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E-book325 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Dall'autrice del bestseller Ho scelto te

È un giorno come tanti quando all'improvviso la vita di Alain Bercher, giovane specializzando in Medicina, viene sconvolta. La morte improvvisa di un paziente lo induce a credere di non poter più proseguire con i suoi studi, tradendo così le aspettative della famiglia. Ma proprio quel giorno Alain incontra una donna misteriosa sul ponte del fiume Limmat. Lei è bellissima e fredda come una dea. I due scambiano solo poche parole eppure per Alain quello sarà l'inizio di una lunga discesa che lo porterà a fare i conti con la parte più buia della propria anima. Chi è Isabel? Che cosa nasconde? Fin dove lo porterà il folle amore per lei? 
Giulia Ross
è nata a Milano nel 1981. Si è laureata in Biotecnologie e ha proseguito i suoi studi con un dottorato di ricerca in Immunologia. Insieme al suo amore per la scienza coltiva da sempre le sue due grandi passioni: la musica e la scrittura. La Newton Compton ha pubblicato con successo Ho scelto te e Una notte per non dimenticarti, e in ebook Giochi pericolosi, Destini incrociati e Ai tuoi ordini.
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2017
ISBN9788822716064
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    Anteprima del libro

    Ai tuoi ordini - Giulia Ross

    Capitolo 1

    Distruzione

    Zurigo, settembre 2019

    «Politrauma in arrivo!».

    «Spostate quelle barelle, lasciateci passare, per Dio!».

    «Ted, chiama Michael! Una costola rotta deve aver perforato la pleura, il ragazzo non respira più!».

    «Che diamine gli è successo? Incidente d’auto?»

    «No… è stato vittima di un pestaggio…».

    «Santo cielo… Ma che cosa gli hanno fatto? E da dove viene tutto questo sangue?»

    «In sala operatoria, presto!».

    Luce.

    Luce.

    Luce!

    Sono colpito da una luce accecante. La sento attraversarmi la pelle, così intensa da bruciare. Cerco con tutte le forze di aprire gli occhi. Inizialmente il mio campo visivo si limita a una linea sottile straordinariamente brillante. Le palpebre pesano come due pietre.

    Dopo diversi minuti riesco a mettere a fuoco qualcosa. Vedo un soffitto bianco. Pareti bianche. Un letto che non conosco.

    Dove mi trovo?

    «Alain?».

    Mamma?

    Cerco di girarmi verso la voce che ho appena sentito, ma avverto immediatamente un fortissimo dolore alla testa.

    «Alain, non muoverti! Non muoverti, ok? Respira, tesoro mio. Oh Dio… Che cosa ti hanno fatto? Chi ti ha ridotto così?».

    Lei… Lei mi ha ridotto così.

    «Signora Bercher, la prego, mi segua nel mio studio». Un’altra voce: è profonda e ha un forte accento inglese.

    «Dottore, si tratta di mio figlio! Voglio sapere che cosa gli hanno fatto… Devo parlargli subito! Mi lasci! Mi lasci, ho detto!».

    «Mamma…», sussurro. Mi sembra di avere la gola piena di chiodi.

    «Tesoro… Tesoro mio, allora riesci a sentirmi?». Si sporge verso di me. Riesco finalmente a vedere i suoi occhi color ambra, che nell’istante in cui incontrano i miei si riempiono di lacrime. Dalla mia bocca esce un altro rantolo pietoso. Sì, ti sento.

    «La prego, signora Bercher. Alain ha bisogno di riposare. Mi segua». Non so a chi appartenga la seconda voce nella stanza, ma percepisco comunque una certa impazienza. Il secco rumore di tacchi che si allontanano segna la dipartita di mia madre e dello sconosciuto.

    Di nuovo solo, cado in un sonno senza sogni.

    Zurigo, ottobre 2019

    «Colui che si arrende è sempre il più forte, Alain».

    «Cosa?»

    «Chi si arrende non è schiavo del suo orgoglio… o del rancore».

    «Allora perché fa così male?»

    «Perché tutti vogliono l’amore, ma nessuno desidera pagarne il prezzo».

    «Io… Io non volevo l’amore… Io desideravo soltanto te, Isabel…».

