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Silence
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E-book425 pagine6 ore

Silence

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Info su questo ebook

Un libro che sa tenerti incollato alle sue pagine gli originali fino a notte fonda

Da questo romanzo il film Netflix The Silence

L’unica speranza per sopravvivere è rimanere in perfetto silenzio

Un terribile flagello dilaga in Europa e l’unica speranza per sopravvivere è rimanere in perfetto silenzio… Nell’oscurità di una fitta rete di grotte sotterranee, vivono creature cieche, abilissime nella caccia. Grazie al loro udito sono in grado di individuare e catturare qualunque preda. I cunicoli sigillati hanno trattenuto per secoli la loro furia, fino a che una spedizione speleologica in Ucraina, in diretta televisiva, non apre un varco, scoperchiando quell’ecosistema come un vaso di Pandora. A emergere dalle tenebre è uno sciame di creature feroci, simili a pipistrelli, che in un attimo si avventa sul gruppo di scienziati. Le telecamere continuano a riprendere per ore lo scempio, offrendo uno spettacolo raccapricciante. Due testimoni della carneficina sono Ally e suo padre Huw, incollati davanti allo schermo. Se la minaccia dovesse diffondersi in tutta Europa nessuno sarebbe più al sicuro. Perché gridare, persino sussurrare, può rivelarsi fatale. Ally, affetta da sordità, è abituata a vivere in silenzio. E adesso, la sua abilità è l’unica speranza di salvezza per la sua famiglia: dovrà riuscire a trovare un posto sicuro per aspettare la fine del pericolo. Ma avrà davvero fine? E in quale mondo sarà costretta a vivere?

Un autore bestseller del New York Times

Non parlare.
Non muoverti.
Possono sentirti.

«Riesce a essere allo stesso tempo epico e intimista, Tim Lebbon ha creato un capolavoro dell’horror che merita un posto sullo scaffale dei vostri libri preferiti. Mi ha ricordato John Wyndham e Stephen King, motivi per cui mi sono innamorato della sua scrittura. Da leggere.»
Christopher Golden, autore del bestseller Missione Ararat

«Grazie a questo romanzo ho scoperto Tim Lebbon: uno scrittore che sa tenerti incollato al suo libro fino a notte fonda.»

«Questo libro mi ha già fatto venire due incubi e sono sicura che, prima di finirlo, ce ne sarà almeno un terzo.»
Tim Lebbon
è autore di più di quaranta romanzi horror e fantasy. Con il suo racconto Reconstructing Amy nel 2001 ha vinto il prestigioso premio Bram Stoker. Silence, che ha ottenuto il successo internazionale, è diventato anche un film. Vive in Inghilterra con la moglie e i suoi due figli.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2018
ISBN9788822726865
Silence
Autore

Tim Lebbon

Tim Lebbon has written more than forty horror, dark fantasy, and tie-in novels, including The Silence, Relics, Kong: Skull Island, and the Noreela fantasy series. He’s also written hundreds of novellas and short stories, winning several prestigious awards, and has had his work optioned and made for the big screen. He lives in Monmouthshire, UK.

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    Anteprima del libro

    Silence - Tim Lebbon

    parte prima

    RUMORE

    Capitolo uno

    …un evento storico, in cui per la prima volta una scoperta scientifica di questa portata viene trasmessa in diretta. L’emozione qui in superficie è palpabile, possiamo solo immaginare quanto sia elettrizzante giù, in corrispondenza del punto di accesso. Scienziati e speleologi si trovano tutti a distanza di sicurezza e i sistemi robotici progettati e costruiti appositamente per l’occasione sono pronti a rimuovere il crollo che in passato ha bloccato l’ingresso. Cosa potremmo trovare al di là nessuno lo sa per certo, sebbene una recente serie di indagini sismiche suggerisca che il sistema di caverne nascoste, rimasto isolato forse per milioni di anni, sia molto vasto. Secondo le voci più diffuse, potrebbe contenere grotte più ampie di quella di Son Doong, scoperta di recente in Vietnam, e sistemi paragonabili per lunghezza alla leggendaria Mammoth Cave in Kentucky. Io per prima non sono mai stata così emozionata. Questo è un giorno che chiunque sia legato a questa spedizione ricorderà per sempre. E spero che anche voi, telespettatori, lo ricorderete.

    Profondità nascoste, «in diretta!», Discovery Channel,

    giovedì 17 novembre 2016

    Mentre guardavo le tre figure in divisa nera attrezzate di tutto punto per l’arrampicata che venivano calate all’interno della caverna, Jude mi lanciò un torsolo di mela in testa. Mi mancò e andò a sbattere contro la parete alle mie spalle, per poi spaccarsi e schizzarmi addosso polpa di frutta e semi.

