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Le pietre del cielo
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E-book485 pagine6 ore

Le pietre del cielo

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Info su questo ebook

Per gli amanti di romanzi come ''Il codice Da Vinci'' o "L'ultimo catone". Cosa si nasconde dietro la morte di una persona che credevi di conoscere? Un inquietante messaggio farà tremare il mondo di Julia, una giovane professoressa newyorkese, che la farà viaggiare in Europa. Misteriosi ancestrali e un pericoloso segreto nascosto nel corso dei secoli a qualsiasi costo, porteranno la protagonista a vivere un'emozionante avventura, attraverso le città più belle d'Europa. La Madrid di Carlo V, la Praga degli alchimisti, la Londra dei fondatori della Royal Society, la Parigi di Caterina de' Medici e tutto l'ermetismo dell'Archivio Vaticano, nonché l'antica Roma, faranno da sfondo a un pericoloso gioco contro il tempo, reale quanto il cielo stesso. 

Stampa, Blog e lettori di tutto il mondo pensano: "Le pietre del cielo" si diversifica per la sua trama attraente. 

Herald Miami: "Se hai un Indiana Jones nascosto in te e ti appassionano la storia, l'arte e il mistero, questo è il romanzo che fa per te".

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita13 dic 2023
ISBN9781667461649
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    Anteprima del libro

    Le pietre del cielo - Delmi Anyó

    Capitolo 1

    N

    on sai mai come ti risveglierai. Vai a letto una sera, ti addormenti e la mattina successiva tutto cambia. Tutto ciò su cui contavi, tutto ciò che consideravi sicuro, sfuma.

    Quel giorno mi risvegliò la suoneria del telefono. Non so dire di preciso quanto tempo squillò. Si dice che il nostro corpo abbia un suo bioritmo ben definito, e vi erano volte in cui la mia mente si rifiutava di abbandonare i sogni, motivo per cui pensai che la fastidiosa suoneria appartenesse al mio sogno; tuttavia, quel rumore si fece sempre più acuto, fin quando non mi svegliò. Reagii e scoprii che dall’altro lato del telefono risuonava la voce di Peter.

    –Julia, ti ho svegliato?

    –Si – risposi mentre con la mano mi reggevo la testa annebbiata.

    –Mi dispiace, ma è importante.

    Per nessun motivo lo perdonai. In quel momento mi sembrò imperdonabile che qualcuno si azzardava a chiamare così presto. Ci fu un momento di silenzio, Peter sembrava molto nervoso.

    –È successo qualcosa di terribile.

    –Come? Cosa è successo? – chiesi impaurita.

    –Si Julia. È successo qualcosa di terribile. Si tratta di James. James...

    –James? Cosa è successo a James? – Risposi con voce preoccupata, mentre sentivo le gambe cedere.

    –Ha avuto un incidente – Mi sembrò di sentire.

    –Un incidente? – chiesi confusa. Non ci stavo capendo più nulla.

    –Si Julia, un incidente molto grave.

    –Però non è...? Osai chiedere, spaventata.

    –Mi dispiace Julia, mi dispiace molto.

    Continuò dicendo qualcosa su un aereo che lo stava riportando da Madrid. Parlò del funerale e mi disse di calmarmi, perché sarebbe venuto a casa in tarda mattinata. Lo sentii dire un’altra volta che gli dispiaceva molto e che più di quello non poteva fare. Il telefono cadde dalle mie mani.

    Sentii un dolore al petto. Ero stordita, sudata, tremavo come una foglia e avevo difficoltà a respirare. Tutto intorno a me divenne sfocato e provai una sensazione di angoscia così forte come solo il dolore può provocare.

    Senza che lo volessi, apparve davanti a me l’immagine di James, con i suoi occhi marroni e i capelli mossi sulla fronte. Era impossibile. Non poteva essere vero. Non poteva andarsene così dal nulla. Non poteva succedere davvero. Corsi in bagno e vomitai.

    Piangendo, me ne tornai a letto. Non ci potevo credere. Era troppo terribile per essere vero. James, il mio James. Com’era possibile? Non poteva essersene andato così. Avevo ancora bisogno di lui. Avevo bisogno del suo sorriso e delle sue carezze. Vidi il suo sorriso. Sentii le sue carezze e lui che mi diceva di calmarmi. Ma come potevo calmarmi? Non avrei più sentito il suo tatto! Non avrei più sentito la sua risata!