    «Alain, puoi seguire la punta della mia penna?». Alzo lo sguardo, anche se ho le palpebre ancora maledettamente gonfie. Scruto negli occhi il dottor Robert Smith: sono neri e profondi. Con il suo sorriso da rivista patinata, lui mi incita a continuare il test. Obbediente, seguo la punta della stilografica mentre si muove lentamente da destra a sinistra.

    «Bene», dice dopo aver ripetuto il gesto un paio di volte. «Adesso controlliamo il torace. Senti ancora molto male, qui?». Mi sfiora la benda che copre i punti dell’operazione. Faccio segno di sì. Robert sospira triste. «Va bene, in fondo è ancora presto. Le ferite sulla schiena e sull’addome stanno guarendo molto bene. Anche le tue labbra sono meno gonfie. Per gli occhi temo ci vorrà un po’ più di tempo». Si avvicina al mio viso, come a volerne valutare meglio le condizioni. Mi sfiora gentile, con le dita lunghe e fredde. Poi, attento a non farsi sentire da mia madre, sussurra: «Hai cicatrici su tutto il corpo. Alcune sembrano vecchie di mesi… Queste, ci scommetterei, sono bruciature di sigaretta. Gli altri segni invece… Frustate? Chi ti ha fatto tutto questo, Alain?».

    Non rispondo. Il respiro di Robert è vicino: ne apprezzo il calore e il leggero profumo di collutorio alla menta. Di colpo chiudo gli occhi, sperando che il dottore smetta di farmi domande, e la mia anima cade nell’inferno di ricordi che brucia vivo dentro di me. Le immagini di quella notte ormai lontana si fanno vivide quasi come se potessi toccarle. Sento il rumore del cuoio che lacera la mia pelle, il dolore lancinante di ogni colpo, la voce del mio aguzzino che mi insulta e che, allo stesso tempo, mi implora di amarlo. Di’ che mi ami… Di’ che mi ami, bastardo! Io sono perfetto per te. Sono perfetto e tu sarai mio!

    Spalanco le palpebre all’improvviso e mi specchio ancora una volta nello sguardo preoccupato del dottor Smith. Trattengo tutti quei pensieri dentro di me.

    «Alain?».

    Tremo ma non posso parlare. Lei me lo ha ordinato, e anche se decidessi di venire meno alla promessa, non riuscirei a confessare nulla di ciò che custodisco ora nel mio cuore. Il silenzio è tutto quello che mi è rimasto per proteggermi dalla commiserazione e dalla mia stessa vergogna. No, non posso cedere!

    «Ok, Alain. Magari ne riparliamo domani», dice il dottore arrendendosi. Non appena Robert lascia la stanza, mia madre torna a sedersi di fianco al letto. Indossa il suo completo rosa preferito, un colore che un tempo mi faceva tenerezza e che oggi quasi mi infastidisce. È molto stanca e triste.

    «Sono passate tre settimane, Alain», sussurra stringendo una delle mie mani tra le sue. «Perché ti ostini a non dire niente?». Un singhiozzo la scuote. «Il tuo silenzio sta innervosendo tuo padre. E sta mettendo a dura prova anche i miei di nervi…». Si affretta ad asciugarsi gli occhi con un fazzoletto già sporco di rimmel. «Devi dire ai dottori chi ti ha ridotto in questo stato. Devi farlo, hai capito?».

    Non lo farò mai! E per quanto riguarda mio padre… be’, che si fotta!

    Smetto di ascoltarla contrariato e mi volto verso la finestra. Mentre mamma continua il suo monologo, ammiro il giardino della costosa clinica dove sono stato rinchiuso per volere di Victor Bercher. Osservo le file di pini che si ergono maestosi, le siepi curate a delimitare il perimetro esterno e la fontana di pietra lucida a forma di angelo: è tutto così pulito e tranquillo. Pulito come lo ero io prima di conoscere Isabel.

