Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'assassino di Yahvé
L'assassino di Yahvé
L'assassino di Yahvé
E-book401 pagine5 ore

L'assassino di Yahvé

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un centurione che vuole distruggere Gerusalemme per dopo ricostruirla

Un immenso tesoro che non esiste ma che tutti cercano

Un evangelista che non conosce il suo Messia

Una donna che puó cambiare il mondo

Un bambino che sconfigge eserciti

Chi é il vero assassino di Yahvé?

"Nulla ho visto di quello che ho raccontato..." 

Accompagna Marco Marcio, Markos, un duro centurione della Legione X, attraverso un viaggio pieno di pericoli, avventure e passioni impossibili, fino alle viscere dei misteri gnostici ed al cuore stesso del cristianesimo primitivo. Vivi con lui e con il resto dei personaggi dell'Assassino di Yahvé, i fatti terribili ed enigmatici che portarono alla redazione del vangelo piú determinante per i cristiani e per la chiesa romana.

Percorri le grotte di Q'umran; assalta gli imponenti bastioni di Gerusalemme; scopri la leggendaria biblioteca di Alessandria; fuggi dall'ombra tenebrosa dei druidi dell'Isola di Mona; diventa il guardiano della parola di Gesú il Nazzareno e di Paolo da Tarso e l'unico conoscitore del segreto di un immenso tesoro che non esiste ma che tutti cercano...Per terminare a Roma, sempre Roma, dove la lotta per il potere ed i coltelli nell'oscuritá disegneranno gli ultimi istanti dell'enigma finale.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita24 feb 2017
ISBN9781507174562
L'assassino di Yahvé

Correlato a L'assassino di Yahvé

Ebook correlati

Gialli per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su L'assassino di Yahvé

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'assassino di Yahvé - LUIS HERNANZ BURREZO

    Book Force One

    Non si permette la riproduzione totale o parziale di questo esemplare, né la sua incorporazione in un sistema informatico, né la sua trasmissione in qualsiasi forma o mezzo, sia questo elettronico, meccanico o per mezzo di fotocopie, di registrazioni o altri metodi, senza previo permesso per iscritto dell’autore. Il non rispetto dei diritti sopra menzionati può costituire un delitto contro la proprietà intellettuale (articolo 270 e seguente del Codice Penale).

    @ Luis Hernanz Burrezo, 2012.

    Editato da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduttore: Federico Renzi

    Disegno e struttura: Víctor Francisco Muñoz Ramírez

    Copertina: Billy Alexander

    Prima edizione spagnola: El Evangelio del Traidor, febrero 2013.

    Depósito legal: MA-969-11

    ISBN: 978-84-616-2497-3

    La carta utilizzata per stampare il libro è priva di cloro e si considera come supporto ecologico.

    ––––––––

    Ai territori di Mohria,

    sempre inesplorati

    A modo di epilogo

    ––––––––

    Obrienicus in Judea.

    Solamente con la verità avevano potuto ingannarlo. L’eco di questa certezza rimbalzava contro le grigie pareti del sepolcro dove lo avevano imprigionato per tutta la vita. Solo con la verità avevano potuto sconfiggere tutto quello che rappresentava, il mondo che stava per arrivare... anche se, però, sarebbe stata una vittoria inutile, perché lui non sarebbe morto lì.

    Un debole raggio di luce filtrava dal tetto che non poteva raggiungere e lo liberava, in parte, da una oscurità che non poteva sconfiggere. L’acqua non era un problema, poteva leccare quella che filtrava attraverso le umide rocce, che aveva uno spaventoso sapore amaro che gli faceva rivoltare le budella. Chi aveva costruito quel luogo si era preoccupato che i suoi ospiti non morissero di sete in pochi giorni ed non avessero la lucidità necessaria per il suo proposito. Neanche il cibo era un problema. In Britannia, da piccolo, aveva potuto vedere come i guerrieri ordovici, in molte occasioni, assediati per mesi dai nemici romani, impazziti per la fame, divoravano i cadaveri dei caduti, gli anziani ed i feriti che non potevano difendersi, senza dargli neppure la consolazione di una morte rapida prima di trasformarsi nell’alimento dei più forti.