    Mi rannicchiai e tra spasmi di terrore e singhiozzi mi ripetei che tutto ciò non era reale. Desiderai che tutto quello fosse solo un incubo, ma la realtà era sotto i miei occhi e realizzai di essere sveglia.

    James e io frequentavamo lo stesso anno all’università di Columbia a New York. Entrambi frequentavamo Storia Moderna Europea.  Condividevamo gli stessi spazi e Peter, il nostro capo, ci aveva fatti incontrare. Ci offrì l’opportunità di lavorare ad un progetto sullo sviluppo dell’arte e della scienza dell’impero spagnolo durante il XVI secolo. In università, la crescita di un dipartimento dipendeva dai suoi progetti di ricerca; qualsiasi scoperta era motivo di approfondimento da parte dell’università, che si impossessava di essa e la pubblicava sulle riviste scientifiche più rilevanti con lo scopo di legittimare il proprio prestigio su tale scoperta. Il mondo universitario otteneva notorietà grazie alle scoperte che realizzava, motivo per cui le Università spendevano la maggior parte dei soldi finanziando progetti che, tuttavia, spesso non portavano alcun clamore; quando invece qualche ricerca portava allo scoperto qualcosa di clamoroso, ciò portava maggior reputazione, maggior numero di alunni che si iscrivevano all’Università e, soprattutto, più soldi, che era ciò che realmente contava. La maggior parte delle Università americane erano, tradizionalmente, specializzate in scienze; tuttavia, nel campo della storia moderna europea, qualche Università del vecchio continente, per ovvi motivi, aveva grande prestigio. Da qui l’interesse smisurato che mostrò Peter affinché iniziassimo la ricerca, tant’è che secondo lui, era inammissibile che il paese con le più grandi Università del mondo fosse così scarso in ambito di ricerche storiche.  Non avrebbe badato a spese affinché New York diventasse centro di studio avanzato sul tema.

    Il progetto che ci offrì Peter ci appassionò entrambi, entrambi sembravamo due bambini che avevano appena ricevuto un nuovo giocattolo. Era un’opportunità fantastica per indagare su uno dei periodi più fruttuosi ed allo stesso tempo enigmatici della storia moderna europea.

    Queste circostanze obbligarono me e James a passare molto tempo insieme, e da subito ci trovammo bene. All’inizio vi era una semplice amicizia tra colleghi. La nostra sintonia era evidente, fin quando un giorno non capimmo che si era trasformata in qualcosa che andava oltre l’amicizia.

    James era tutto d’un pezzo. Uno di quei tipi di persona che entrano nella tua vita come un ciclone e te la stravolgono. Insieme a lui ogni piccola scoperta era una festa. La sua passione per la storia era smisurata quanto la sua passione per la vita e subito mi resi conto che la sua attitudine era contagiosa. Passai dall’essere concentrata sul mio lavoro ad essere entusiasta di ciò che facevo. Andare ogni mattina all’università sapendo che James mi stava aspettando era eccitante per me. Ero consapevole del fatto che ogni giorno poteva farmi sentire come su una giostra tranquilla o, forse, come sulle montagne russe. Era imprevedibile. Tuttavia, aveva una grande capacità di osservazione, un olfatto talmente sviluppato da sentire odori che semplici umani non sarebbero riusciti a decifrare e, anche se con metodi poco ortodossi, terminava tutti i suoi studi con rigorosità. Ma la festa finì presto. Anche se la nostra relazione andava a gonfie vele, il progetto arrivò a un punto morto e avevamo necessità di andare a indagare sul posto. Dovevamo confrontare le nostre ipotesi con documenti di prima mano. Quello di cui avevamo bisogno per avanzare nella ricerca si trovava in impolverati archivi lontani da New York, così chiedemmo a Peter dei finanziamenti per permetterci di trasferirci in Spagna e da lì completare il nostro progetto. Quello era il nostro sogno. Un viaggio in Europa insieme.