    «Levati dalle scatole!», gridai. La sua ombra sgusciò via dalla porta della camera da letto, ovviamente per timore di ritorsioni, ma la mano sinistra e la testa ricomparvero appena dietro lo stipite.

    «Lo dico alla mamma», rispose nella lingua dei segni.

    «Allora diglielo!», dissi. Le mie parole risuonavano come una vibrazione generata da qualcosa che era poco più che un ricordo. Sentii il tump-tump cadenzato dei passi del mio fratellino mentre correva a rintanarsi in camera sua e un attimo dopo un tonfo contro il muro quando saltò sul letto. Sarebbe tornato. Lo stronzetto era in vena di scherzi.

    Scrollandomi di dosso i residui di mela appiccicosa dalla spalla, mi voltai di nuovo verso il televisore. L’avevo appena acceso. Avevo strimpellato la chitarra per circa un’ora, prima di soccombere alla necessità impellente di stravaccarmi sul letto e guardare roba poco impegnativa in tv. Tuttavia, la prima immagine che avevo visto aveva subito catturato la mia attenzione.

    Non era proprio una giungla. Era più un fitto bosco, con colline ricoperte di alberi e arbusti, e in lontananza delle cime nude, aspre e avvolte dalla foschia. C’era della gente sul fondo di una gola scoscesa e dagli alberi che crescevano sulla sommità del dirupo pendevano piante rampicanti, che si facevano strada tra le ombre come tentacoli addormentati. Un torrente zigzagava lento alla base della gola. C’erano un sacco di grandi tende da campeggio nell’area circostante, alcune più piccole nelle vicinanze e un container di stoccaggio stracolmo di casse di plastica e sacchi color cachi. Ma furono i volti della gente ad attirare davvero la mia attenzione, e in particolare le loro espressioni.

    Erano emozionati. Non come chi è colto alla sprovvista, ma proprio elettrizzati per ciò che stavano facendo e per qualunque cosa avessero trovato. La scritta in diretta nell’angolo dello schermo dava alla scena un senso di immediatezza ancora più forte. Uomini e donne si agitavano per l’accampamento sullo sfondo e la videocamera era focalizzata su un gruppo ristretto di persone: tre individui avvolti da corde e imbracature, il verricello in metallo con i relativi sostegni e l’abisso oscuro dell’ingresso di una caverna sul fianco della collina. Due donne azionavano il verricello e, uno dopo l’altro, gli esploratori venivano calati nella voragine, lontano dalla luce e dalla vista degli spettatori.

    Ero confusa perché mancava la narrazione scritta, ma poi premetti un pulsante sul telecomando e comparvero i sottotitoli. Jude doveva avere di nuovo guardato la tv in camera mia, incasinando le impostazioni. Piccolo stronzetto irritante.

    …poco più di un miglio, quindi; anche se non è nemmeno lontanamente il sistema di grotte più lungo o più profondo d’Europa, le sue caratteristiche uniche lo rendono di gran lunga il più affascinante, e il potenziale di esplorazione più in profondità è enorme. Come ha affermato prima il Dottor Krasnov, state assistendo a un momento in cui si fa la storia, qui in diretta su Discovery Channel. Perciò, mentre i tre speleologi vengono calati nella bocca della caverna verticale, più in profondità i sistemi robotici stanno già…

    Quali caratteristiche uniche?, mi domandai. L’ingresso della grotta aveva un’aria insignificante, un buco di circa quattro metri e mezzo di larghezza con le estremità nascoste dai cespugli. La luce del giorno penetrava nel foro da un lato, mostrando una parete ricoperta di piante che sembrava arrivare fino in profondità. Era un po’ inquietante, credo, e mentre guardavo l’ultimo uomo svanire nell’oscurità, mi chiesi se fossi incappata in qualche nuova fiction o in un film. Ma controllando vidi che si trattava davvero di Discovery Channel e finalmente la presentatrice fu inquadrata per la prima volta. L’avevo già vista in alcuni reportage in giro per il mondo, in diretta da una serie di luoghi fantastici e proibiti. Che lavoro meraviglioso, pensai. A quattordici anni avevo appena cominciato a intuire cosa volessi fare da grande e guardare quella reporter mi riempì di gioia. Non avevo mai permesso alla mia situazione di influenzare o limitare i miei sogni. Essere sorda era la caratteristica che mi rendeva unica.

