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Macchine cerebrali: Human++, #1
Macchine cerebrali: Human++, #1
Macchine cerebrali: Human++, #1
E-book391 pagine5 ore

Macchine cerebrali: Human++, #1

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Info su questo ebook

Ho miliardi sul conto in banca e possiedo una società di capitali di rischio: sto vivendo il sogno americano. L'unico problema? Un incidente d'auto in seguito al quale mia madre soffre di problemi di memoria.

La risposta a tutti i miei guai potrebbe essere rappresentata dai Cerebrociti, una nuova tecnologia in grado di trasformare i nostri cervelli, ma non sono l'unico a intuirne il potenziale.

Quando vengo gettato in un mondo criminale segreto, più oscuro di quanto avrei potuto immaginare, questa tecnologia salvavita potrebbe addirittura significare la mia morte.

Mi chiamo Mike Cohen, ed è così che sono diventato qualcosa di più di un umano.

LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2024
ISBN9781631429057
Macchine cerebrali: Human++, #1
Autore

Dima Zales

Dima Zales is a full-time science fiction and fantasy author residing in Palm Coast, Florida. Prior to becoming a writer, he worked in the software development industry in New York as both a programmer and an executive. From high-frequency trading software for big banks to mobile apps for popular magazines, Dima has done it all. In 2013, he left the software industry in order to concentrate on his writing career. Dima holds a Master's degree in Computer Science from NYU and a dual undergraduate degree in Computer Science / Psychology from Brooklyn College. He also has a number of hobbies and interests, the most unusual of which might be professional-level mentalism. He simulates mind-reading on stage and close-up, and has done shows for corporations, wealthy individuals, and friends. He is also into healthy eating and fitness, so he should live long enough to finish all the book projects he starts. In fact, he very much hopes to catch the technological advancements that might let him live forever (biologically or otherwise). Aside from that, he also enjoys learning about current and future technologies that might enhance our lives, including artificial intelligence, biofeedback, brain-to-computer interfaces, and brain-enhancing implants. In addition to his own works, Dima has collaborated on a number of romance novels with his wife, Anna Zaires. The Krinar Chronicles, an erotic science fiction series, has been a bestseller in its categories and has been recognized by the likes of Marie Claire and Woman's Day. If you like erotic romance with a unique plot, please feel free to check it out, especially since the first book in the series (Close Liaisons) is available for free everywhere. Anna Zaires is the love of his life and a huge inspiration in every aspect of his writing. Dima's fans are strongly encouraged to learn more about Anna and her work at http://www.annazaires.com.

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    Anteprima del libro

    Macchine cerebrali - Dima Zales

    CAPITOLO UNO

    La gigantesca siringa si avvicina al collo della mamma. Il nonno le stringe la mano e cerca di non guardare l’ago, grande come uno spadino, che buca la pelle di sua figlia.

    Misha mi dice mia madre in russo, fa male.

    Mi avvicino di un passo con i pugni serrati, fissando torvamente il chirurgo con la mascherina bianca.

    Perché proprio nel collo? chiedo.

    Non vedo alcuna traccia di empatia negli occhi riflessivi del medico. Mi chiedo sul serio se sia il caso di dargli un pugno in faccia, ma dato che distrarlo potrebbe peggiorare la situazione della mamma, decido di fare un bel respiro per calmarmi. Tuttavia, in questo modo non prendo altro che una boccata d’aria asettica e carica di Clorox.

    La sala operatoria è dotata di lampade chirurgiche dalla luce intensa e di apparecchiature mediche degne di una camera delle torture, disposte sadicamente tutt’intorno.

    Perché siamo circondati da questi oggetti spaventosi, se si tratta di una semplice iniezione? balbetto, osservando per la prima volta l’ambiente per intero.

    Le nocche del medico diventano bianche quando preme l’enorme stantuffo. Un disgustoso liquido grigio fuoriesce dalla siringa e penetra nel collo della mamma.

    Perché i nanociti devono essere distribuiti in un modo così terribile? chiedo, soprattutto per impedirmi di svenire.

    Non dovrebbe succedere dice il nonno in inglese.

