo sguardo dal ragazzo e fissò il muro. Una volta quelle baracche di legno erano state stalle e si vedevano ancora gli anelli alle pareti dove venivano legati i cavalli. Aveva già dormito in una stalla prima di allora, la notte che la sua cavalla da lavoro, Sari, aveva partorito il suo puledro, ma quella volta l’ambiente era caldo e profumava di cuoio e di avena.
Alexander era disteso sul legno scheggiato e lottava contro il sonno. Non dormiva una notte intera dal giorno in cui era arrivato a Birkenau. Ogni volta che scivolava addormentato, vedeva sua sorella scomparire in un edificio di mattoni grigi: la baracca delle docce dove non ti bagnavi. Avrebbe voluto avere con sé una fotografia di Lili, così da poterla ammirare al risveglio. Una foto del suo volto sorridente, così da scacciar via la memoria delle sue urla. Solo una foto della famiglia per ricordare gli occhi scuri di sua madre, il sorriso sghembo di suo padre e i riccioli biondi di sua sorella. C’erano notti in cui sentiva così tanto la loro mancanza che l’unica cosa che poteva fare per evitare