    I resti dei cadaveri semidivorati di uno dei sicari che lo accompagnava era una buona prova di questo. Se lui era qualcosa, sicuramente era un sopravvissuto. Sempre era stato così, sempre aveva prevalso e adesso non sarebbe diverso. Uccidere il duro assassino che lo accompagnava non era stato difficile. Durante il tempo che erano stati insieme nella caverna aspettando aiuto, si poteva già intravedere nei suoi occhi il lampeggiare della paura che di solito accompagna le prede. Cominciò con la parte più muscolosa delle gambe, spaccando ossa e tendini come farebbe un lupo affamato. Quando fu sazio, sviscerò, spezzò e sotterrò il resto per ritardare, il più possibile che si marcisse.

    Nel tunnel crollato che conduceva a quella maledetta camera, giacevano altri due dei suoi lacchè, reclutati tra i peggiori individui delle cloache di Roma. Le loro grida spente si erano sentite per qualche tempo pero era già da vari giorni che avevano cessato. Sperava che non fossero molto lontani; questo gli permetterebbe rimuovere quella massa di rocce e terra e disporre di maggior quantità di alimento con il passare del tempo di quello che disponeva per scappare o per essere salvato. Aveva sempre il gladium nella sua mano, come se fosse un amuleto a cui aggrapparsi, pero il suicidio non era una opzione.

    No, definitivamente la sete e la fame non erano il suo principale problema. Era pura ira. Un ira sorda, che lo soffocava e gli impediva di concentrarsi e pensare chiaramente. Un sentimento che esplodeva nella gola ogni volta che si ricordava come era finito lì.

    Le sue relazioni nel palazzo ed alcune mazzette per niente costose gli avevano concesso il posto di vice al comando del prefetto della Giudea. Nessuno voleva quella pericolosa destinazione che ben poca gloria e trionfi poteva portare. Dopo la devastazione delle legioni e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, la provincia Era relativamente tranquilla pero esausta; niente che potesse tentare l’avarizia di un patrizio. Qualsiasi accenno di ribellione era castigato con le pene più severe e solo alcune bande di predoni, guidate dall’ennesimo fanatico mix tra un ladrone ed un messia, sicuro candidato alla croce, alteravano giorno dopo giorno la pax romana.

    Per un poco di tempo fu così, imparare nozioni di ebreo e, soprattutto raggiungere il suo proposito principale: rivelare l’oscuro significato di quelle colonne piene di caratteri, quasi tutti in ebraico, alcuni in greco, scritti in un pezzo di rame di colore rossiccio, che raccontava, in chiave antica, l’esistenza di luoghi occulti dove si nascondevano più oro e argento di quello che qualcuno avrebbe mai potuto immaginare. In soli due anni, con l’inestimabile aiuto dei saggi giudei che avevano pagato le loro conoscenze con la vita, aveva localizzato i luoghi descritti nel documento. Soprattutto l’ultimo, dove si trovavano le ricchezze che lo avrebbero portato a diventare una delle persone più influenti e poderose dell’impero.

    Partì capeggiando una turma di cavalleria, con la solita scusa di inseguire i responsabili di un nuovo massacro in un villaggio che si era dimostrato più ossequioso del normale con i padroni romani; in realtà non era quella la sua meta. A distanza, poteva ancora vedere come il centurione al comando dei cavalieri muoveva negativamente la testa mentre si allontanavano. Il veterano ufficiale disapprovava che un tribuno marciasse allo scoperto solo, senza una destinazione certa, senza la protezione della cavalleria, accompagnato solo da tre sinistri individui vestiti con tuniche nere che non lo lasciavano mai. Continuava a stare in piedi, guardandolo, mentre si perdevano in direzione del deserto.

    I segnali e le direzioni che indicava il documento di metallo erano chiare per chi sapesse leggerle. Il sole tramontava quando trovarono l’entrata, nascosta nel fondo di una cisterna vuota che raccoglieva l’acqua delle scarse piogge, tra complessi meccanismi di contrappesi e palanche che muovevano pietre con un peso impressionante. Due dei suoi sicari rimasero a fare la guardia, mentre il terzo lo accompagnava attraverso l’oscuro e stretto tunnel guidati dalla vacillante luce di una torcia. Il corridoio non era molto largo, ed era quasi alto come una persona, e sboccava in una stanza spaziosa scavata nella roccia, con un’alta volta che doveva trovarsi sotto il tetto di una cisterna. Un tavolo polveroso con uno sgabello coperto dalle ragnatele ed uno scaffale contenente vari papiri, attentamente disposti, era l’unico mobilio presente all’interno della stanza. Nessuna traccia di oro, argento o gioielli, né di casse o bauli che potessero contenere un tesoro di una misura così impressionante.