    «Alain, guardami», sbotta mia madre all’improvviso. Sono costretto a darle retta. «Voglio che i responsabili di tutto questo siano puniti. Chiunque essi siano. Voglio che parli con i dottori o con la polizia perché… perché…». Non riesce di nuovo a trattenersi e scoppia in un pianto straziante. È il terzo della settimana. Ed è del tutto inutile. Io non parlerò con nessuno, consumasse anche tutte le lacrime che ha!

    Dopo qualche minuto, di fronte alla mia indifferenza, Viviane Faije smette di singhiozzare. Mi bacia sulla guancia, inondandomi del suo Âme Noire dal retrogusto di gelsomino. «Ti voglio bene, tesoro mio». Poi mi accarezza i capelli, ma il suo tocco amorevole non mi dà alcun sollievo. Nessuno può placare il mio dolore. Forse le ferite sul corpo guariranno con il tempo, ma la mia anima… quella resterà martirizzata per sempre.

    Zurigo, novembre 2019

    «Buongiorno!».

    Sussulto spaventato. Qualcuno ha interrotto bruscamente il mio sonno e ora sta armeggiando con le serrande automatiche. La stanza è in penombra e non vedo di chi si tratta ma sta decisamente facendo un gran chiasso per i rigidi standard della clinica.

    «Ma perché diamine le tiene così abbassate, queste? È una magnifica mattina d’autunno lì fuori!», si lamenta la voce femminile. Finalmente, chiunque sia, riesce a trovare il tasto giusto sulla parete e le serrande si alzano lasciando entrare gradualmente nella stanza la luce del mattino. «Così va meglio, non trova? Viviamo già metà della nostra vita vagando nel buio totale. Godiamoci un po’ di sole, quando si fa vedere qui a Zurigo». Metto a fuoco la ragazza minuta che sta di fronte a me. Ha lunghi capelli neri, gli occhi di uno straordinario castano dorato e la faccia tempestata di lentiggini. Un orsetto giallo di peluche le spunta dal taschino del camice proprio sopra al cuore. Per un attimo ho quasi voglia di sorridere. Gli occhi della sconosciuta si specchiano nei miei, altrettanto curiosi. Ci studiamo per qualche istante in silenzio, con in sottofondo solo il ronzio dell’aria condizionata. Lei si concentra sul mio viso e sembra un po’ sorpresa, almeno quanto lo sono io del suo inaspettato arrivo. Non è la mia solita infermiera. Dove è finita Alena?

    Come se mi avesse appena letto nel pensiero, la sconosciuta sorride amichevole.

    «Mi chiamo… Mi chiamo Lucinda Warren, ma tutti mi chiamano Cinda», esordisce porgendomi la mano. Guardo quelle dita con distacco. Rifiutando in silenzio la sua stretta, mi volto verso la finestra. Devo ammetterlo però, la signorina Warren ha ragione: il timido sole autunnale illumina gli aghi di pino ancora imperlati di lucide gocce di pioggia e tutto il giardino brilla come fosse fatto di cristallo. È bellissimo.

    «Sostituirò Alena per il prossimo mese», dice Lucinda ritirando la mano con eleganza. «In realtà le sto facendo un vero favore… Ha avuto un’emergenza familiare, quindi, nonostante la preparazione per la specializzazione mi lasci poco tempo libero, ho deciso comunque di aiutarla. È la giusta occasione per studiare un po’ più tranquillamente di come farei in ospedale, sa? E capisco che il suo silenzio è un modo per non distrarmi… Per cui grazie, signor Bercher». Ma di che diavolo sta parlando? «Ora le porto la colazione». Sparisce dietro la porta lasciandomi decisamente interdetto.

    Mentre aspetto il suo ritorno, mi osservo i polsi: i segni delle catene sono ancora visibili, così come le bruciature sull’avambraccio destro.

    Tu mi costringi a farlo… Tu, figlio di puttana! Ma non capisci che io ti amo?