    Il viso rotondo della mamma è contorto per l’orrore e la disperazione. L’avevo vista così solo una volta, quando un topo pelle e ossa era sgattaiolato nel salotto del nostro primo appartamento a Brooklyn. Proprio come quel giorno, un grido assordante prorompe dalla sua gola.

    Avanzo di un altro passo. Magari le staccherò di dosso quel medico.

    La zona calva in cima alla testa del nonno è rossa come un pomodoro e mi chiedo se sia sul punto di uccidere il medico con una scarpa, usando lo stesso colpo violento impiegato contro quel topo colpevole.

    Il medico si allontana da noi.

    Il grido della mamma si trasforma in gorgoglii, poi si spegne.

    Un liquido grigio inizia a sgorgare dalla sua bocca.

    Mi sento paralizzato.

    Lo stesso liquido fuoriesce dai suoi occhi, poi dal naso e dalle orecchie.

    Sono i nanociti! grido, pieno di orrore. Finalmente le mie corde vocali hanno ripreso a funzionare. Ma non è possibile che si stiano moltiplicando!

    La testa della mamma scompare, sostituita da una vaga forma liquida composta da quella porcheria grigia che si moltiplica. Con violenza, dopo un istante, anche il resto del corpo della mamma si trasforma nello stesso fluido grigio.

    Tra grida gorgoglianti, il nonno e il medico si fondono, trasformandosi in pozze di protoplasma incolore che si dibatte.

    Non ho ancora metabolizzato appieno la gravità di queste perdite, quando la sostanza scivola verso uno dei miei piedi.

    Un dolore atroce e lancinante si diffonde nel mio corpo e so che è colpa dei nanociti, che riducono la mia carne in molecole.

    Non può essere reale, è il mio ultimo pensiero. Dev’essere per forza un sogno.

    Mi alzo a sedere di scatto sul letto. Mi sono svegliato a causa di quelle morti raccapriccianti o della consapevolezza di sognare.

    La mia camera è più buia della tana di una talpa. Procedendo a tentoni, individuo il telefono sul comodino e attivo lo schermo.

    Quando i miei occhi si adattano e leggo l’ora, tengo a freno l’impulso di scagliare il cellulare contro la parete. Sarebbe come prendersela con l’ambasciatore di quel proverbio: momentaneamente terapeutico ma inutile. Sono le tre del mattino, probabilmente l’orario che preferisco meno da mezzanotte a mezzogiorno.

    Inspiro profondamente come mi aveva insegnato la mia ex fidanzata ossessionata dallo yoga e, incredibilmente, mi sento un po’ più tranquillo. La situazione non è così pessima, presumo. Se mi calmassi abbastanza da riaddormentarmi presto, potrei sonnecchiare per altre cinque ore ed essere probabilmente ancora attivo durante il giorno.

    Mi alzo e vado in bagno. Nel frattempo, l’aria condizionata trasmette una sensazione di gelo al mio corpo nudo, perciò la prima cosa che faccio è lavare via energicamente il sudore freddo.

    Il mio respiro si normalizza ancora di più.

    Mentre uso i servizi, mi rimprovero per essermi spaventato a causa di quell’improbabile scena onirica. Il nonno è morto da due anni, e perfino da vivo non aveva mai parlato un inglese impeccabile, o non lo parlava affatto. E poi, i nanociti che stiamo usando con la mamma sono di quel tipo che non si moltiplica ed è la ragione parziale per cui ogni dose costa un occhio della testa. La nanotecnologia futura, capace di replicarsi, si costruirà con le materie prime, perciò il suo prezzo sarà solo pari a queste ultime, ma non è il caso dell’attuale lotto sperimentale, e infine la procedura di iniezione non è invasiva e non richiede la presenza di un chirurgo e nemmeno di un medico. Quell’incubo era solo una manifestazione delle mie paure irrazionali.

    Adesso ho solo bisogno di dormire. Come recita uno dei detti russi preferiti della mia famiglia, ‘il mattino è più saggio della sera’.

    Con uno sbadiglio, torno a letto e mi addormento non appena poggio la testa sul cuscino.