    Pero la sua ambizione la ebbe vinta sulla delusione e abbassò la guardia. Il suo istinto, la sua eterna protezione, gridava disperatamente che uscisse di lì, che c’era qualcosa di strano in tutto quello, che il pericolo era ovunque. Però il posto della prudenza venne preso dalla negazione dell’evidenza. Di fronte a lui, si disintegrava il suo molto elaborato piano per convertire Cristo, un volgare ribelle zelote, nel maggior referente del nuovo impero romano che stava per venire e lui stesso nella sua guida. Non aveva ottenuto un controllo totale dei cristiani di Roma proprio per questo. Cercando una speranza alla quale afferrarsi, centrò la sua attenzione nei documenti che si allineavano sui palchetti, stranamente puliti in confronto con il resto della camera. Avevano un odore di olio di lino, qualcuno se ne prendeva cura con impegno. Tra i papiri, brillava, alla luce del fuoco, un rotolo di metallo simile a quello di rame però più piccolo. Il suo colore argentato rifletteva la luce della torcia. Fu questo riflesso ciò che lo immobilizzò nel momento decisivo. Lo osservava ipnotizzato. Stava stendendo la sua mano per prenderlo quando uno scricchiolio percorse tutta la stanza e frammenti di terra e roccia caddero dove prima c’era l’entrata. Al silenzio fecero seguito le grida di aiuto e dolore degli uomini che aveva lasciato di guardia.

    L’ira, in lui esplodeva l’ira. L’odio contro quei miserabili schiavi alessandrini che lo avevano condotto fino a lì e che pretendevano che quel assurdo Messia ed il suo vangelo di conoscenza trionfasse sopra il mondo dell’ordine e del potere che avrebbe portato la nuova ecclesia, il nuovo sangue dell’Impero. Anche se lo avevano sotterrato nelle viscere della terra, nessuno poteva evitarlo. Quando fosse tornato a Roma, avrebbero sofferto una sorte simile a quella che avevano pensato per lui, lì avrebbe sepolti tanto profondamente che nessuna memoria avrebbe avuto del loro passaggio nel mondo. Neanche la loro famiglia, né i loro scritti, neppure l’ultima delle loro idee sarebbe sopravvissuta. No aveva bisogno di leggere i papiri della caverna per sapere che in essi non avrebbe trovato niente di suo interesse. Solo interminabili sermoni riguardanti Yahvé, l’inutilità delle ricchezze in questo mondo e la venuta di un Messia che avrebbe distrutto i nemici d’Israele e avrebbe governato una Gerusalemme Celeste, capitale del paese del latte e del miele. Tutto fu ridotto in cenere, tutto.... Eccetto il rotolo d’argento.

    Per diversi giorni non ebbe il coraggio d’aprirlo, intuiva che il suo destino era racchiuso in quella fine lamina di metallo. Quando lo fece, lesse trascritto in caratteri lucenti la sua sentenza di morte. Lo lanciò in un angolo, con tutto il disprezzo di cui era capace. Se voleva uscire di lì, non poteva permettersi neanche il più piccolo sentimento di dubbio riguardo alla sua determinazione.

    Passava il tempo, denso, le ore gocciolavano la speranza, avvicinandolo ai terreni della pazzia, ove parlava per ore con il suo fratellastro morto mentre accarezzava con delicatezza l’enorme testa di un leone in una gelida isola della Britannia.

    L’acqua ferrosa che fuoriusciva dalla parete gli aveva provocato una forte dissenteria. L’umidità e l’odore di putrefazione dei resti della sua vittima rendevano l’aria irrespirabile. Non rimaneva nulla da mangiare e non aveva potuto raggiungere i cadaveri di quelli che erano caduti all’entrata, anche se le sue dita, giá a carne viva e le sue unghie strappate e la sua spada rotta davano una chiara idea della ferocia con cui ci aveva provato.