    La nausea mi assale feroce e il cuore comincia a correre nel mio petto. Ancora la sua voce… Sento persino il suo odore sulla pelle e le gocce di saliva che mi colpiscono il viso mentre mi urla addosso tutta la sua rabbia oltre che il suo amore. Ogni secondo di quella maledetta notte si ripropone in tutta la sua potenza distruttiva, giorno dopo giorno. Il Tuono Rosso e la donna che mi ha condannato sorridono al di là del mio cuore…

    «Eccomi qui. Ah, questa colazione è davvero fantastica… Insomma basterebbe per due persone decisamente affamate», esclama Lucinda. Osservo il contenuto del vassoio e provo un moto di disgusto. Non ho per niente fame. «Sono davvero sorpresa, signor Bercher. Lei è la prima persona in assoluto che non mi ha chiesto il perché del mio strano nomignolo». Mi lancia uno sguardo furbetto. «Ha decisamente guadagnato un posto di riguardo nella mia classifica personale». Sistema il vassoio a cavallo delle mie gambe e mi serve una tazza di tè. Ha le mani curate e i polsi sottili. Poi mi sfiora con lo sguardo, con quell’ombra di pietà mista a curiosità che tanto mi infastidisce. Forse anche la signorina Warren desidera invadere il mio spazio e spezzare il silenzio che ho tenuto in vita con fatica fino a oggi. Be’, si sbaglia. Non ci riuscirà.

    «Ho letto attentamente tutta la sua cartella, ieri sera», sussurra poi come se non volesse farsi sentire dai muri che ci circondano. «Devo sinceramente dirle che sono stupita di come si sia ripreso in fretta. L’hanno quasi massacrata… signor Bercher, è un eroe». I miei pregiudizi crollano all’istante. Cosa? «Un vero eroe, mi creda. Un lottatore», ripete seria.

    Mi mordo le labbra confuso e Lucinda increspa la bocca in un sorriso vittorioso. No, la signorina Warren non è come gli altri membri della clinica.

    «Allora, signor Bercher, visto che è un sopravvissuto, le svelerò il mistero che riguarda il mio nome», dice afferrando una fetta di pane dal mio piatto per portarsela alle labbra con disinvoltura. «Quando eravamo piccole io e mia sorella Jane guardavamo Il Re Leone ogni sera, prima di andare a dormire. Ne eravamo innamorate! Sapevamo a memoria ogni canzone, ogni battuta… E spesso ci divertivamo a interpretare i vari personaggi. Jane diceva che io ero proprio come Simba, forte e coraggiosa. Così iniziò a chiamarmi Cinda…». Manda giù un boccone lanciando un’occhiata golosa alla marmellata di fragole. Con le dita, spingo lentamente verso di lei il vasetto di vetro, incitandola a servirsene.

    «E ora tutti mi chiamano Cinda! Mmm, è squisita… Perché non ne prende un po’ anche lei?», dice affondando di nuovo il cucchiaino nella morbida gelatina rossa. «Avanti… Se continua a non mangiare dovranno alimentarla tramite un sondino», mormora poi con una nota di tristezza nella voce. «Non sarebbe un bello spettacolo né per lei né per me, quindi me lo risparmi». Lecca il cucchiaino sporco di marmellata con avidità. Ha decisamente una bella bocca.

    Afferro la tazza di tè sotto i suoi occhi attenti e ne bevo un sorso per accontentarla, mentre studio la linea delle sue labbra carnose che tremano leggermente in attesa di schiudersi ancora.

    «Ok, l’ho torturata abbastanza per questa mattina… Vedo che non ha proprio voglia di chiacchierare e ora è meglio che mi rimetta a studiare. Se ha bisogno di me basta che suoni il campanello e io sarò subito da lei. Ma non ne approfitti troppo, altrimenti la qualità del mio apprendimento ne sarà danneggiata. A dopo, signor Bercher». Si alza e va verso la porta con una camminata un po’ saltellante che la fa assomigliare a un folletto delle fiabe.

    «Alain», mi ritrovo a dire senza sapere perché, poco prima che varchi la soglia. Lucinda si volta di scatto, piacevolmente stupita. «Mi chiami Alain», ripeto, distogliendo subito lo sguardo dal suo. Anche se non la vedo più, sono sicuro che sta sorridendo.