    Come abbiamo detto poc’anzi, c’è già una squadra di quindici persone accampata all’estremità più lontana del sistema. Il gruppo, che include speleologi esperti, un botanico, un biologo, un geologo e un paleontologo, ha trascorso quasi sei giorni sottoterra per raccogliere campioni e cercare di catalogare le diverse specie di piante e insetti già scoperte all’interno. Ma ora che è stato trovato l’ingresso alla cavità successiva e che gli esploratori sono pronti a oltrepassare la frana che, a quanto pare, nasconde un sistema sottostante molto più profondo e più vasto, questa potrebbe diventare una delle scoperte scientifiche più grandi…

    Presi il mio iPad, perennemente acceso, e aprii l’applicazione dell’album di ritagli. L’avevo adattata e personalizzata e ora la usavo ogni volta che una storia sentita al notiziario stuzzicava il mio interesse, appiccicandoci sopra resoconti, videoclip e commenti o contenuti presi dai social. I miei genitori adoravano leggere le mie analisi personali su quelle storie e incoraggiavano il più possibile le mie ambizioni giornalistiche. La comunicazione era la mia grande passione, e non c’era da stupirsene. Soltanto una volta mio padre mi aveva chiesto: «Come puoi fare una cosa del genere se sei sorda?». Il suo dubbio mi aveva un po’ sorpresa, soprattutto perché mi sentiva spesso suonare e fare musica. Jude voleva formare una band insieme a me, con lui nelle vesti di frontman e io in qualità di compositrice, musicista e qualunque altro ruolo non prevedesse di tuffarsi dal palco sopra una folla in delirio. A mio padre avevo risposto: «Chiedilo a Beethoven». Dopodiché non aveva mai più messo in dubbio la mia vocazione, se non altro non apertamente.

    Aprii un documento nuovo, lo nominai Nuovi mondi? e mi apprestai a scrivere l’introduzione, quando scorsi un movimento con la coda dell’occhio.

    Jude sbucò di nuovo da dietro la porta, strisciando come un cecchino, con un elastico teso tra il pollice e l’indice e una pallina di carta arrotolata pronta al lancio. Lo vidi e mi scansai, ma lui fu più veloce. La pallina mi colpì a pochi centimetri dall’occhio sinistro.

    Mi lamentai per il dolore, poi gridai di rabbia.

    Jude si accorse di cosa aveva combinato e ridendo, con gli occhi spalancati, cercò di darsela a gambe.

    Buttai l’iPad sul letto e mi lanciai all’inseguimento, attraversando la camera e correndo dietro a quella peste del mio fratellino. La danza e l’atletica mi avevano reso agile e forte e raggiunsi il lato opposto della stanza prima che lui potesse sgattaiolare via.

    Lo afferrai per le caviglie e lui mi guardò da sopra la spalla. Sogghignai, cercando di assumere la mia espressione più malefica. Mi faceva perdere la pazienza, ma a volte non potevo fare a meno di cancellargli dalla faccia quella smorfia compiaciuta da pazzo.

    «E ora che è arrivato il momento della vendetta…», cominciai.

    «No, Ally, mi dispiace!».

    Qualcosa di umido mi toccò il fianco, strofinandomi nel punto in cui la maglietta mi era salita.

    «Otis!», gridai, balzando via. Jude colse al volo l’opportunità per sfuggire alla mia presa e svignarsela, accucciandosi sulla porta della sua camera pronto a difendere il proprio territorio.

    Il cane si sedette e mi toccò di nuovo con il muso. «Arrivo!», urlai, perché sapevo che la mamma aveva mandato Otis a chiamarmi. Non era un vero e proprio cane da assistenza per persone sorde, o almeno non aveva ricevuto un addestramento professionale, ma avevo passato ore e ore a insegnare al mio bracco di Weimar a cercarmi quando la gente mi chiamava, a farmi capire quando il telefono di casa squillava e quando qualcuno bussava alla porta d’ingresso. Io e Otis eravamo molto legati e mi stupiva ancora il modo in cui sembrava distinguere i vari stati d’animo e i diversi compiti da assolvere: era serio quando mi faceva da cane guida e giocherellone più o meno in tutte le altre occasioni.

    «Bravo!», dissi, accarezzandogli il collo e grattandogli il petto. Otis abbaiò, emettendo un suono breve e secco che percepii nel profondo del torace, e si precipitò giù per le scale.

    Io e Jude ci stuzzicammo mentre scendevamo le scale, fianco a fianco, ridendo. Mi ero già dimenticata di quella caverna lontana, di quel foro nella terra, e delle persone che erano scomparse nella sua profonda oscurità.

    Era una delle tante stanze d’albergo, in uno dei tanti e insulsi hotel che Huw avrebbe dimenticato nell’istante stesso della partenza, e per di più questo puzzava di piscio.

    L’estetica del posto non era così male. Le stanze erano tutte diverse (la sua era stata prosaicamente denominata suite rossa, date le tende e le lenzuola rosse e una serie di dipinti astratti che ritraevano paesaggi spogli e veraci e tramonti di sangue) e la coppia che gestiva l’hotel sembrava cordiale ed efficiente. La moglie era poco più grande di Huw e aveva sorriso un filino troppo quando lui aveva notato i bottoni sbottonati della sua casacca. Aveva solo intravisto un lembo del reggiseno in pizzo. Non poteva proprio fare a meno di notare dettagli del genere, ma si era sempre limitato a questo. Aveva prenotato un tavolo per cena, più tardi, e a quanto pareva l’hotel godeva di un’ottima reputazione anche come ristorante. Quindi era carino, stravagante. Ma la sua stanza puzzava di piscio.