    Era molto debole. Si muoveva appena per non consumare le sue poche forze. Udiva delle voci famigliari in superficie, erano quelle dei cavalieri della turma che lo cercavano. Gridò con tutte le sue forze, però la sua voce s’infranse contro le pareti della caverna. Non aveva importanza, lui era il tribuno, non lo potevano lasciare lì, non lo avrebbero abbandonato alla sua sorte. Il centurione al comando non sarebbe tornato a Gerusalemme dicendo che aveva perduto il suo comandante, almeno fino a quando non avesse sacrificato anche l’ultimo dei suoi cavalli; in caso contrario la sua testa sarebbe servita come adorno sui merletti della capital di David. Doveva riunire le forze e gridare, gridare così forte da fare in modo che un sentimento di terrore avvolgesse la stessa Roma.

    Sofia, ad Alessandria.

    Percorsero lentamente i pochi metri che lì separavano dal recinto della Grande Biblioteca. Nessun servo controllava le porte, anche se gruppi di agitatori accampavano all’esterno senza sosta. Cercavano senza fare distinzioni cristiani e giudei, incluso nel popolare quartiere del Bruchion, sotto la gli occhi compiacenti di alcune pattuglie di vigiles che si occupavano, soprattutto, che i saccheggiatori non sbagliassero di casa. Sentivano come se ogni passo avesse del piombo nei sandali, volevano volare, correre per mettersi in salvo, però la fretta lì avrebbe traditi rivelandoli come dei fuggitivi e questo poteva risultare fatale. Facendosi vedere calmi, con tutta serenità, attraversarono il giardino ed entrarono attraverso una piccola porta d’accesso laterale, evitando la grande scalinata ed il portico. Il Museo non era più un luogo sicuro come prima, ai tempo di Atenágoras, pero, almeno, potevano contare con il vantaggio di conoscere ogni lato ed ogni stanza. Arrivato il momento, se passava il peggio avrebbero saputo dove nascondersi.

    Dalle camere superiore si poteva vedere il fumo degli incendi dall’altra parte della città, fino a loro arrivava il clamore sordo delle grida e delle suppliche della urbe sofferente. Il lutto avrebbe inondato nuovamente le strade di Alessandria quando il sorgere del sole avrebbe permesso di vedere tutto il sangue versato. Le orfani, le vedove, gli invalidi...tutte avrebbero formato una inarrestabile fonte di odio ove le vittime ed i carnefici si sarebbero scambiati di continuo e che avrebbe alimentato future rappresaglie, ancora ed ancora.

    Sofia si sedette in una delle panche dove in passato, durante tempi più felici, impartiva le sue lezioni. Si concentrò a recuperare il ritmo della respirazione, a dominare la paura. Senza dubbio, raggiungere il primo era più facile che il secondo.

    Da quel nefasto giorno a Roma sentiva che la paura l’aveva distrutta, l’aveva divorata dall’interno, mettendola da parte con una manata, dal grande spirito universale. Ricordava l’odore acre del sudore dei carnefici ed il tatto dolciastro del grasso con il quale le ricoprivano il corpo. Anche dopo vari anni, solo al ricordarlo, una sensazione di nausea gli inondava lo stomaco.

    La sua paura non nasceva dal dolore per la tortura, né dalla sofferenza nel veder soffrire i suoi cari di atroci dolori; veniva dalla paura di essersi sbagliata, e che lui avesse ragione, che il mondo che stava arrivando fosse quello di lui e non il suo o quello di Markos, e tutto ciò che vedeva attorno a lei non faceva altro che aumentare questa paura.

    Erano passati anni da quando era ritornata con Irene da Roma e sapeva che lui non sarebbe mai arrivato. Non si sarebbero più incontrati in questa terra. Durante questo periodo si mossero liberamente per Alessandria. Nessuno disturbò il suo mandato nella Grande Biblioteca né il suo culto nella comunità cristiana, pero sentivano di essere controllate. Non c’era nessun dubbio che la sua mano lì poteva raggiungere ovunque fossero, per quanto lontano cercassero di nascondersi. Proprio perché non lo dimenticassero, a volte, un messaggero uscito dal nulla gli consegnava delle missive dei prigionieri, lettere di Markos, scritta di suo pugno. Le ricopriva di baci, le leggeva cento e più volte, poteva recitarle tutte a memoria, però non rispose mai con sincerità, non cercò mai di mandargli un codice che gli permettesse di capire ciò che stava accadendo. Se il suo nemico l’avesse scoperto, sicuramente l’avrebbe utilizzato contro di lui.