    Zurigo, novembre 2019

    «Il dolore al petto non cesserà finché la frattura alla costola non sarà completamente guarita. Gli occhi stanno bene e gli ematomi si sono completamente riassorbiti, ma il resto delle ferite… Alain, rimarranno altre cicatrici, lo sai, vero?». Il dottor Smith scuote la testa contrariato, annotando qualcosa sulla cartella. «E credo che sia arrivato il momento d’incontrare la dottoressa Hallen. È un’ottima psicoterapeuta e sono certo che potrà aiutarti ad affrontare i tuoi demoni». Demoni? Lei non sa proprio niente dei miei demoni! «I tuoi genitori sono molto preoccupati», continua sedendosi sul letto di fianco a me. «Abbiamo parlato molto in quest’ultima settimana. Tuo padre non capisce il perché tu non voglia ricevere sue visite. È affranto, in pensiero… Tua madre invece mi ha raccontato un po’ di cose di te, riferendomi che in quest’ultimo anno sei molto cambiato. Dice che hai perso la tua dolcezza, oltre ad aver smesso completamente di far loro visita dopo esserti trasferito al campus universitario. Perché? So che avevi vinto un concorso per un dottorato all’eth nel dipartimento di Life Sciences. Lavoravi per il professor Handelson, giusto? Lo conosco bene e so che è eccezionale con i suoi studenti. Non credo quindi che sia stato il lavoro a farti soffrire a tal punto da…». Fa una pausa e si accarezza la barba corvina. «Chiunque tu stia proteggendo con il silenzio, sappi che è uno sbaglio. C’erano evidenti segni di abusi sessuali… Ti hanno ridotto in fin di vita, caricato su un taxi e abbandonato di fronte al pronto soccorso. Un colpo in più al petto e saresti morto, Alain… ti prego, di’ qualcosa!».

    L’arrivo di Lucinda nella stanza interrompe l’ennesimo tentativo di contatto da parte del dottor Smith. Sconfitto, Robert si alza in piedi e, per quanto deluso dalla mia ostinatezza, sorride alla mia eccentrica infermiera. «Fallo mangiare», le dice a bassa voce indicando il vassoio della cena che lei regge sulle braccia. Lucinda annuisce e si avvicina sorridente. Ha l’aria più stanca del solito ma è molto carina con i capelli stretti in uno chignon disordinato. Si siede sul mio letto senza chiedermi il permesso.

    «Se non finisce questo piatto di crema di asparagi in meno di cinque minuti allora non ha proprio capito niente della vita, Alain», esordisce, fingendo entusiasmo e indicando la pietanza fumante di fronte a me. In effetti l’odore è appetitoso. «Diamine, non si rende conto della sua fortuna. Io non ho nessuno a casa che mi prepara queste leccornie. Inoltre gli asparagi non piacciono né a mia madre né a mia sorella, quindi non si cucinano mai…».

    Sorrido e realizzo solo in quel momento che quell’eccentrica ragazza con le lentiggini è la sola persona con cui mi vada davvero di parlare. In queste due ultime settimane di convalescenza, Lucinda mi ha raccontato molto di sé e della sua vita, accontentandosi dei miei noiosi silenzi. Mi sembra di conoscerla da molto più tempo di quanto realmente sia e sono segretamente grato ad Alena per averle lasciato il posto. Lucinda Warren è come una gustosa aranciata: dolce, frizzante e salutare al punto giusto. Dopo quest’ultima considerazione, sono travolto da un’inaspettata sensazione di felicità. Abituato però a controllare i miei sentimenti, la reprimo con forza fino a spegnerla del tutto prima che Lucinda se ne accorga.

    «Può mangiarla lei la crema d’asparagi, se vuole», sussurro freddamente.

    «Il dottor Smith non sarebbe d’accordo. E poi io ho già cenato», si lamenta fissando il piatto.

    «Che cosa ha mangiato?»

    «Un panino al tonno. Il tonno della scatoletta, si capisce… E mi sono macchiata d’olio», dice indicandomi il taschino, su cui si nota appena un alone giallognolo. «Avanti, inizi con un cucchiaio…». Mi porge la posata, incitandomi ad assaggiare la pietanza.

    «Lei è abituata a lavorare con i bambini, vero?», le chiedo, afferrando il cucchiaio dalla sua mano ed evitando così che mi imbocchi.

    Annuisce allegra. «Entrerò molto presto nel programma di specializzazione di Oncoematologia pediatrica. Ho sempre desiderato di lavorare con i piccoli guerrieri».