    Era andato avanti e indietro per la stanza, un passo alla volta, annusando qua e là, chinandosi sui sanitari del bagno in camera per vedere se la puzza provenisse dal posto più ovvio, ma non era riuscito a individuarne l’origine. Era appena un lieve sentore, nulla di troppo persistente e allarmante, e forse non era abbastanza forte da convincerlo a chiedere di essere spostato. Di certo non era abbastanza per lamentarsi. Huw non era il tipo. Odiava i problemi ed evitava i confronti a qualunque costo. Se ci fosse stata una cacca enorme in mezzo al pavimento, allora forse se ne sarebbe lamentato. Forse.

    Sospirò, sedendosi sul letto e sprofondando sui quattro cuscini che aveva sistemato dietro la schiena. Accanto a lui un libro. Una tazza di tè si stava raffreddando sul comodino; gli era sembrata una buona idea all’inizio, ma sapeva di… be’, di piscio, con quel latte artificiale che fornivano gli alberghi dentro quei piccoli contenitori di plastica.

    Ecco un’altra cosa che avrebbe fatto se avesse gestito un posto come quello. Un piccolo frigorifero in camera con un bricco di latte come si deve. Ne aveva parlato spesso con Kelly e una o due volte avevano considerato seriamente la possibilità di comprare davvero un piccolo B&B sulla costa della Cornovaglia. Lei avrebbe potuto dipingere, qualcosa di più degli schizzi occasionali per cui ora trovava a malapena il tempo. Lui avrebbe fatto surf. Jude avrebbe potuto esplorare le cavità tra le rocce giù alla spiaggia e Ally avrebbe potuto dedicarsi ai suoi interessi più recenti: collezionare conchiglie, andare in kayak, fare coasteering. Huw sorrise. Probabilmente Ally avrebbe voluto provare di tutto e di più.

    Lanciò un’occhiata al libro, sospirò, accese la tv e si mise a fare zapping tra i canali, con l’audio spento.

    Aveva trascorso due giornate positive a lavorare alla nuova casa. O meglio, alla villa. Il loro cliente, un riccone sulla sessantina prossimo alla pensione, era proprietario di un cavallo da corsa. Un tipo a posto con un sacco di storie interessanti, che inevitabilmente intratteneva Huw almeno un’ora in più di quanto ogni incontro dovesse durare in realtà. Tuttavia, a Huw non dispiaceva affatto. A volte Max tirava fuori una bottiglia di vino dalla borsa da lavoro e più di una volta avevano trascorso il tardo pomeriggio ad avvinazzarsi nel cantiere che presto sarebbe diventato la sua dimora di lusso.

    Max ripagava la compagnia di Huw con quasi un milione di sterline per la costruzione della casa, perciò gli sembrava che avesse il diritto di possedere almeno uno spicchio della sua anima.

    Sospirò e tese la mano per prendere il tè. Il movimento spostò l’aria e gli fece arrivare un’altra zaffata di ammoniaca. L’orologio batteva quasi le sei, la cena era prenotata per le sette e non davano un bel niente in tv. Magari sarebbe potuto andare a correre. Era da tanto che non trovava nemmeno il tempo di infilarsi le scarpe da ginnastica. C’era sempre una ragione per non correre e quel giorno era la stanchezza. Era tutto dolorante. Se anche la motivazione per correre era lì da qualche parte, si era nascosta troppo bene e non riuscì a risalire in superficie.

    Huw ripensò alla donna che gli aveva fatto il check-in, al suo sorriso accogliente, e si domandò se il bottone della casacca fosse stato lasciato aperto di proposito.

    A volte Kelly gli rinfacciava i frequenti periodi lontano da casa. Di rado si trattava di più di tre notti, tuttavia lei lo pungolava e lo stuzzicava, senza fare mai davvero sul serio, eppure senza mai scherzare del tutto, pensò. Gli domandava se aveva prenotato la sua puttana per la notte, o se aveva una scopamica fissa in ogni città in cui alloggiasse. Huw la assecondava, senza mai spingersi troppo oltre, e poi la abbracciava e le diceva che per lui era l’unica. Ed era vero, diceva sul serio. Dopo vent’anni di matrimonio si amavano ancora, in modo diverso rispetto a prima, ma con la stessa intensità. Sapeva che altri che lavoravano lontano da casa avevano avuto dei flirt: un’amante regolare, alcune relazioni occasionali, o magari solo la scopata di una notte nella propria stanza d’hotel con qualcuno che avevano conosciuto quella sera e di cui non ricordavano mai il nome. Ma lui non era il tipo da fare certe cose. Huw era un padre di famiglia, e la sua famiglia gli faceva sempre desiderare di tornare presto a casa.