    Una fresca folata di vento attraversò l’abitazione e le fece socchiudere gli occhi. Le tende pesanti che coprivano le finestre si mossero al ritmo del vento e poté intravedere la spettrale ombra di Atenágoras vagando per quei saloni dai quali, forse, il suo spirito non si era voluto allontanare. Poi vide Irene. Estranea a tutto ciò che succedeva cercava con la sua unica mano in uno degli scaffali che abitualmente le erano vietati, approfittando del caos regnante per impossessarsi di alcuni testi che desiderava avidamente consultare. Sentì lo sguardo di sua madre sopra la spalla e si voltò sorridente, come una bambina sorpresa facendo una marachella.

    Se a lei tutto ciò che era successo l’aveva distrutta, per Irene, a parte il danno sofferto e la perdita, sembrava averla resa più forte, più cosciente. Se c’era una speranza, sicuramente albergava in lei ed in tutto ciò che rappresentava. Avrebbe avuto bisogno solo di una mano per passare le pagine di un libro. Avrebbe avuto bisogno solo di una mano per indicare il camino.

    Markos, a Roma.

    Nulla ho visto di quello che ho raccontato. Io non ero lì. Non lo sentì. Solo dopo essere passati lunghi anni di disperazione e oscurità, solo adesso quando Tánatos mi chiama, ho abbracciato la verità del cuore. Ho capito. Sento tutto, percepisco tutto, credo in tutto. Obriénicus aveva ragione.

    Da questa piccola stanza ove appena riesce ad entrare qualche raggio di sole, vedo il volto di Jairo, il capo della sinagoga di Cafarnaum, incredulo nel vedere come il colore livido della pelle del cadavere di sua figlia cambiava nel colore della vita che rinasceva nelle sue vene. Sento il clamore della moltitudine, reclamando con veemenza il miracolo come prova della presenza del Figlio dell’Uomo. Il cieco recupera la vista; colui che non pronunciava parola ritorna a parlare; l’indemoniato, posseduto da spiriti immondi, viene liberato. Digrigno i miei denti e sulla lingua ho il sapore della polvere dei cammini della Giudea. Posso sentire l’aroma del pane appena fatto e del pesce fresco moltiplicato per una massa di persone affamate. Segnalo le leggere tracce di orme impossibili sull’acqua del mare della Galilea e rimbomba l’eco degli zoccoli di un asino ticchettando sulle pietre di Gerusalemme. Pero sento anche le viscere di pietra di dodici uomini incapaci di capire il messaggio e vedere oltre la morte; lo sconcerto e l’ira dei mercanti del tempio; i segnali della tragedia nell’aria pulita della notte di Getsemani; i solchi che lasciano le lacrime sul viso di Maria Maddalena quando non trovò il suo corpo nel sepolcro...Ogni momento è di fronte a me, come una limpida alba che non vedrò più.

    Alla fine, ho capito, sono uscito dal mio errore, dal mio accecamento. La fede mi ha salvato e non mi interessa se questo Barabba, Bar Abbas, il figlio del padre, è esistito oppure no; o se il centurione romano che riconobbe Gesù come il vero figlio di Dio rimase in quelle ultime ore ai piedi della croce. Non importa se riscriviamo il finale del vangelo o se trasformiamo ciò che Paolo di Tarso voleva portare nel cuore degli uomini, perché tutto è stato fatto per rendere servizio alla fede in Gesù, il Cristo resuscitato e della sua ecclesia romana. Gli spiragli di vanità e orgoglio che mi avevano portato a questionare tutto questo per molti anni, tormentandomi, sono cessati. Segnali vuoti di una ragione inferma che aveva bisogno di credere nella scienza per capire ciò che solo la fede può contenere.

    Tempo di epilogo. Echi arretrati di un mondo che muore, anche se ancora non lo sà. La realtà che conosciamo —la sua storia, la sua scienza, la sua letteratura — scomparirà. Socrate, Pitagora o Platone non sono altro che cenere che il vento del futuro spargerà nel nulla. La Grecia, Persia, la stessa Roma...la ecumene che costruì il Grande Alessandro crede che è forte e vigorosa, però un piccolo tumore si annida nel suo cuore. Crescerà e nessuno potrà salvarla.

