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Voli per il mondo
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E-book272 pagine4 ore

Voli per il mondo

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Il 3 luglio 1928, anno trionfale per la carriera del giovane pilota Arturo Ferrarin e per il maggiore Carlo Del Prete, su un Savoia Marchetti S.64 decollano da Guidonia Montecelio (Roma) con destinazione Bahia in Brasile, distante 8.200 km. Il 5 luglio il velivolo, giunto al termine dell’autonomia, compie un atterraggio di fortuna sulla spiaggia di Touros vicino Porto Natal, conquistando così il record del mondo di volo in linea retta con il riconoscimento del compimento di 7.188 km (circa 8.000 effettivi) in 49h 19m ed il primato di distanza senza scalo da Montecelio (Roma) a Touros (Brasile) di 7.666 km in 58 h 37 min ad una velocità media di circa 168 Km/h. Appena rientrato in Italia Ferrarin viene insignito della medaglia d’oro al valore aeronautico e raccoglie le sue esperienze nel libro "Voli per il mondo" (Milano 1929), dedicato alla memoria proprio del fido compagno di viaggio Del Prete. Il libro, per la prima volta riedito, è ricco di uno stile retorico com’era tipico di quei tempi, ma allo stesso tempo contribuisce a fornire interessanti notizie sul mondo dell’aviazione dell’epoca. 
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2024
ISBN9791223007822
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    Voli per il mondo - Arturo Ferrarin

    Arturo Ferrarin

    Voli per il mondo

    Arturo Ferrarin

    Voli per il mondo

    © Idrovolante Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – settembre 2023

    www.idrovolanteedizioni.com

    idrovolante.edizioni@gmail.com

    introduzione

    di Tommaso Lorenzini

    Buon compleanno Aeronautica Militare Italiana, ma come si fa ad augurarti altri 100 di questi primi 100 anni se davvero, appassionati e addetti ai lavori a parte, in pochissimi hanno segnato l’anniversario sul calendario? Eppure, un secolo fa l’Italia era davvero ombelico della nascente aviazione mondiale, per quanto rimanga un aspetto ai più misconosciuto. E il volume che avete fra le mani racchiude tutta il fascino di quei decenni turbolenti e vibranti, porta la firma e racchiude uno spaccato della vita da romanzo di un aviatore che, rapportato ai canoni pop del 2023, avrebbe oggi l’etichetta di influencer e milioni di follower.

    Arturo Ferrarin senza tema di smentita è stato un italiano che ha fatto grande l’Italia.

    Al contrario, il fatto che il suo nome sia fuori dalle conoscenze della stragrande maggioranza della popolazione non deve stupire in questa a volte disgraziata Nazione.

    Ma tant’è, se beato è quel Paese che non ha bisogno di eroi, a noi piace ricordare quelli che invece lo sono a tutti gli effetti avendo dato testimonianza concreta di capacità e imprese fuori dall’ordinario mettendo in gioco loro stessi con la posta più alta sul piatto.

    Si moriva giovani, accade così anche allo stesso Arturo e al suo fedele scudiero Guido Cappannini (abbattuto nel 1940 assieme a Italo Balbo a Tobruk, in Libia, dalla contraerea italiana in un tragico incontro di destini), ma la Morte là sulla punta dell’ala era compagna di tutti i giorni della quale non curarsi più del dovuto, l’accettazione del fatto che in qualsiasi momento avrebbe potuto reclamare il proprio tributo era stoicismo in essenza.

    Era un vivere per vivere, non certo per tirarsi indietro.

    Lo stesso Ferrarin, scomparso a soli 46 anni nel 1941 per un incidente durante un volo sperimentale, più volte ha dovuto piangere i compagni, come quando nel 1928, mentre il Brasile lo sta celebrando dopo l’impresa della monumentale trasvolata in idrovolante da Sesto Calende a Porto Natal, esce quasi illeso da un rovinoso schianto, al contrario dell’amico di mille avventure Carlo Del Prete, a bordo con lui, ma rimasto gravemente ferito e spirato di lì a tre giorni, il 16 agosto. «Quando la salma di Carlo passò per le vie di Rio de Janeiro tutto il popolo sostò al suo passaggio. Mai forse un Eroe fu celebrato nell’amore con tanta passione da un popolo. Quando giunsi in Italia col fratello che non potevo più vedere, sentii più fortemente il dolore», l’amarezza di Ferrarin.

    Se la Regia Aeronautica nasce formalmente nel 1923 con l’impulso decisivo del Maresciallo dell’Aria Balbo (col quale Ferrarin avrà sempre un rapporto di burrascosa amicizia, dovuto a due caratteri in fondo molto simili), è già da qualche anno, dalla Grande Guerra, che l’aeroplano - macchina, arma e concetto rivoluzionari - e le sue potenzialità tutte da decifrare trovano humus fertile nelle menti più brillanti e indomite del Regno, fra le quali il nostro Ferrarin è destinato a scrivere (su aria e su carta) pagine impareggiabili. L’Italia di quel tempo sta provando a rialzarsi dal devastante conflitto vinto sul campo (al prezzo di 650mila morti, 450mila mutilati e l’economia in ginocchio) ma perso nei trattati, e la spinta di rivalsa che permea il Paese ribolle.