    Un brivido freddo risale lungo tutta la mia schiena. «Piccoli guerrieri?»

    «Certo. Gli eroi di piccola taglia che combattono contro il cancro. A dir la verità, sono i più grandi guerrieri che abbia mai avuto l’onore di incontrare durante il tirocinio dell’università. Questa specializzazione però è un percorso lungo e tortuoso, dovrò impegnarmi moltissimo». Lascio cadere il cucchiaio di scatto, facendo schizzare crema di asparagi ovunque. Le parole di Lucinda hanno raggiunto il fondo della mia anima: le immagini sbiadite del mio passato in ospedale e quelle di Thommy si scrollano la polvere di dosso, ritornando a splendere. Se la sua morte non mi avesse sconvolto così profondamente, avrei continuato la mia specializzazione al Kinderspital di Zurigo. Non non avrei mai conosciuto Isabel e non mi sarei trovato in questo letto d’ospedale con una sconosciuta di nome Cinda al mio fianco. Non sarei completamente distrutto…

    «Che cosa c’è?», dice Lucinda dolce mentre pulisce il disastro che ho combinato.

    «Frequentavo anch’io quella specializzazione circa due anni fa…», confesso pensieroso.

    «Perché parla al passato?»

    «L’ho abbandonata dopo la perdita di un paziente a me caro». Mi mordo le labbra secche e screpolate mentre la rabbia scalpita feroce nel mio petto. «Dicevano che ci saremmo abituati…», mormoro tra i denti, «che la specializzazione ci avrebbe messi alla prova molte volte ma che avremmo imparato… Imparato a difenderci da quel tipo di dolore. Per tanto tempo ho creduto di riuscire a mantenere un certo distacco dalla sofferenza e dalla morte, solo che con Thommy… Con Thommy è stato impossibile».

    Lucinda smette di asciugare la crema di asparagi dal lenzuolo. Avvicina la sua mano alla mia.

    «Mi dispiace, Alain», sussurra accarezzandone il dorso. La scanso subito, infastidito. Non voglio che mi tocchi, né che provi anche lei quella sorta di pietà che tutti continuano a elargirmi gratuitamente.

    Lucinda si ritrae triste. «Sono desolata…», sussurra. «Forse ho invaso il suo spazio e non avrei dovuto… È che lei mi sembra così solo. Ok, sua madre viene a trovarla ogni giorno e qui dentro tutti i medici fanno a gara per servirla come un re, ma… Ma quando la guardo negli occhi mi sembra di cadere in un abisso di solitudine. Ho proprio l’impressione che tutto il resto del mondo le sia indifferente. Tutti, sì… a eccezione delle persone che l’hanno ridotta in questo stato». Le sue ultime parole sono cariche di rimprovero. È come se fosse in collera con chi mi ha fatto del male, ma perché? In fondo chi sono io per lei?

    «Continua a non dire niente riguardo al suo incidente. Si tiene stretto dei ricordi che prima o poi la soffocheranno, quando invece starebbe così bene se solo si aprisse con qualcuno…».

    «Non sprechi la sua preoccupazione, Lucinda. Né la sua rabbia», sbotto improvvisamente irritato, interrompendola. «Lei non ha proprio idea di chi sono. E non si affanni a cercare di capire quello che mi è successo solo per soddisfare il suo ego da crocerossina. Si risparmi questa fatica, perché è del tutto inutile!». Sto ansimando.

    Lucinda non reagisce, limitandosi a guardarmi con affetto. Di colpo mi sento l’uomo più crudele della terra. Come posso essere così freddo con la sola persona che ha mostrato un interesse genuino per la mia storia? Può Isabel avermi cambiato fino a questo punto?

    «Mi dispiace», mormoro dopo qualche minuto, pentendomi di ciò che le ho appena detto. Lucinda scuote la testa e accenna un sorriso.

    «Non c’è problema. Quando si ha sofferto tanto è normale mettersi sulla difensiva. Forse non è ancora pronto a condividere con gli altri quello che le è successo».

    «Forse».