    CAPITOLO DUE

    Una cura per la demenza e l’Alzheimer? Gli occhi grigi di zio Abe sono carichi di eccitazione, come spesso succede a quelli di mia madre.

    Non è proprio una cura rispondo, proprio mentre Ada dice: È più che altro un trattamento per i sintomi.

    Che carini commenta zio Abe in russo. La tua fidanzata termina già le frasi al posto tuo.

    Come se avesse capito quelle parole in russo, il viso di Ada si accende grazie a un sorriso birichino.

    Non siamo una coppia lo informo in russo.

    Non ancora? Mi strizza l’occhio con l’aria di chi la sa lunga.

    Non è educato parlare in russo in presenza di Ada dico in inglese.

    Per me non c’è problema replica lei. Ormai è rimasta soltanto l’ombra di un sorriso ai lati dei suoi occhi, che la rende simile a una versione teppista della Gioconda.

    Ti chiedo scusa, comunque le dice zio Abe, il cui accento addolcisce la pronuncia di alcune lettere.

    Mentre attraversiamo placidamente il corridoio dell’ospedale, Ada ci precede. È una tipica abitante di New York: sempre irrequieta e multitasking. La squadro furtivamente, soffermandomi su uno dei punti che preferisco in lei: quello speciale tra le suole dei suoi stivali Dr. Martens e i capelli appuntiti.

    Ada mi lancia un’occhiata, girata di profilo, e per un secondo i suoi occhi del colore dell’ambra incrociano i miei. Ha percepito che la stavo guardando come un allocco? Prima che io abbia il tempo di provare imbarazzo, si ferma davanti a una porta verde e dice: La stanza è questa.

    Entriamo tutti e tre.

    A differenza del mio sogno, non si tratta di una sala operatoria. È spaziosa, con grandi finestre e allegre piante in fiore sui davanzali. A prima vista, mi ricorda il mio elegante loft di Brooklyn... se si usasse il sogno erotico di uno scienziato pazzo come ispirazione per il design d’interni.

    I membri del personale della Techno, la mia azienda portafoglio che ha progettato il trattamento, sono già in fondo alla stanza. La mamma è seduta su una poltrona operatoria e indossa un camice bianco da ospedale, collegata grazie ad una sovrabbondanza di cavi a una miriade di strumenti di monitoraggio all’avanguardia. A completare il suo abbigliamento c’è una cuffia, un aggeggio che proviene direttamente dal vecchio film Total Recall - Atto di forza. Dev’essere ‘la tecnologia di scansione neurale portatile più recente’ di cui JC, amministratore delegato della Techno, mi aveva parlato. Mi appunto mentalmente di spiegargli il significato della parola portatile.

    Sento qualcuno dire ciao nell’angolo più remoto della stanza. Evidentemente, quella persona era nascosta dietro la parete di server e monitor giganteschi. Gli altri dipendenti della Techno continuano a lavorare in silenzio, ma non si capisce se non mi abbiano sentito entrare o se siano asociali.

    A molte persone della Techno gioverebbe un miglioramento delle abilità sociali. Uno psichiatra potrebbe persino etichettare alcune di loro come affette da Asperger-borderline. Personalmente, trovo queste etichette ridicole. La psichiatria può talvolta essere scientifica e utile quanto l’astrologia... in cui non credo, nel caso in cui non fosse chiaro. Alle scuole superiori, uno strizzacervelli aveva cercato di etichettarmi come affetto dalla sindrome di Asperger perché avevo ‘pochissimi amici’. Se si fosse basato sul posto dove gli avevo detto di ficcarsi la sua diagnosi, avrebbe anche potuto dedurre che fossi affetto dalla sindrome di Tourette, ma d’altro canto, forse me la sto ancora prendendo con la psichiatria e la neuropsicologia perché alla mamma sono servite ben poco. L’unica cosa buona che potrei dire sulla psichiatria è che almeno non viene più usata la lobotomia come forma di trattamento.

    Mi guardo intorno alla ricerca di JC. Non si vede da nessuna parte, perciò sarà in una stanza simile con un altro partecipante allo studio.