    Ricordo che fu una mia idea; dunque, fui io a chiedere il finanziamento a Peter. Egli gestì la cosa e anche le promesse iniziali del preside furono generose; tuttavia, una volta iniziato il progetto scoprimmo che i soldi del finanziamento non bastavano. Infatti, con i soldi concessi dal rettore poteva andare in Spagna solo uno di noi due. Sognavo di fare quel viaggio insieme a James. Avevo creduto che lo avremmo fatto in due, ne avevamo parlato tante volte. James e io eravamo una squadra, ci completavamo: lui ci metteva passione, io ero più razionale. Io tenevo i piedi per terra, lui sognava ad occhi aperti.

    Avevo avuto da sempre il desiderio di vivere per un po’ di tempo in Europa, anche prima di conoscere James. In quel momento invece non riuscivo a credere che sarei dovuta stare mesi senza avere James al mio fianco; il progetto di ricerca non sarebbe stato lo stesso se ci separava un oceano. Per questo insistetti affinché il rettore aumentasse il budget anche di poco, pensando di andare a vivere in un appartamento fuori città per continuare la nostra ricerca. Ciò per cui lottavamo era nostro, di entrambi. Entrambi avevamo fatto le varie scoperte e non concepivo il fatto che ora la parte più importante del progetto si sarebbe svolta senza poter stare insieme.

    Nonostante ciò, Peter decise che solo uno di noi due sarebbe volato a Madrid e il fortunato fu James. Io sarei dovuta rimanere a New York per svolgere altre ricerche e tenere lezioni in università. James, con mia sorpresa, la prese bene, addirittura si mostrò contento. La cosa si concluse così, abbandonandomi alla prima occasione.

    La verità era che mi sentivo arrabbiata e impotente. Penso che Peter lo fece di proposito. Era consapevole del fatto che io non sarei mai andata senza James, ma che James senza di me sì. Ero affranta. In questo momento mi vergognai dell’odio che in quel periodo provai nei confronti di James. Ora però non contava più nulla.

    Mi alzai e andai a fare la doccia. Pretesi da me stessa di fare con normalità tutto ciò che facevo ogni giorno. Cercai di dimenticare che oggi non era un giorno qualsiasi. Tuttavia, nemmeno la doccia, che di solito è efficace per togliersi di dosso i problemi, funzionò.

    Diverse volte mi passò davanti il viso di James. Il suo sorriso giovanile e i suoi vispi occhi marroni mi tornavano sempre in mente.

    Una volta avvolta nell’asciugamano mi sdraiai sul letto e chiamai l’Università. Sospesi tutte le lezioni del giorno, non avevo le forze per farle. Quando attaccai mi rannicchiai nel letto e piansi a dirotto.

    Capitolo 2

    E

    rano le sette del mattino e il funerale si stava per concludere. Peter sembrava affranto. In realtà lo eravamo tutti. Incluso il rettore, che negli ultimi tempi sembrava essere diventato aggressivo, minacciandoci di tagliare i fondi e mandare all’aria la nostra ricerca, ora sembrava veramente affranto.

    I funerali non mi erano mai piaciuti. Assistevo solo a quelli fortemente necessari. Motivo per cui questo era il secondo funerale a cui stavo assistendo in vita mia: quello di mio padre e quello di James.

    Come immaginai, tutti parlarono meravigliosamente di James nei loro discorsi di addio. Peter disse qualcosa che mi fece pensare: «Oggi seppelliamo un amico». Per me James era più di un amico.

    Poi parlò, a nome della sua intera famiglia, un cugino di James. Una donna minuta, vestita in lutto, ascoltava le parole del cugino di James guardando il feretro. Non fu difficile capire che quella era sua madre. La stessa che riempiva il frigorifero di James con deliziose torte ai lamponi e succulenti stufati e che James pianificava di presentarmela un giorno, quando entrambi avremmo considerato che la nostra relazione fosse stata talmente solida, da coinvolgere la nostra cerchia più intima. Non trovai la forza di avvicinarmi a lei.

    Continuai ad angosciarmi, nonostante i due calmanti che Peter mi aveva obbligato a prendere quando era venuto a casa mia, trovandomi distrutta.  James era morto. Mi pentii di tutto ciò che avevamo passato negli ultimi mesi! Non avrei mai più potuto dirgli che non mi importava della ricerca se non c’era lui con me, e non avrei mai più potuto dirgli come lo amavo e che l’importante era che lui facesse parte della mia vita. Ormai era troppo tardi.

    Una brezza fredda carica di umidità fece in modo che i cipressi del cimitero di Greenwood ondeggiassero. Cercai di rimanere composta durante tutto il funerale, anche se l’unica cosa che volevo fare era uscire correndo e piangere in solitudine.