    Bevve un sorso di tè e se ne pentì all’istante. Pensò di farsi un bagno, di rilassarsi con il libro di Iain Banks dal quale stava cercando di farsi coinvolgere. Adorava Banks, ma doveva essere dell’umore giusto per leggerlo. Una volta deciso, prese il telecomando della tv e, prima di spegnere, cambiò un altro paio di canali a caso, un’abitudine che aveva preso stando insieme a Kelly.

    Fu allora che un’immagine attirò il suo sguardo. C’era un sacco di gente radunata intorno a una specie di macchinario; due dei presenti giravano faticosamente una manovella, mentre un terzo armeggiava con un meccanismo di comando. La videocamera doveva essere tenuta a mano perché la ripresa era scattosa e irregolare. Sullo sfondo c’erano diverse tende da campeggio, tra cui filtrava la luce, mentre delle persone correvano avanti e indietro. Si trovavano in mezzo alla natura selvaggia, a giudicare dagli alberi, dal cielo stellato e dal terreno ruvido.

    Fu l’espressione dipinta sul loro volto ad attirare la sua attenzione. Erano spaventati.

    «Il trailer di un nuovo film», borbottò Huw. Parlava spesso da solo e di solito non ci faceva nemmeno caso. Ma stavolta ci fece caso, perché non era molto sicuro di sé. Se si trattava di un trailer, era incredibilmente realistico. E vivido.

    I due continuavano a girare la manovella e soltanto quando Huw vide qualcosa di lucido e rosso sbucare dal terreno si accorse che l’audio era ancora impostato sul muto.

    Premette il pulsante della voce e trasalì all’urlo straziante che squarciò la stanza.

    «Merda!». Con il cuore a mille, Huw ridacchiò al pensiero di quanto facilmente si fosse lasciato spaventare. Si sporse sul letto e afferrò il cellulare, cercando di non distogliere lo sguardo dallo schermo, e controllò l’ora. Quasi le sei e un quarto.

    Non avrebbero mai dovuto mostrare immagini del genere a quell’ora.

    Adoravo gli spaghetti al sugo. La mamma li cucinava sempre e la ricetta era ogni volta leggermente diversa. Le piaceva sperimentare. Diceva che le ricette erano solo linee guida e che era bello distinguersi.

    Il parmigiano, però, era sempre presente.

    Jude era seduto di fronte a me e mamma alla mia sinistra. Era una donna elegante, bellissima, che portava la sua mezz’età con orgoglio e dignità invece che cercare di nasconderla con trucchi costosi, tinte per capelli o semplice rifiuto. Spesso le ricordavo che il grigio che le velava le tempie (che ormai stava aumentando, passando da qualche semplice striatura a veri e propri sprazzi di colore) in un certo senso le dava un aspetto da supereroina. La mamma rideva ogni volta e Jude l’aveva chiamata Superchef.

    «È solo questo che sono per te?», aveva domandato lei al figlio di dieci anni.

    «Sì», aveva risposto lui. «Dov’è il pudding?».

    Otis era seduto con la testa sulle mie ginocchia e mi guardava con due occhi tristi che dicevano Nutrimi. Se papà fosse stato presente, avrebbe mandato Otis nella sua cuccia mentre eravamo a tavola. Non gli piaceva che il cane elemosinasse cibo, ma a me non importava. Otis sapeva sempre quando l’uomo di casa era via.

    «Dov’è la nonna?», domandai. Mia nonna era venuta a stare da noi per un paio di settimane e cenava sempre con noi.

    «Sta riposando», rispose mamma. «Hai dei compiti?». Era l’unica persona di cui trovavo semplice leggere le labbra. Con papà dovevo concentrarmi molto e con la maggior parte dei miei amici di solito captavo solo una parola su tre. Era strano.

    «Be’, sì, geografia. Ma è per la prossima settimana».

    «Dovresti comunque fare qualcosa stasera».

    «Sì, forse».

    Jude mi diede un colpetto da sotto il tavolo, segnale con cui di solito mi faceva capire che stava per dire qualcosa di offensivo. Gli lanciai un’occhiataccia.

    «Tu puzzi», disse muovendo le labbra senza emettere un suono. Quello lo capii senza problemi.

    «Jude», lo ammonì nostra madre, in tono di avvertimento.

    Iniziammo a mangiare. Jude afferrò la pagnotta all’aglio dal centro della tavola e io fui abbastanza svelta da strappargliene un po’ dalle mani. Era ottima. La mia amica Lucy odiava quando mangiavo l’aglio e io l’indomani facevo sempre in modo di sedermi accanto a lei sullo scuolabus, buttando fuori aria da un angolo della bocca. Infantile, ma mi faceva ridere. C’erano un sacco di cose che mi facevano ridere. Ero una ragazza felice, e per certa gente (per lo più ignorante, ma qualche volta proprio stronza) era difficile da capire.