    Mia madre gira la testa verso di noi, apparentemente in grado di farlo nonostante quel copricapo.

    Mi si stringe il cuore per il terrore, come sempre quando io e la mamma ci vediamo dopo essere stati lontani l’uno dall’altra per più di un giorno. A causa dell’incidente che le ha provocato danni al cervello, è possibile che un giorno mi guardi senza riconoscermi.

    Oggi lo fa, è evidente, poiché mi rivolge quel tipico sorriso accompagnato dalle fossette sulle guance che abbiamo in comune. Ciao, pesciolino dice in russo, prima di guardare suo fratello. Abrashkin, coniglietto, come stai?

    La mamma ha appena usato con noi dei vezzeggiativi russi intraducibili mormoro ad alta voce a Ada, salutando con un gesto il personale sempre disinteressato in fondo alla stanza.

    La mamma guarda Ada senza riconoscerla e dentro di me sospiro. Si sono già viste due volte.

    Chi è questo ragazzo? mi chiede la mamma in inglese. Uno stagista della Techno o altro?

    Non è un ragazzo e si chiama Ada rispondo, sforzandomi di non ricorrere al tono di voce di chi parla con un disabile, cosa di cui la mamma si risente profondamente. Non è una stagista, ma una delle persone che hanno programmato i nanociti grazie ai quali starai meglio.

    Piacere di conoscerla, Nina Davydovna dice Ada, come se non fosse già successo in passato.

    Mia madre solleva le sopracciglia per il suono giovanile della voce di Ada, simile a una campanella, oppure per l’uso corretto del patronimico russo, tuttavia si riprende in fretta proprio come l’ultima volta, e sempre come quel giorno dice: Chiamami Nina.

    Lo farò. Grazie, Nina risponde Ada.

    Mi rendo conto che c’è un motivo se Ada ha parlato con mia madre in modo così formale – per ridurre il suo stress – così le rivolgo un cenno di ringraziamento. Ovviamente, se Ada avesse voluto compiere un ulteriore sforzo, avrebbe potuto indossare abiti diversi o cambiare acconciatura per eliminare ogni confusione della mamma sul suo genere, ma in fin dei conti la confusione della mamma potrebbe essere dovuta al suo disturbo, perché per me, nonostante la giacca di pelle e la felpa nera con il cappuccio che nascondono gran parte del corpo, Ada è l’incarnazione della femminilità.

    È la sua ragazza? chiede la mamma a zio Abe in russo con aria cospiratoria. Ci siamo già incontrate?

    Non ne sono sicuro, sorella risponde lui. A giudicare dal modo in cui lui la guarda, credo che sia solo questione di tempo prima che diventi una relazione.

    Ah sì? ridacchia la mamma. Secondo te, lei è ebrea?

    Il sangue affluisce alle mie guance e non solo per la questione ‘ebrea o no’. È diventata importante per la mamma solo dopo l’incidente, a meno che non l’abbia sempre considerata, iniziando però ad esprimerla dopo che il danno cerebrale l’ha resa più disinibita. Di certo i miei nonni parlavano spesso di questi argomenti, arrivando addirittura a criticare la situazione con mio padre perché era non-ebreo, che per me equivale a un antisemitismo al contrario.

    È un caso infelice, ma il loro atteggiamento fu forgiato nell’Unione Sovietica, dove il fatto di essere ebrei veniva associato a un’etnia e usato come scusa dal governo per discriminarli. Poiché l’etnia di una persona era scritta nel famigerato quinto paragrafo del passaporto, la discriminazione era comune e inevitabile. Mia madre fu allontanata dalla prima università che aveva scelto perché era stata già raggiunta ‘la quota di tre ebrei’. Faticò a trovare un lavoro nel campo dell’ingegneria finché non l’aiutò mio padre, che però in seguito la molestò sessualmente e la lasciò sola con il compito di crescermi. Perfino io vissi questa esperienza negativa prima di partire. Quando i miei compagni di classe in seconda media avevano saputo delle mie origini grazie al giornalino scolastico, mi avevano detto che tra gli occhi azzurri e i capelli biondi (che col tempo sono diventati castani) non assomigliavo affatto a un ebreo. Anche se usavano il termine dispregiativo in russo, loro lo consideravano un grande complimento.