    Il rettore venne verso di me, accompagnato da un elegante signore di mezza età. Mi diede un abbraccio caloroso che accolsi con freddezza e mi presentò al suo accompagnatore.

    –Signor Gonzalez, lei è la professoressa Julia Robinson. Condivideva il progetto di ricerca con James. È un asso in storia moderna europea.

    Risposi con un sorriso flebile.

    –Il signor Gonzalez è un illustre benefattore della nostra Università. Grazie a lui presto avremo l’edificio che ospiterà la nuova biblioteca – disse senza abbandonare il suo solito tono pomposo.

    – Piacere – risposi dandogli la mano in modo automatico.

    Non mi importava un fico secco di Gonzalez e non avevo voglia di conoscere nessuno, ma non avevo la più pallida idea di come fuggire. I calmanti, che si erano rivelati del tutto inutili per ammortizzare il malessere, avevano invece intorpidito le mie capacità di reazione.

    –È un piacere conoscerla. Mi dispiace molto per questa perdita – si lamentò il cavaliere – ho chiesto al suo rettore di trovare un’occasione per poter parlare in tranquillità della vostra ricerca. Mi ha sempre affascinato la storia.

    Guardai quell’uomo che si impegnava a tenere salda la mia mano nella sua. Aveva un completo azzurro di cachemire e delle scarpe fatte su misura. La sua attitudine mi suggestionava.

    –La realtà alcune volte può essere tanto spettacolare quanto la fantasia. Ma non è questo il caso, mi creda. Il mio lavoro è abbastanza noioso – risposi chiudendo la conversazione e allontanandomi.

    Il suo interesse verso il progetto mi sembrò strano, ma in quel momento non avevo voglia di parlare di quel tema, e tantomeno pensarci. Mi ricordava troppo James.

    Capitolo 3

    P

    eter si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla.

    –Ti andrebbe di mangiare qualcosa?

    –Si. Ho bisogno di fare altro – mi affrettai a dire.

    Avevo una strana sensazione allo stomaco che, anche se sapevo che non era fame, ci somigliava abbastanza e pensai che forse sarebbe passata con un boccone.

    Camminammo su una strada fatta di ghiaia che si apriva in un prato disseminato di lapidi grige. Le foglie degli alberi frusciavano. La decapottabile di Peter era parcheggiata a due strade dal cimitero, al lato di un blocco di case basse in mattone rosso con porticati a tetto acuto e un piccolo giardino anteriore. Pensai che in una di quelle case potesse essere cresciuto James.

    Salimmo sulla sua potente macchina color rosso fuoco e sfrecciammo via di lì. Pensai che quella macchina non c’entrasse nulla con lui; consideravo più adatto alla sua personalità un veicolo elegante, come ad esempio una berlina tedesca; ma con Peter nulla era prevedibile.

    Era un uomo attraente. Aveva dei folti capelli scuri con qualche ciocca grigia, che rivelavano la sua non più giovane età, anche se rimaneva comunque un uomo interessante. Degli occhiali senza montatura mettevano in risalto dei piccoli occhi azzurri. Molte tra le sue alunne erano innamorate di lui.

    Guidò per un breve tratto in silenzio. Uscimmo da Brooklyn e ci addentrammo a Manhattan. La macchina si fermò davanti a un bar, a due vicoli da casa mia.

    –Ti va bene qui? – mi chiese senza guardarmi.

    –Va bene – gli risposi rassegnata.

    Ci sedemmo a un tavolo vicino alla finestra, da dove potevo vedere la strada illuminata dal riflesso giallo dei lampioni. Il cameriere, un ragazzo di circa venti anni dall’ aspetto abbastanza stravagante, prese nota di ciò che chiedemmo e ci servì con dei panini che io non toccai. Non ero in grado di masticare.

    –So che per te è stato un colpo duro. In realtà lo è stato per tutti. Ma lo dobbiamo superare – disse prendendomi le mani.

    Peter era sempre stato affettuoso con me, questa era l’unica cosa che potevo dire di qualsiasi altro uomo al di fuori di mio padre e James. Le sue parole, anche se non avevano avuto effetto consolatorio, mi arrivarono al cuore con un calore di cui avevo bisogno.