    Mi chiamo Marco Marcio, anche se per molto tempo sono stato solo Markos. Io ho scritto l’evanghelion, l’annuncio, la storia di Gesù resuscitato, la proclamazione del Messia che ci avrebbe dovuto salvare tutti. Questa, inevitabilmente, non sarà mai la mia storia se non la sua. Per scriverla ho attraversato molte città e sono stato molti uomini. Dallo scoppio della guerra, che portò all’inevitabile distruzione di Gerusalemme, al silenzio dell’anima vuota della Biblioteca di Alessandria; dalle vite falciate alla ricerca del favoloso tesoro di cui narrava un rotolo di metallo color rosso sangue, fino alla confusione provocata dai falsi cristiani; dalla verità di Obriénicus, all’illusione di Atenágoras; dall’ amore di Sofia, all’amore per Cristo. Sofia, Sofia...sempre. Il suo ricordo era l’unico ostacolo per la vittoria totale di Obriénicus, pero lei era ormai un ombra tanto, tanto lontana...

    Prima Parte:

    Il Centurione

    Colonna I

    ––––––––

    Nella rovina che c’è nella valle, passa sotto

    Le scale che vanno verso Est

    Quaranta gomiti: c’è un baule di soldi ed il suo totale:

    É il peso di diciassette talenti. KEN

    Nel monumento funebre, nella terza fila:

    Cento lingotti d’oro. Nella grande cisterna del cortile

    Della peristasi, nel buco sul fondo tappato dal sedimento

    Di fronte all’apertura superiore: novecento talenti.

    Sulla collina de Kojlit, vasellame di decime del signore dei popoli

    e vestiti sacri;

    totale delle decime e del tesoro: un settimo della decima

    secondo fatto impuro. La sua apertura si trova nei bordi del canale del Nord,

    sei gomiti in direzione del chortal delle abluzioni. XAΓ

    Nella cisterna revocata di Mani, scendendo a sinistra,

    Ad una altezza dei tre gomiti del fondo: argento, quaranta talenti.

    Capitolo I

    Gerusalemme,

    estate del DCCCXXIII  ab urbe condita (A.U.C.)*

    Il modo in cui conserviamo i nostri ricordi dice molto di noi. Con il tempo, lì plasmiamo. Come il vasaio, eliminiamo i pezzi d’argilla che non servono e diamo forma ad altri che non sempre sono come furono. Comunque, continua a sorprendermi il primo momento che mi viene in mente quando voglio ordinare il passato. Questa storia sarebbe potuta cominciare in moltissimi luoghi, essere raccontata incarnata nello sguardo di molte persone, narrata dalle viscere dei suoi fatti decisivi. Potrei iniziare per esempio, da quell’inesplicabile incontro deciso dal fatum, perché ciò che stabilito dalla volontà di Dio si potesse compiere e che fu l’origine di tutto ciò che successe dopo. Potrei portarvi ad Antiochia, con gli insegnamenti e le memorie comuni della casa di mio padre; a Gerusalemme, tra il fumo degli incendi; o ad Alessandria inquadrata dal corpo nudo di Sofia, di un bianco marmoreo, metà desiderio, metà anima nella notte di un’isola dell’Egitto. Potrei condurvi a Roma, sempre Roma, centro del potere proiettando la nera e densa ombra di Obriénicus sopra il mondo.

    Però non è a loro che si rivolge la mia veglia. Fra tutti, l’unico che mi tranquillizza, quello che mi dà sicurezza che ci sarà un tempo migliore, colui che sempre appare quando chiudo gli occhi cercando disperatamente Hipnos; è un gesto della mia mano. Non importa il luogo, né i volti, né il paesaggio che sfugge fumoso. É un atto imperativo, di colui che è abituato a dare ordini ed essere obbedito con la disciplina del sangue. Un movimento dove la mia mano si eleva al cielo e si proietta con autorità in avanti, provocando il lugubre cigolio delle molle di decine di catapulte. Proiettili mortali volano allora contro una delle tante città agonizzanti, colpendo le muraglie e spazzando via i difensori che sono già morti mille volte in mille assedi senza nome.