    Ciò che rende questo tema ancora più strano è che in America, dove il giudaismo è una religione piuttosto che un’etnia, improvvisamente non siamo poi così tanto ebrei. Intendo, come possiamo esserlo, se ho scoperto l’Hanukkah a sedici anni e se ieri sera ho mangiato una coda di aragosta alla griglia, molto poco kosher e avvolta nel bacon?

    Sì, ho scoperto anche il significato di kosher a sedici anni.

    In ogni caso, non me ne importa un fico secco se Ada è ebrea o meno... anche se, per la cronaca, con un cognome come Goldblum sarà probabilmente ebrea. Non so nemmeno cosa significhi per lei quel termine, dato che è laica quanto me. Credo che il problema principale della domanda della mamma sia semplicemente il fatto che detesto le etichette applicate ai gruppi di persone, soprattutto quelle con un bagaglio del genere alle spalle.

    Difficile dirlo continua zio Abe dopo aver esaminato il naso grazioso di Ada, focalizzandosi sul piercing alla narice. Con quei capelli, di sicuro non è russa.

    Rieccoci, un’altra etichetta. Per i miei nonni il termine russo era intercambiabile con cristiano o gentile, ma non credo che mio zio lo stia usando in quel contesto. Anche se in Russia eravamo ebrei, qui negli Stati Uniti siamo russi, cioè come tutti coloro che parlano russo e provengono dall’ex Unione Sovietica. Immagino che mio zio stia dicendo che Ada non sembra provenire dall’ex Unione Sovietica, dal momento che ciò significherebbe di solito vestirsi e curarsi in un certo modo, almeno per gli immigrati recenti.

    Decido di interrompere questa conversazione, ma prima di riuscire a intervenire, la mamma dice: Quand’ero giovane, quel taglio di capelli veniva soprannominato ‘un’esplosione alla fabbrica di spaghetti’.

    Ridono entrambi e perfino io non trattengo una risatina. Conosco il taglio a cui si riferisce la mamma: risale agli anni Ottanta e potrebbe essere un lontano antenato di ciò che ha Ada in testa. Quelle punte aguzze e schiarite la rendono simile a un porcospino con uno stile ‘alla moicana’, un’immagine resa ancora più vivida dal suo spirito pungente.

    La porta della stanza si apre ed entra un’infermiera.

    Mi si alza la pressione sanguigna vedendo il suo camice, ma non so bene se si tratti della solita ipertensione da camice bianco o di un flashback dell’incubo che avevo avuto. Probabilmente è il primo caso. Quand’ero giovane, non c’era anestesia negli studi dentistici sovietici, perciò ho sviluppato una reazione condizionata a ogni tipo di indumento simile a quello di un dentista. Qualsiasi individuo con un camice bianco mi suscita una reazione simile a quella che proverebbe chi soffre di coulrofobia, la paura irrazionale dei pagliacci, di fronte a un documentario di John Wayne Gacy sul film It.

    L’infermiera si avvicina alla mamma e prende una grossa siringa posizionata furtivamente vicino alla poltrona di quest’ultima.

    I dipendenti della Techno in fondo alla stanza trattengono il fiato all’unisono.

    L’infermiera non sembra capire i buoni auspici della situazione. Appare desiderosa di terminare il proprio compito per passare a qualcosa di più interessante, per esempio guardare un po’ di ostruzionismo parlamentare su C-SPAN. Sulla sua targhetta c’è scritto ‘Olga’. Questo dettaglio, insieme al suo taglio di capelli risalente alla fine degli anni Ottanta e agli zigomi slavi, attiva il mio radar russo... altrimenti abbreviato in Rudar. È come ‘gaydar’, ma per individuare chi parla russo.

    Scommetto che la mamma si sente offesa per il fatto che l’ospedale le abbia assegnato un’infermiera: ciò implica che abbia bisogno di aiuto per capire l’inglese. Essendosi laureata in Ingegneria Elettrica dopo il trasferimento negli Stati Uniti verso i trentacinque anni, la mamma va orgogliosa – e a ragione – delle sue competenze nella lingua inglese, competenze che l’incidente non ha intaccato.