    –Ancora non ci posso credere – mormorai – ieri stesso aspettavo una sua e-mail, doveva inviarmi un documento affinché lo studiassi. Diceva che era molto vicino allo scoprire qualcosa di importante e ora...

    –Può succedere a chiunque. Non continuare a tormentarti.

    Peter aveva ragione. A chiunque poteva succedere una disgrazia del genere. Pensai che il destino fosse tanto crudele quanto probatorio.

    Viviamo pensando che non ci succederà mai nulla, e quando qualcosa del genere ti capita ti rendi conto di quanto possa essere fragile il benessere.

    Non azzardai a chiedere i dettagli, ma Peter sembrava volermeli raccontare comunque.

    –È stato un incidente terribile. Sai come guidava James – disse abbassando la voce ma senza smettere di guardarmi.

    Lo guardai incredula ma, in effetti, sapevo alla perfezione come guidava. Non a caso una volta avevamo attraversato mezzo paese con la sua Ford per cercare un’informazione che Peter stesso ci aveva chiesto di trovare. James era un conducente esperto.

    –Non si sa come è uscito dalla carreggiata. Probabilmente una svista. Gli agenti dicono che andava a grande velocità. Si è capottato varie volte fin quando non si è incendiato il motore. Quando sono arrivati i soccorsi non hanno più potuto fare nulla per la sua vita. Il suo corpo era carbonizzato completamente.

    Mi si rigirò lo stomaco e il mio sguardo incredulo si trasformò in uno sguardo d’orrore.

    Rimanemmo in silenzio per un po’ di tempo. Io ero sopraffatta. Cercai di non immaginare ciò che avevo appena saputo e, anche se in quel momento l’ultima cosa che mi interessava era il progetto di ricerca, dissi:

    –E ora che ne sarà della ricerca. Il viaggio era cruciale per poter avanzare, e senza lui...

    –Non pensare a questo ora – mi interruppe Peter – sarà meglio che passi un po’ di tempo. Tu non sei nelle condizioni di andare avanti e nemmeno io ne ho le forze.

    Pensai che Peter fosse la persona con più giudizio tra i due, non avrei mai dovuto menzionare nulla di quell’argomento.

    –James era un po’ utopista e noi abbiamo retto il gioco – aggiunse.

    Non mi piacque il modo di Peter di parlare di James. Lui non era mai stato utopista, era uno specialista rigoroso. Il disgusto per le sue parole mi si lesse in faccia.

    –Però aveva detto che le ricerche erano sul punto di rivelare qualcosa di importante. Non avrebbe voluto che abbandonassimo il progetto – protestai senza molto entusiasmo.

    –James, povero James, era troppo ottimista – ironizzò lui – ha trascorso undici mesi in Spagna e migliaia di dollari sono stati investiti per nulla. Il rettore e il consiglio universitario sono restii a spendere soldi in un progetto che non porta a nulla, e io non mi sento in grado di continuare a lottare.

    Non mi piacque quello che stava dicendo, ma ero talmente stanca e stordita che riuscii solo a fare una smorfia di sconfitta.

    –Lascia perdere – mormorò Peter mentre mi baciava le mani.

    –Se abbiamo continuato con la ricerca è stato solo per non cedere all’ostinazione di James. Ora dobbiamo cambiare aria e cercare una nuova meta insieme.

    Pensai che non fosse conveniente in quel momento replicare. Non concordavo con Peter, ma non ero in vena di discutere. In realtà, non mi andava di parlare dell’argomento, e tantomeno pensarci. Una fitta allo stomaco e una al petto, che non mi permetteva di respirare, mi impedivano di parlare. Dunque, iniziai a piangere.

    Peter cercò di consolarmi, ma più cercava di farlo più io piangevo.

    –Datti tempo – disse, asciugandomi le lacrime – farò in modo che tu possa rimanere a casa una settimana per riposarti, non un giorno di più. Entro una settimana ti voglio vedere in Università.

    Quando arrivammo a casa, Peter cercò di accompagnarmi fin dentro, ma non glielo permisi. Avevo bisogno di stare sola per sfogare il mio dolore.

    1.   

    2.  Parte II: La disperazione

    Capitolo 4

    Dopo una settimana, che in realtà diventarono due perché non ero ancora in grado di andare all’Università, il dolore ancora non passava. Il mondo mi era crollato addosso e non smetteva di tormentarmi l’idea che, se le cose fossero andate in un’altra maniera, tutto quello non sarebbe successo.