    Un ragazzo una volta mi aveva fatto incavolare a morte a scuola, rivolgendomi insulti crudeli quando credeva che non lo potessi vedere (mongola, spastica) e facendo boccacce alle mie spalle, cosa di cui i miei amici mi avevano avvertito solo in seguito. Era noto per essere una testa di cazzo, ma quella volta aveva fatto la testa di cazzo con me. Così l’avevo subito affrontato e gli avevo detto cosa pensavo di lui, concentrandomi a fondo per assicurarmi che quei termini sprezzanti che usavo così di rado fossero ben strutturati, taglienti e affilati. Poi mi ero voltata dall’altra parte mentre lui sbraitava e urlava alle mie spalle e gli avevo fatto il dito da sopra la spalla. I sorrisi intorno a me avevano rispecchiato il mio. A volte, non sentire aveva i suoi vantaggi.

    Jude fece scivolare a terra del cibo e Otis si infilò sotto il tavolo per raccattarlo con la lingua. Jude gridò, facendo una scenata perché il cane lo stava facendo cadere dalla sedia. Mamma aggrottò la fronte e gli disse qualcosa che non capii. Io continuai a mangiare, guardando nel piatto.

    Finito di cenare e riposte le posate, mamma preparò una ciotolina di gelato per ciascuno. Alzai lo sguardo su Jude e lo trovai a fissarmi, in attesa. Dopo aver attirato la mia attenzione, iniziò a parlarmi a gesti in quello che io avevo sempre considerato il dialetto della famiglia Andrews, una specie di lingua dei segni ampliata e adattata rispetto a quella che avevamo tutti imparato dopo l’incidente. I miei genitori erano bravi a usare la lingua dei segni, ma Jude, che all’epoca aveva appena sei anni, l’aveva imparata a una velocità straordinaria ed eravamo stati noi due a inventarci la nostra versione alterata e personalizzata. Mamma e papà non potevano far altro che tentare di starci dietro.

    «Vuoi fare un quiz?», domandò lui.

    Feci spallucce, ma mio fratello capì che avevo voglia di stare al gioco.

    «Okay, voi due», disse nostra madre. «Tocca a me sparecchiare la tavola stavolta. Almeno tenetela pulita!».

    Io risi e Otis puntò il muso al soffitto e guaì insieme a noi. Ricordavo com’era quel suono: non troppo forte, una sorta di canzone ululata carica di furbizia e gioia, e oltre alla voce dei miei familiari era il suono che mi mancava di più. Feci il solletico a Otis sotto il mento mentre Jude mi faceva la prima domanda.

    Vinsi tre a due, ma acconsentii quando Jude mi chiese: «Al meglio di sette?». E ovviamente lo lasciai vincere. Lui lo sapeva, e forse proprio per questo festeggiò con ancora più entusiasmo. Finimmo col grattarci la testa a vicenda con le nocche mentre Otis ci saltellava intorno, spingendoci con il muso e abbaiando. Mamma entrò nella stanza per dirci di smetterla, ma io evitai i suoi occhi. Riuscii a dargli un’altra tirata d’orecchi prima di cogliere lo sguardo severo della mamma. Battei le palpebre, sorrisi e mi strinsi nelle spalle.

    Quella era stata forse l’ultima volta in cui io e Jude avevamo fatto la lotta per gioco. Come tante altre tappe importanti della vita, il momento passò inosservato. In seguito, riflettendo su quel pasto, avrei capito che era stato l’ultimo bel momento, in assoluto.

    Corsi per le scale verso la mia camera e verso il terribile e rumoroso futuro che ci attendeva.

    Adoravo i film horror. Papà aveva iniziato a farmi vedere alcuni dei suoi preferiti: La cosa, Alien, L’invasione degli ultracorpi, Shining. Mi piacevano, e mi piaceva ancora di più guardarli insieme a lui, godendomi il modo in cui si divertiva nel condividere i film che amava insieme alla sua bambina che stava diventando grande. Tuttavia, quando mi aveva detto che c’erano alcuni film che non ero ancora pronta per vedere, ovviamente li avevo cercati. Hostel, Saw, e tutta quella sfilza di film di torture in cui i personaggi venivano legati e tagliuzzati… li avevo guardati per una sorta di interesse morboso, ma niente di più. Non mi avevano davvero spaventata. A volte mi avevano disgustata. Li ritenevo più dei film scioccanti che degli horror e avevo capito che era molto più facile scioccare che turbare o terrorizzare. Tuttavia, avevo continuato a guardarli, a scovare altri horror oscuri, senza mai sapere bene perché ma felice di alimentare la mia passione.