    A partire da questo momento, tutti i miei ricordi mancano della certezza di quell’ora. Nei giorni a seguire ci fu solo sabbia in movimento e fumo. Trovai solo allegorie, misteri, matematiche mistiche, interpretazioni degli spiriti e della vita che stava per arrivare...Pero allora, lì, allora tutto era reale. Il sangue era sangue, il metallo, metallo. Vi ho già detto il mio nome. Adesso sapete che __________

    70 d.C

    ero un centurione della Legione X, la Fretensis, io ero il pilus posterior, il secondo comandante della decima coorte. Ci trovavamo durante l’ultimo atto della guerra contro i giudei. L’assedio di Gerusalemme.

    Eravamo lì da quattro mesi sotto il comando di Tito Flavio Sabino, il figlio maggiore del nuovo imperatore. Suo padre, Vespasiano, aveva cominciato la campagna già da quattro anni, pero la dovette abbandonare per mettere ordine nell’impero dopo la morte di Nerone, al tempo in cui gli imperatori si succedevano come gladiatori nel circo. A trent’anni Tito aveva già dimostrato temperamento ed intelligenza per dirigere un tipo di lotta come quella.

    Tutti i peccati che l’uomo potesse commettere da quando il mondo ebbe origine erano presenti nella terra d’Israele e portarono irrimediabilmente ad una guerra dove solo lo sterminio di una fazione poteva dare speranze all’altra. La meschina avarizia del procuratore Gesio Floro, che rubava a piene mani per tutta la Giudea; l’invidia dei greci di Cesarea, massacrando giudei mentre la guarnizione romana si comportava da perfetta spettatrice. Senza dimenticare l’odio che si professavano tra di loro gli stessi israeliti. Un’ira che sembrava avere le sue radici nello stesso Averno e che aveva provocato la morte di Santiago il Giusto, il fratello di nostro signore Gesù Cristo per mano del sommo sacerdote Ananías. Un fuoco così ben alimentato era molto difficile da spegnere.

    L’assedio si stava portando via un gran numero di vite. Gerusalemme aveva tre muraglie, con grandi conci di pietra color sabbia e migliaia di fanatici guerrieri pronti a difenderla. Non sarebbero stati dei veri rivali per le legioni in campo aperto, pero nella lotta corpo a corpo tipica di un assedio potevano essere un avversario temibile. Il comandante in capo romano fu il primo a comprovare la determinazione del nostro nemico. All’inizio del sito, una massiccia uscita dei difensori lo sorprese trovando il terreno protetto solo da un centinaio di cavalieri. Il pennacchio di piume ed il paludamentum, il mantello color porpora che lo identificava come il generale cum imperium di quell’esercito, era un invito troppo gentile per essere rifiutato. Solo il suo coraggio, Apollo e la velocità del suo cavallo lo salvarono dall’essere catturato. Che il figlio dell’imperatore di Roma fosse stato esibito come trofeo nella spianata del Tempio potrebbe aver cambiato le sorti della guerra.

    Dopo il prevedibile insuccesso di un primo attacco frontale cominciò qualcosa in cu eravamo veri maestri: un assedio in piena regola. Baluardi e contrafforti difendevano le nostre macchine d’assedio permanentemente prese di mira dagli ebrei, che cercavano di distruggerle con il fuoco. Le pietre si impregnarono di sangue e la prima e la seconda muraglia furono conquistate. Però, con il cuore della città alla portata di mano, gli intenti di erigere lo stendardo delle legioni nella parte più alta della terza mura si trasformarono in un vero disastro. I giudei scavarono delle mine sotto i nostri arieti e torri d’assalto, che sprofondarono portando con loro centinaia di uomini ed incendiarono gli altri, tra loro quelli della mia legione. La demoralizzazione si insinuò nell’ esercito, però con quelle azioni i difensori ottenevano solo di conquistare un po’ di tempo, ritardare un finale inevitabile. Era in gioco l’orgoglio di Roma e l’oro del Tempio, di cui Vespasiano aveva bisogno con urgenza per consolidare il trono imperiale.

    Galvanizzato dai messaggeri di suo padre, Tito rispose con la costruzione, in solo una settimana, di un muro che attorniava tutta la città e che avrebbe asfissiato gli assediati. La fame atroce era adesso un’alleata in più dell’impero. Rimaneva la torre principale con la mole della Torre Antonia; la fortezza di quattro torri, chiamata così in onore a Marco Antonio, che aveva costruito Erode il Grande, e che servì, fino alla rivolta di Eleazar Ben Ananías, come quartiere generale e futura tomba della guarnizione romana di Gerusalemme. Un luogo che io conoscevo bene; sapevo cosa c’era aldilà dei bianchi muri, nei suoi giardini, le sue camere, le sue prigioni.... Insieme a lei, le solide mura del Tempio erano l’altro ostacolo principale che si opponeva alla nostra vittoria. Però la città era condannata.