    Peter mi faceva visita ogni pomeriggio. I primi giorni mi preparava la zuppa, gli altri mi ordinava cibo cinese o mi preparava panini che non ero in grado di deglutire. Alcuni pomeriggi gli diedi il permesso di entrare in cucina per riempire il frigo di bevande probiotiche e zuppe ricostituenti, altri invece non gli permettevo nemmeno di entrare in casa.

    Le notti erano lunghe, molte delle quali le trascorrevo insonni, facendo avanti e indietro dal letto al bagno. Alcune volte andavo in cucina per prepararmi una tisana.

    Un giorno svenni in salotto e sbattei la testa. Non so per quanto tempo sia stata al suolo. So solo che al mio risveglio c’era sangue secco sulla fronte, e per la prima volta dalla morte di James, mi sentii riposata e serena, come narcotizzata da un sogno. Quel giorno cambiò qualcosa nella mia testa.

    Alle 8 in punto del mattino seguente mi svegliai e feci tutto quello che facevo prima della morte di James.

    Mi alzai sorpresa dal letto e andai in bagno. Lasciai scorrere l’acqua calda fin quando non si formò una nube di vapore e mi misi sotto la doccia per un po’ di tempo.

    Ricordai che, prima della morte di James, quello era il momento del giorno che più amavo, ma mi resi conto che quel giorno provavo solo ira.

    Non facevo mai colazione a casa, non ero in grado nemmeno di mettere la caffettiera sul fuoco al mattino.

    Mi vestii e uscii per andare all’università in macchina, una Plymouth Valiant blu che avevo ereditato da mio padre. Certamente non una delle migliori macchine per muoversi a New York.

    Quando arrivai al Campus parcheggiai il veicolo davanti al cancello metallico della sala di riscaldamento, anche se George, il nuovo guardiano, mi aveva sempre detto di non parcheggiarla là.

    Dopo 5 anni di ricerche non ero disposta ad abbandonare tutto. James non me lo avrebbe mai perdonato se avessi abbandonato così tutto il nostro lavoro, e nemmeno io me lo sarei mai perdonato.

    Peter era stato colui che ci aveva ingannati.  Lui ci aveva suggerito il tema della ricerca e lui ci diceva di continuare e continuare, e ora pretendeva che abbandonassi.

    Andai puntando al sodo. Poche volte ero così convinta di me stessa. Ma in quel momento si, ero convinta di voler continuare con la ricerca, con o senza Peter. Lo dovevo a James, lo dovevo a me. Sapevo che, se avessi abbandonato, James sarebbe morto per sempre, e io volevo continuare a sentirlo vivo dentro me.

    Entrai al bar dell’università e presi un caffelatte e due fette biscottate. Non ero in grado di pensare lucidamente se non ero a stomaco pieno, e ultimamente non avevo mangiato adeguatamente. La fila di studenti assonnati che facevano colazione era notevole, ma senza James quell’affollato bar mi sembrò vuoto.

    Quando arrivai in dipartimento Peter era seduto sulla sedia di James e sembrava immerso nella lettura di un giornale. Per un attimo lo confusi con James.

    –Julia, mi sorprende vederti qua! – esclamò Peter mentre poggiava su un tavolino i fogli di giornale.

    Sentii dolore e rabbia di fronte alla consapevolezza che lì seduto non vi era James e che mai lo avrei rivisto su quella sedia.

    –Ho bisogno di parlarti – interruppi decisa – voglio continuare con il progetto di ricerca. Voglio che parli con il rettore affinché mi passi il lavoro di James. Voglio andare in Spagna, sono decisa.

    Dopo aver pronunciato quelle frasi il mio cuore cominciò a battere fortemente.

    Peter rimase in silenzio per molto tempo, mentre io lo guardavo dall’altro lato della scrivania con le mani poggiate su essa. Alla fine, dopo un po’, si decise a parlare.

    –Pensavo che ne avessimo già parlato – disse con tono pacato.

    –Sai che in queste settimane non sono stata in grado di parlare di nulla – risposi esasperata.

    Peter si alzò di scatto. Si assicurò che la porta fosse ben chiusa e mi abbracciò forte

    –So che stai soffrendo – sussurrò al mio orecchio.