    Quando entrai in camera mia, credetti di aver lasciato uno di quei film acceso sul lettore dvd. Ma nel giro di pochi secondi capii che non era così.

    Ciò che vedevo era reale.

    Per quanto realistici si sforzassero di essere i film che guardavo, c’era sempre la consapevolezza che si trattava di finzione. Questo mi creava un blocco nella mente, una sorta di pozzo dell’orrore del quale non ero del tutto conscia finché non assistevo al dolore vero, alla sofferenza autentica. Alcune scene del notiziario serale mi disgustavano e mi turbavano e dovevo comunque arrendermi a guardare almeno in parte la robaccia che guardavano online i miei amici. Decapitazioni, incidenti d’auto, morti e omicidi della vita reale. Sapevo che scene del genere mi avevano traumatizzato sul serio.

    Inoltre, ricordi dell’incidente sepolti nella memoria riaffioravano nei momenti più inaspettati.

    Mi ci volle qualche istante per rendermi conto di quanto stavo osservando. Un ammasso di carne rossa e sanguinolenta che penzolava da una fune, ondeggiando al minimo tocco. Sullo sfondo, i resti di un paio di teloni per tende da campeggio rovesciati a terra e su uno di essi una sagoma travolta e aggredita, che muoveva in fretta gli arti. Sembrava uno di quei giocattoli a molla che era stato caricato troppo.

    Battei le palpebre e mi sedetti sul letto. È il posto che stavo guardando prima. La grotta ora era fuori dall’inquadratura e la videocamera era ferma immobile, come se fosse stata sistemata su un treppiede. Le luci appese tra le tende ancora in piedi si agitavano a mezz’aria, proiettando ombre inquiete.

    Battei di nuovo le palpebre, come per resettare la vista. Tenni gli occhi chiusi per più tempo del normale, pensando: Che cosa sto guardando?.

    Quando li riaprii, qualcuno sbucò dal fitto degli alberi e cercò di entrare in una delle grandi tende. Qualcosa – una sagoma nell’aria, una macchia sullo schermo, forse persino un’immagine fantasma – seguì i malcapitati attraverso la radura. Non appena li toccò, quelli caddero a terra.

    Il cuore mi galoppava nel petto, battendo dolorosamente all’impazzata. Mi avvicinai allo schermo, ma le persone era molto lontane, nascoste dalle ombre tremolanti, e la vicinanza non fece altro che rendere l’immagine ancora più sgranata. Sembrava che stessero lottando. Il loro viso non era più bianco.

    Era rosso.

    Se si fosse trattato di un film horror, avrei riso per gli effetti speciali. Non riuscivo a vedere cosa stesse accadendo. Era tutto così confuso. Le sagome massacrate ora si contorcevano appena, come se stessero per esaurire le forze. La carne continuava a dondolare.

    Qualcosa si separò dall’oggetto appeso alla fune, da quelli che ormai avevo capito essere i resti di uno degli speleologi. Rimase lì aggrappata per un po’, un’immagine indistinta che sembrava spuntare dalla disgustosa massa rossa. Poi spiegò quelle che sembravano delle ali di pelle e volò via, fuori dall’inquadratura.

    «Mamma», mormorai. Non mi piaceva affatto ciò che vedevo. Era troppo reale.

    I sottotitoli erano ancora attivi, ma non era rimasto più nessuno che potesse parlare.

    «Porca puttana, porca puttana», borbottò Huw. Sudava freddo. I brividi gli solleticavano la pelle, scorrendogli lungo la schiena fradicia, le ascelle e i testicoli. Di qualunque cosa si trattasse, era tremendamente efficace. Premette di nuovo un pulsante sul telecomando e aggrottò la fronte. Discovery Channel. Di sicuro non avrebbero mai accettato di mandare in onda immagini del genere. Era un canale di scienza, una rete seria. Era novembre e Halloween era ormai passato da due settimane. «Porca puttana».

    Diverse sagome sfrecciarono dal basso dell’inquadratura, vorticando e virando verso il fitto degli alberi come grossi e spaventosi uccelli. Alzò il volume finché l’indicatore digitale sul televisore non segnò il numero cento, e la stanza si riempì di un assordante ronzio. Qualcosa frusciò, ma il suono svanì in fretta. Qualcuno correva, con un rumore di passi in lontananza che finì così com’era iniziato.

    Altre creature (uccelli, suppose, anche se c’era qualcosa di decisamente sbagliato in quella descrizione) sfrecciarono attraverso lo schermo, e una di esse andò a sbattere contro una delle tende ancora in piedi e sparì al suo interno.

    Furono le pause a convincerlo che era tutto vero. C’erano momenti di agitazione, per lo più fuori campo ma comunque udibili, e di tanto in tanto sprazzi di movimento nell’inquadratura. Tuttavia erano gli attimi di tranquillità tra un evento e l’altro (lunghi momenti in cui si udivano un lieve fruscio di foglie mosse dalla brezza, il brusio elettrico della tv a tutto volume, mosche e altri insetti che ronzavano intorno alla videocamera svolazzando in qua e in là a caso nella radura di quella sconosciuta foresta) a dare un vero senso di realismo alla scena.