    Tutti pensavamo che se ci fossimo seduti a guardare il paesaggio non sarebbe stata necessaria nessuna azione militare. I giudei erano sufficienti per distruggersi uno con l’altro. Il suo odio verso di noi era superato solo per quello che provavano tra loro, e questi provocò, all’interno di Gerusalemme, che scoppiasse una vera guerra civile. Gli zeloti, sicari, idumei, e, tutte le sette ed i gruppi immaginabili si impegnarono in una lotta senza quartiere che lasciò migliaia di morti dentro le mura della città. Condividevano il loro fanatismo per il rispetto estremo delle leggi di Mosè ed il loro odio per qualsiasi influenza straniera nella loro terra. Tutto ciò che ricordava la Grecia o Roma era sterminato. Aspettavano l’arrivo del Messia guerriero della casa di Davide che avrebbe portato un’apocalisse di sterminio per le legioni dei Kittim, come irrispettosamente ci chiamavano.

    Però non solo il loro Dio motivava quegli uomini. Ai loro occhi, qualsiasi persona avesse fatto sfoggio delle sue ricchezze era un collaborazionista romano e doveva essere trattato come tale. L’ostentazione dei sacerdoti e la prepotenza dei notabili, incapaci di indovinare la tormenta che si avvicinava, non lì aiutò molto. Il primo passo fu terminare con i farisei, saducei, erodiani e tutti coloro che ci avessero aiutato in un modo o nell’altro e rappresentassero il precedente ordine sociale. Il loro odio lì portò ad incendiare i magazzini delle provvigioni dei rivali in una città devastata dalla fame. Interrompevano il loro divertimento quando decidevamo di attaccare, reclamando per noi un poco di attenzione da parte degli assediati. In quel momento attuavano una strana difesa della città che non era mai comune e dove gli zeloti ed i sicari evitavano di lavorare insieme per vincere l’accerchiamento. Quando uno di loro ci attaccava gli altri osservavano dai muri e pregavano Yahvé per la sconfitta dei loro nemici per mano nostra, reclamando tutta la gloria della futura vittoria solo per loro.

    Nell’asfissiante calore di quel luogo i miei uomini si muovevano abituati alla durezza del loro lavoro. Eccetto per i legionari situati in prima linea, il resto ricordava solo vagamente un esercito in quanto ognuno combatteva il calore come poteva. Il canale del Cedrón serviva per alleviare, ogni tanto, la continua presenza di un sole di piombo, una volta che le sue scarse acque rimasero lontane dalle frecce che piovevano dalle muraglie. Tele, turbanti ed indumenti improvvisati facevano il resto. Per coloro che stavano in prima linea le cose erano diverse: casco, scudo, lorica segmentata, pilum...più di uno svenne per il calore, però nessuno poteva distrarsi. Avevamo perduto molti uomini nel tentativo di distruggere con il fuoco le nostre fortificazioni ed ormai nessuno correva il rischio di rimanere nella zona di combattimento senta avere l’equipaggiamento completo da campagna. Tutti erano dei veterani professionisti nei quali si poteva avere una fiducia cieca. Soldati, allo stesso tempo che fabbri, carpentieri ed ingegneri, conoscevano perfettamente il funzionamento ed i bisogni di tutta l’attrezzatura necessaria per un assedio ed erano occupati in vere e proprie competizioni per vedere quale dotazione riusciva a fare in modo che il suo onagro lanciasse i proiettili con maggiore precisione, ad una distanza di più di quattro stadi. Torri d’assalto, scorpioni, arieti e qualsiasi tipo di macchina di distruzione avrebbero reso inutili lavori che i difensori si affannavano di notte a portare a termine per ricostruire quello che noi distruggevamo durante il giorno in modo tanto efficace. Erano dieci anni che eravamo coinvolti in battaglie per tutta l’Asia, dall’Armenia fino a questo inospitale angolo dell’impero. Per questo, il nostro comandante ci aveva posti nel punto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1