    Mi dimenai come una bambina viziata ma alla fine caddi tra le sue braccia piangendo. Tutto quello era ingiusto. Alla fine, reagii. Mi irritava il fatto che usasse quelle tecniche in quelle circostanze per farmi cambiare idea.

    –Non cederò – dissi con tono sicuro mentre lo allontanavo – sono troppi anni e troppi sforzi per mollare ora.

    Mi misi a cercare nella borsa un fazzoletto con cui mi asciugai le lacrime. Ero triste e arrabbiata allo stesso tempo. Avrei pianto ancora un po’, ma il mio orgoglio me lo impediva.

    –Non cederò – insistetti.

    Peter si allontanò e tornò a sedersi alla scrivania. Ci fu un silenzio carico di rabbia.

    –Ci hai pensato bene? – chiese – non ti rendi conto che siamo a un punto morto? Pensi che a me non importi? – Peter stava alzando sempre più la voce – è da tempo che il progetto non va avanti. James l’unica cosa che ha fatto in Spagna negli ultimi mesi è stata finire i soldi spendendoli in alcool. La commissione ha fatto le sue indagini e me le ha comunicate. Durante la nostra ultima chiamata, vedendosi con le spalle al muro, non ebbe nemmeno il buon senso di mentirmi.

    –Di cosa stai parlando? Come ti permetti? – dissi addolorata.

    Peter non poteva essere così crudele. Era consapevole del fatto che le sue parole mi avrebbero ferito.

    –James ha fallito e noi con lui! – gridò Peter con durezza.

    Mi guardò con occhi luccicanti e potevo vedere come il sangue dilatava le vene del suo collo.

    –Non c’è una soluzione, perché non c’è mai stato nessun problema. Non vi è nulla di nuovo da scoprire, al contrario di ciò che pensava James!

    –Cosa vorresti dire... – borbottai confusa.

    –Voglio dire che per cinque anni abbiamo seguito un fantasma che non esiste. Un fantasma nato dall’immaginazione di James – rispose deciso.

    Ci fu un lungo silenzio. Ero così amareggiata che non riuscivo nemmeno a parlare.

    –Non andare, Julia – continuò, con più calma – siamo storici, studiosi seri, e sappiamo quando qualcosa è giunto alla sua fine.

    È doloroso quando muore un amico e con lui muore un’illusione. James era appassionato del suo lavoro. Era uno di quelli che affrontava la vita con allegria. Quando ero con lui tutto era più facile. Aveva la capacità di trasmettermi il suo entusiasmo e farmi pensare che tutto sarebbe andato bene.

    Non mi era mai piaciuta la storia, ne so dire con precisione il motivo per cui avevo scelto di studiare storia piuttosto che giurisprudenza o economia. Ad oggi avrei potuto essere un buon avvocato come mio padre o una brillante donna d’affari.

    E ora Peter stava cercando di convincermi che ero stata per cinque anni la sua assistente per preparare una tesi su un tema che nella realtà non esisteva, insieme a un pazzo che ritenevo genio.

    Ero confusa. Non capivo cosa passasse per la testa di Peter per dire quelle cose.

    Mi guardò con un’espressione arrabbiata. Tornò a guardare dei fogli ed estrasse tra essi un fascicolo. Era pieno di foto. In quelle foto si poteva vedere James con una ragazza dai capelli rossi in attitudini che andavano oltre la semplice amicizia.

    Il mio viso mostrava perfettamente la mia sorpresa.

    –Non volevo fartele vedere. Me le aveva inviate il rettore prima dell’incidente. James non stava facendo progressi e la commissione ha cominciato a indagare sul perché. A quanto pare, James negli ultimi mesi non si stava dedicando alla ricerca.

    Mi girai e abbandonai l’edificio. Non potevo continuare ad ascoltarlo.

    Uscii sfrecciando dal parcheggio dell’università. Ero sempre stata un’ingenua anche se cercavo di non mostrarlo. L’immagine di James abbracciato a quella ragazza mi rese gelosa e triste allo stesso tempo. E, sentendomi in parte responsabile di ciò, non potei evitare di sentirmi delusa.

    Avevo bisogno di pensare, di ricominciare a vivere la mia vita.