    Nel silenzio, sento il respiro corto della mamma. La sua paura nei confronti dei medici è addirittura più acuta della mia.

    Olga afferra la siringa e alza la mano.

    CAPITOLO TRE

    Zio Abe distoglie lo sguardo. Sono tentato di imitarlo, ma preferisco non farlo.

    Con mio sollievo, Olga non punta la siringa verso il collo della mamma, ma la collega all’apertura sotto la sacca della terapia endovenosa. Ha senso, dato che è il modo più semplice per accedere alla vena.

    La realtà si dissocia ulteriormente dal mio incubo, mentre osservo il liquido trasparente che trasporta i nanociti e noto il fatto che la mamma non batte ciglio durante l’intera procedura. E lei si basa su sensi amplificati dalla paura, perciò, se avesse avuto motivo di fare una smorfia, sarebbe successo e probabilmente avrebbe anche gridato.

    Le persone che esaminano i monitor mormorano tra loro, ma nessuno sembra avere un tono allarmato. L’aria è satura di eccitazione.

    L’infermiera controlla due volte i parametri vitali e assume un’espressione simile a quella del Grinch. Poi, con un accento russo che conferma i sospetti del mio Rudar, dice: Sono in zona, se avete bisogno di me.

    Senza aspettare risposta, esce dalla stanza.

    Come va? chiedo alla mamma.

    Si stringe nelle spalle, chiaramente sopraffatta da tutta quest’attività.

    Andrà tutto bene, Nina dice Ada. Ne sono certa.

    Ho letto innumerevoli rapporti e studi su questo trattamento, quindi devo essere fiducioso quanto Ada, ma mi preoccupo perché, come recita quella poesia, ho una madre soltanto.

    Provo un lieve bruciore al braccio commenta la mamma. Ma non dà molto fastidio.

    È normale con le iniezioni endovenose. Ada giochicchia con la borchia d’argento del piercing che le perfora due punti della cartilagine dell’orecchio. Sarebbe stato peggio se il liquido fosse stato iniettato tutto in una volta sola. Poteva subentrare un senso di nausea.

    Mi chiedo dove Ada abbia appreso tutte queste informazioni mediche. Ha studiato software, come me, ma non scrivo una riga di codice da una decina d’anni, mentre lei è la programmatrice più geniale che io conosca, e vuol dire molto. Come parte del mio lavoro, incontro tantissimi softwaristi di talento, per non parlare del fatto che il mio migliore amico è un appassionato di tecnologia.

    Come leggendomi nel pensiero, Ada dice: Ero nella stessa stanza con alcuni altri partecipanti, perciò so cosa aspettarmi.

    Questo è l’ennesimo esempio dello strano comportamento di Ada in mia presenza, iniziato quando avevo rotto con la mia ex alcuni mesi fa. Allude forse al fatto che disapprova la mia apparente mancanza di interesse nei confronti degli altri partecipanti? In tal caso, potrebbe anche avere ragione, ma deve capire che tutto questo – investire molto denaro mio e del mio fondo di capitale di rischio nella Techno, coinvolgere i miei amici esperti del settore nella ricerca e nello sviluppo dei Cerebrociti – serve ad aiutare mia mamma. O almeno, questa è la mia motivazione principale. Ovviamente mi rallegra sapere che questa tecnologia porterà grandi vantaggi anche ad altra gente, ma spero che Ada possa perdonarmi se mi concentro sulla persona più importante della mia vita.

    Come vanno le cose? chiede Ada a voce abbastanza alta da non essere ignorata dalle persone in fondo alla stanza.

    David, che fa parte del mio esercito di ingegneri della Techno, alza il pollice, dicendo: Finora tutto bene.

    Ada risponde con un cenno del capo, poi mi guarda. Non preoccuparti dice. Nina è ancora destinata a essere la prima partecipante che proseguirà con la Fase Uno.