    E poi c’era la cosa attaccata alla fune. Gli ricordava un’esca, un pezzo di carne rossa e sanguinolenta sospesa a una corda per fare da specchietto per le allodole. Tuttavia era ricoperta di resti di vestiti fatti a brandelli.

    «Dev’essere un film». Parlò ad alta voce per spezzare lo spaventoso silenzio, come per farsi coraggio.

    Si udì un singhiozzo. Il suono fu così inaspettato che Huw trasalì, guardandosi intorno nella stanza d’albergo che puzzava di piscio per vedere chi si fosse intrufolato in camera mentre era distratto.

    «Credo… che siano venuti da là», disse la voce. Era solo un bisbiglio spaventato, ma era senza dubbio la voce di una donna. «Credo…».

    Diverse sagome iniziarono a muoversi sullo schermo. Era come se fossero sospese a mezz’aria, sedute, o come se fluttuassero del tutto immobili, invisibili nella scena perché erano ferme come tutto il resto. Ma quando si mossero e la donna gridò, Huw ebbe modo di vederle bene per un secondo.

    Sembravano uccelli, ma più pallidi. Con ali membranose. E denti.

    Tutt’a un tratto l’immagine cambiò, ruotando e sfocandosi, e poi altre urla, forti e penetranti, riempirono la stanza, tanto che Huw si stropicciò gli occhi e si strinse la testa fra le mani. Cercò di controllare la propria incredulità, di fermare quel senso di orrore. Ma riusciva ancora a sentire, a vedere.

    La videocamera cadde su un fianco e la visuale fu ostruita per la maggior parte dall’erba alta. Poi qualcosa ricadde sulla videocamera, contorcendosi e tremando mentre le urla diventavano ancora più acute, più forti.

    L’immagine sfarfallò fino a oscurarsi. L’improvviso silenzio fu scioccante.

    Col respiro affannato, Huw alzò in fretta il telecomando e cambiò subito canale per cercare il notiziario.

    …cercando di costituire un governo conservatore di maggioranza per il prossimo semestre e ha ribadito il proprio impegno a rendere la Gran Bretagna una terra di opportunità. Il leader dell’opposizione ha scatenato una polemica contro il Primo Ministro, suggerendo che le sue politiche…

    Spense il volume e osservò il conduttore del telegiornale mentre dava notizie familiari, rassicuranti. Niente di orrendo, niente che comportasse sangue e grida. Politici che si insultavano a vicenda, uomini d’affari che lanciavano avvertimenti, celebrità che entravano in riabilitazione. Ridacchiò. «Porca puttana». Si era davvero spaventato. Che stupido.

    Ripensò alla possibilità di farsi un bel bagno, ma non lo allettava più come prima.

    «Mamma!». Corsi giù per le scale, ancora sazia dalla cena e vagamente nauseata al pensiero di ciò a cui avevo assistito. Avevo lasciato la tv accesa, con la scena che continuava ad andare in onda, ma non volevo più restare a guardare. Non da sola. «Mamma!».

    Otis trotterellò dal salotto ai piedi delle scale. Gli grattai la testa mentre lo superavo. Mamma e Lynne (mia nonna pretendeva che la chiamassimo con il suo nome di battesimo e ormai non ci sembrava più così strano) erano in salotto, entrambe con lo sguardo fisso sulla porta nel momento in cui entrai. Sorridevano, ma era un sorriso forzato e non capii bene perché. Il televisore lì era spento e sembrava che stessero solo chiacchierando e bevendo tè.

    «Ciao, Lynne», dissi, sorridendo.

    Lynne ricambiò il sorriso. Era una donna alta e magra o, come la definiva papà, compassata e precisa, e spesso guardandola era chiaro da dove venisse la grazia naturale di mamma. Ma quella sera aveva un’aria debole e stanca.

    «Che succede?», domandò mamma a gesti.

    «Qualcosa in tv. Su Discovery Channel, è stato orribile, qualcuno è stato ucciso e… Non lo so, c’era del sangue. In una caverna». Mi strinsi nelle spalle, senza sapere bene che altro dire. Continuavo a lanciare delle occhiate al grande schermo piatto del televisore appeso alla parete del salotto, come se temessi che l’immagine nera che vedevo fosse in realtà l’interno della grotta. Forse li sto guardando proprio in questo momento, pensai, d’un tratto turbata da un’idea che non capivo da dove mi fosse venuta. Lo schermo era spento, vuoto, e non buio. L’oscurità aveva una profondità.

    «Stai di nuovo guardando uno di quei tuoi

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