    Desiderai andarmene lontano. Sentivo la necessità di allontanarmi da tutto quel dolore che stavo provando. Prendermi una vacanza mi sembrò una buona idea. Mi avrebbe fatto bene passare un po’ di tempo con mia madre e mia sorella a Tulsa, il paesino in cui vivevo in Oklahoma.

    Non vedevo i miei nipoti dalle festività natalizie e anche in quell’occasione ero rimasta solo tre giorni. Il piccolo Robert quasi non mi aveva riconosciuto quando mi vide a Natale.

    Ormai ero decisa. Avrei parlato con Peter, che doveva capirmi di sicuro. Dovevo prendermi una lunga pausa.

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    Parte III: L’avvertimento

    Capitolo 5

    Parlai con Peter, che si mostrò comprensivo e fece in modo che il rettore e la commissione universitaria mi concedessero un anno sabatico e un generoso compenso economico. La commissione mi accordò un indennizzo pari a due anni di stipendio. Oltre a ciò, lo stipendio che mensilmente mi spettava versato sul mio conto corrente. In pratica in un anno sabatico avrei ricevuto il triplo delle mie entrate, e tutto questo per aver lasciato il lavoro. Chi li capiva? L’anno precedente non mi avevano dato nemmeno un centesimo per lavorare insieme a James a una ricerca che avrebbe potuto dare elevata notorietà all’università e ora mi davano più del dovuto. La mia pretesa era stata solo quella di non perdere il posto di lavoro.

    Peter mi chiese in cambio solo il favore di andarlo a trovare la prossima estate e che una volta passato l’anno sabatico fossi tornata a lavorare con lui. Glielo promisi. Lui era sempre stato un buon amico. Come garanzia che lo avrei fatto gli lasciai la Plymouth Valiant di mio padre, e lui mi promise di lasciarla nel garage universitario e di farle prendere aria ogni tanto fino al mio ritorno.

    Ci salutammo con un bacio sulla guancia.

    Tulsa era il mio rifugio. Mi rendeva felice tornare a vedere i tramonti sul mare, seduta sulla balaustra del porticato, ad ascoltare il mormorio del vento che si infrangeva sulle foglie degli alberi del giardino. Era la cosa migliore che potessi fare in quella situazione. Avevo bisogno di quell’effetto consolatorio per curare le mie ferite. Ero pronta.

    Non avrei chiamato mamma. Non avevo voglia di darle spiegazioni affrettate al telefono sull’inaspettato viaggio di ritorno a casa, né di dirle quanto mi sentissi stupida. Avevo bisogno di una scusa logica da raccontare quando mi avrebbero visto. Volevo solo allontanarmi da New York e dall’Università, dimenticando tutto per un po’ di tempo.

    Tornai al mio appartamento alle due meno un quarto. Chiamai un’agenzia di viaggi e prenotai un volo per il giorno successivo per evitare ripensamenti.

    Organizzai mentalmente le cose da fare per prepararmi alla partenza e le trasferii su un foglietto che attaccai al frigorifero con una di quelle calamite a forma di fragola. Per primo parlai con la padrona di casa e le comunicai la mia intenzione di partire per un po’ di tempo. Avrei continuato a pagarle l’affitto, poiché non avevo voglia di perdere quel bel appartamento a Manhattan, e con il compenso ottenuto avrei potuto permettermelo. Le chiesi di ritirare la posta, di prendersi cura delle mie piante, un ficus benjamina deperito e un’ortensia regalatami da mia madre per Natale che ancora non era fiorita. Le chiesi anche di prendersi cura di Rouse, il mio pappagallo turchese. La signora accettò amorevolmente.

    Successivamente, mi posizionai di fronte all’armadio. Volevo portare con me lo stretto necessario. Con il generoso indennizzo avrei avuto il lusso di poter comprare vestiti nuovi a Tulsa. Avevo bisogno di fare cose che mi distraevano dai miei oscuri pensieri, e fare shopping con mia sorella Katy sarebbe stato un buon modo per distrarsi. Era da tanto tempo che non parlavo con lei! Amavo stare con lei. Eravamo diverse ma allo stesso tempo simili. Nessuna delle due faceva scelte giuste. Anche lei era stata una brava studentessa, si era laureata in Giurisprudenza all’Università di Oklahoma. Sarebbe stata sicuramente un avvocato brillante se non avesse abbandonato la carriera nello studio dei soci di papà

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