    A quanto pare, il mio sospetto era fondato: Ada dev’essere indispettita dalla mia mancanza di interesse nei confronti degli altri. Quando mi sarò accertato che la mamma stia bene, magari farò visita ad alcuni degli altri partecipanti, a partire dalla signora Sanchez.

    Cos’è esattamente questa terapia? chiede zio Abe, sedendosi sul divano, l’unica superficie non coperta da cavi.

    Ada guarda mia madre, che non risponde, facendomi pensare che abbia dimenticato i dettagli del trattamento. Normalmente ne rimarrei turbato, ma dato che stiamo facendo qualcosa proprio adesso per risolvere il problema, rimango ottimista.

    Quel liquido contiene Cerebrociti spiega Ada quando è sicura che né io né mia mamma vogliamo intervenire per primi. Sono il prodotto che stiamo testando.

    Mio zio e purtroppo anche mia mamma la guardano inespressivi, poi quest’ultima parafrasa un proverbio russo sul fatto che saranno presto le uova ad insegnare alla gallina.

    Okay, ricomincio daccapo dice Ada e si siede dall’altra parte del divano. I Cerebrociti sono un tipo di nanociti, progettati per penetrare nella barriera ematoencefalica e creare l’interfaccia cervello-computer, o BCI, più potente mai esistita.

    La loro inespressività non cambia, perciò dice: Cosa sapete della nanotecnologia e delle neuroprotesi?

    Di fronte alla parola nanotecnologia, gli occhi della mamma si illuminano nel riconoscerla. Quando terminai i corsi universitari la prima volta, lavorai in un posto dotato di un microscopio a scansione tunnel, perciò si parlava spesso dell’idea delle macchine molecolari, soprattutto dopo che erano diventate disponibili le traduzioni del lavoro di Eric Drexler.

    Perché ho la sensazione che mi pentirò della mia domanda? mormora zio Abe.

    A sua difesa, bisogna dire che avrà sentito la mamma parlare del suo vecchio lavoro più spesso di quanto non abbia fatto io. Quel vecchio lavoro è strettamente legato alla vicenda che riguarda mio padre, perciò quei ricordi sono come dinamite emotiva per la mamma. Intuendo che mio zio sta per dire qualcosa che potrebbe turbarla davvero, lo fermo abbandonandomi sul divano tra lui e Ada.

    Sorrido a mia madre, dicendo: Il modo più semplice per spiegare i Cerebrociti è questo: sono una serie di minuscoli robot. In questo momento vengono trasportati dal tuo flusso sanguigno al cervello, dove si collegheranno ai neuroni e consentiranno ogni tipo di interazione interessante.

    L’espressione che assume zio Abe è la stessa che vidi quando provò l’uni sushi e scoprì che uni in giapponese si riferiva alle gonadi di un riccio di mare. Quando vince la sua battaglia interiore contro la nausea, commenta: Sembra piuttosto invasivo e spaventoso, ma se c’è qualcuno disposto ad accettare un trattamento di questo tipo, è la nostra Nina.

    È vero. La mamma è più avventurosa di suo fratello sotto molti aspetti, compresa la scelta dei cibi. Lei adora l’uni.

    Percepisco Ada irrigidirsi sul cuscino del divano, come se si stesse preparando a passare all’azione. Non mi stupisce. L’argomento affrontato da mio zio è il suo tasto dolente.

    Non è affatto invasivo replica in un tono che si avvicina pericolosamente alla condiscendenza. A Nina viene fornita l’interfaccia neurale più sicura del suo genere. Dato che non richiede l’apertura del cranio, come altre tecnologie simili, si evita il rischio di infezioni, per non parlare della perdita di liquidi cerebrospinali...

    Non è la prima volta che qualcuno tenta di lavorare direttamente col cervello intervengo, prima che Ada possa stendere mio zio con un trattato tecnico. I malati di Parkinson e di epilessia ricevono già dei pacemaker cerebrali speciali. Altri prodotti sul mercato, per esempio gli impianti retinici, consentono ai ciechi di recuperare una capacità visiva basilare, mentre gli impianti cocleari consentono ai sordi di recuperare l’udito. Alcuni impianti trasformano i pensieri in comandi informatici, così i pazienti quadriplegici possono controllare le protesi agli arti. I Cerebrociti possono sostituire tutti questi dispositivi impiantati nel cervello e, come stava dicendo Ada, in un modo molto più sicuro.