    «Ma se decidesse di farlo, sappia che io sono disposta ad ascoltarla». Ancora quello sguardo… Quella strana e rassicurante luce dietro alle iridi color nocciola. No, non è pietà. È qualcos’altro…

    Resto un attimo in silenzio per darmi il tempo di pensare mentre il suo respiro si calma insieme al mio.

    Con Lucinda è come essere costantemente impegnati in una battaglia invisibile. Giorno dopo giorno lei guadagna terreno, si difende dalla mia freddezza con solare allegria e quando meno me lo aspetto mi attacca, armandosi solo di infinita dolcezza. Non sono più abituato a questo genere di guerre. E, allo stesso tempo, una parte di me non vuole più proteggersi dal suo delicato riguardo. Vorrei poterle dire ogni cosa. Però…

    «Lo prenderò in considerazione, Lucinda», le dico giusto per chiudere lì il discorso.

    Lei fa l’occhiolino, soddisfatta. «Cinda, Alain. E mi dia del tu». Esce dalla stanza di fretta, portandosi via tutta la felicità.

    Capitolo 2

    La promessa

    Zurigo, dicembre 2019

    Sono passati quasi tre mesi dall’incidente. La ferita al petto non mi fa più male. Il mio viso è tornato quello di prima. Ho più appetito. E c’è lei, Cinda.

    Oggi è il suo ultimo giorno di sostituzione, poi questa ragazza esuberante e luminosa come il sole d’estate scomparirà dalla mia vita per sempre. I racconti della sua vita, delle sue passioni, persino alcune confidenze riguardo alla persona con cui sta uscendo da un po’ di tempo, hanno rallegrato i grigi pomeriggi della mia convalescenza. Giorno dopo giorno è riuscita a dissipare le ombre e la tristezza che mi soffocavano sin dal mio arrivo alla clinica. Il suo modo di guardarmi ha un che di ipnotico: a volte ho l’impressione di piacerle, nonostante le cicatrici e i miei silenzi. Sono certo che mi mancherà non averla più attorno, eppure so che non farò nulla per trattenerla. Come potrei, in fondo? Io appartengo ancora a Isabel…

    «E così questo è l’ultimo giorno che sarai costretto ad ascoltare le mie sciocchezze», dice Lucinda con un sorriso spento. Sono le tre di pomeriggio e il suo turno termina alle otto.

    «E tu non sarai più costretta a sorbirti i miei silenzi, Cinda», ribatto scherzoso. Lei scuote la testa energicamente.

    «Ah, ma io adoro il tuo silenzio! Credimi, la mia vita è fin troppo chiassosa. Caotica, direi. Come farò domani senza la mia adorata pausa per le orecchie?».

    Non riesco a non ridere, divertito.

    «Credo che sopravvivrai», le dico, tornando serio. Si sta torturando le pellicine attorno alle unghie, nervosa. «Che ti prende, adesso?». Per la prima volta da quando la conosco, sembra incerta se condividere o meno quello che le sta passando per la testa.

    «È sciocco… È sciocco dirti che mi dispiace davvero che la sostituzione di Alena finisca?», confessa infine. «Mi dispiace così tanto…». Quelle ultime parole mi accarezzano morbide come un panno di velluto. Mi sforzo di guardare l’orsetto giallo di peluche che fa ancora capolino dal taschino del suo camice per distrarmi dai suoi occhi dannatamente magnetici. «Alain, credi che noi potremmo…».

    «No», la interrompo secco, fulminandola. Le sue labbra tremano e le guance le si colorano di rosso. Mi desidera. Vuole continuare a vedermi fuori dalla clinica, ma io non posso proprio permetterlo. Se lo facessi, inquinerei la sua vita, risucchiandola lentamente nel mio inferno. Un inferno di nome Isabel.

    «Cinda, io non posso… Non voglio rivederti una volta uscito da questo posto».

    «Perché, Alain?», si lamenta, avvicinandosi pericolosamente. Le nostre mani si sfiorano appena, eppure le sento bruciare come lava. La scanso, spaventato, e stringo le labbra: sono stanco di lottare contro i sentimenti che lei ha resuscitato dalle ceneri del mio cuore.

    «Cinda… tu

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