    Capisco dice zio Abe, ma a giudicare dal suo tono di voce, dubito che sia così.

    Fingendo di volergli dare altre spiegazioni, proseguo a beneficio della memoria difettosa della mamma. I Cerebrociti sono l’hardware. Si installeranno in tutto il cervello della mamma e in seguito potremo usare il software adatto – indico Ada con la testa, riconoscendo il suo ruolo chiave nella creazione delle app e delle interfacce necessarie – per curare il suo disturbo tramite la stimolazione dei neuroni corretti in aree attentamente selezionate del cervello, il tutto con l’aiuto di supercomputer esterni. L’idea è quella di simulare le aree cerebrali per integrare qualsiasi funzionalità nelle parti gravemente danneggiate.

    Ada sospira, poi mormora qualcosa sottovoce, che più o meno significa: Quindi devi banalizzare l’argomento fino a questo punto per renderlo accessibile agli investitori?

    Scusa. Le do una gomitata leggera. Vuoi provare a spiegare la Fase Uno a mio zio? Sono sicuro che tu possa affrontarla senza insultare l’intelligenza di nessuno.

    Non c’è problema risponde, soprattutto perché la Fase Uno è molto facile da spiegare. Lavoreremo principalmente con i neuroni responsabili della vista, in particolare quelli all’interno del flusso ventrale. Il mio pacchetto di servizi di Overlay Informativo della Realtà Aumentata richiamerà l’API di Einstein...

    Zio Abe ridacchia, interrompendola, e perfino gli occhi della mamma appaiono vitrei. Nonostante le prodigiose capacità cognitive di Ada, adattarsi al tipo di pubblico non è il suo forte.

    Con un sospiro di sconfitta, dice: Perché non ci provi tu, Mike? Nel frattempo, mi renderò utile controllando i monitor.

    Si alza e raggiunge l’altro lato della stanza strascicando i piedi.

    Distogliendo lo sguardo dai suoi jeans neri attillati, dico: "Ada ha azzeccato un punto: la Fase Uno è davvero semplice da spiegare, soprattutto rispetto alle altre fasi. In parole povere, vedrete delle caselle di testo sospese nell’aria, come le nuvolette di pensiero dei cartoni animati o quelle di dialogo dei fumetti. Queste note vi verranno fornite da un’intelligenza artificiale avanzata chiamata Einstein, simile a Siri nel tuo telefono – guardo la mamma – o a Cortana nel tuo – guardo mio zio – ma mille volte più versatile e molto più intelligente. Comunque, mamma, Einstein è stato progettato dal mio amico Mitya. Ti ricordi di lui, vero?"

    risponde lei in russo e vedo il sorriso grato che esprime sempre quando la sua memoria funziona a dovere. È proprio un bravo ragazzo e per di più è un bambino prodigio.

    Se lo dici tu rispondo, provando un pizzico di gelosia di fronte alla spudorata ammirazione di mia madre per il mio amico. Pur avendo un’altissima opinione delle mie capacità mentali, la mamma si lascia condizionare dalle persone il cui lavoro sfocia in prodotti concreti. Lei le definisce ‘fattive’. Di conseguenza, ammira i maghi del software come Ada e Mitya perché può vedere le app che scrivono. Poiché io mi limito ad investire denaro nelle aziende, non sono una persona fattiva e quindi non è altrettanto orgogliosa di me. Non importa se, senza di me, molte persone fattive non potrebbero mai piazzare le proprie idee sul mercato.

    Non hai visto la dissolutezza a cui ha preso parte il tuo valente Mitya al MIT le dico, interrompendomi quando mi rendo conto di aver quasi incriminato me stesso. La mamma potrebbe dedurre correttamente che, essendo stato il compagno di stanza di Mitya, ero coinvolto anch’io in quella dissolutezza.

    Tutti fanno qualcosa di stupido nelle università americane replica, cogliendo al volo l’opportunità di vantare la sua esperienza personale con questa

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