    È un’epoca di macchine volanti dal cuore pulsante chiamato uomo e gli aviatori italiani spiccano per audacia, inventiva, capacità, visione. L’1 agosto 1919, Amsterdam inaugura la Prima Esposizione Aviatoria. Si tratta di un momento storico ancora agitatissimo, con l’Europa e il mondo ancora in piena transizione dalla guerra alla pace. Eppure già l’aeroplano sta reclamando il suo ruolo di ponte, di protagonista di una nuova era di relazioni internazionali e di imprese inedite. Come il primo volo in idrovolante senza scalo dall’Italia al Nord Europa, dal Lago Maggiore all’Olanda: il Siai S.13, condotto da Umberto Guarnieri e Adalberto Campacci, il 7 settembre 1919 arriva all’Expo accolto dal giubilo della missione italiana già sul posto; fra i nostri c’è lo stesso Ferrarin, pilota fra i più conosciuti e già distintosi in Olanda nei giorni precedenti in numerosi voli mirabolanti e con aeroplani differenti, un asso che vive per misurarsi contro colleghi inglesi e francesi per l’ammirazione generale e il prestigio del nostro Paese.

    Anche sulla scia dei grandi successi in Olanda, la mente inarrestabile di Gabriele D’Annunzio partorisce una pazza idea: «Volare da Roma a Tokyo, non è mai stato fatto prima, ci riuscirà una squadriglia italiana». In quel periodo, il nostro Paese è ponte tra Occidente e Oriente, sia con la nascente industria dell’automobile che con quella aeronautica ci siamo aperti a Cina e Giappone. Nella visione di D’Annunzio, i nostri aviatori diventano moderni Marco Polo, novelli Matteo Ricci, ambasciatori di cultura, sapere, tradizioni e spinta propulsiva verso il futuro. A dar man forte al Vate nel sostegno alla visionaria avventura c’è Harukichi Shimoi, anche lui poeta e scrittore, giapponese ma de facto italiano: trasferitosi in Italia per studiare Dante, si era arruolato volontario nel Regio Esercito durante la Grande Guerra e per lo stesso D’Annunzio terrà rapporti con Mussolini, propagandando poi il fascismo al rientro in patria.

    Il placet governativo all’operazione arriva, sebbene il clima di polemica montante rischia di pregiudicarne la preparazione stessa. Compiuto tra il 14 febbraio e il 31 maggio 1920, il Roma-Tokyo infatti viene osteggiato sia dalla sinistra sia dai liberali al grido di «stop allo sperpero di denaro pubblico». Un leitmotiv, quello del sabotaggio dell’aviazione da parte di certa parte politica, le cui eco periodicamente resuscitano ancora oggi quando si levano in aria le Frecce Tricolori. È un retaggio che spiega bene come imprese degne di trovar spazio nei libri scolastici siano state artatamente messe ai margini poiché riconducibili a un periodo del vissuto nazionale da etichettare esclusivamente in chiave negativa. Tirando in ballo Pierluigi Pansa, anche per l’aviazione italiana il modello sangue dei vinti adottato dalla sinistra ha funzionato benissimo: sminuire, mistificare, nascondere. Quanta differenza con quello che avvenne a Tokyo: la portata di quell’impresa fu celebrata in Giappone con ben 42 giorni di festeggiamenti per decreto dell’Imperatore Taishō.

    A 25 anni compiuti, dunque, l’irrequieto Arturo è in piena ascesa eppure, a quello che sarebbe stato il suo appuntamento con la Storia, il Moro di Thiene, chiamato così per la sua carnagione scura, rischia di non arrivarci, dato che viene inizialmente escluso. Solo dopo insistenze ottiene dalla Direzione Aeronautica di partecipare insieme al suo inseparabile amico, il tenente Guido Masiero, e ai motoristi Cappannini e Roberto Maretto. Si riveleranno le due coppie che porteranno a termine la missione, seppure soltanto Ferrarin-Cappannini riusciranno a farcela sempre volando, mentre Masiero e Maretto affronteranno la tratta tra Delhi e Calcutta in treno ed il tragitto tra Canton e Shanghai in nave.

    Ora, chiamare quei piloti pionieri dell’aria è calzante quanto riduttivo. Ferrarin e Cappannini si alzano quel mattino di San Valentino dall’aeroporto romano di Centocelle con ancora la vernice fresca sulle ali, ritinteggiate giusto la sera prima per rafforzarle contro le intemperie. E pensare che oggi, sui velivoli da valore di centinaia di milioni come i caccia stealth, invisibili ai radar, si adopera una speciale vernice in grado di assorbire le onde elettromagnetiche...

    Del suo Sva 9, un biplano da ricognizione e bombardamento costruito dall’Ansaldo (oggi il solo immaginare di salirci per volare dall’Italia al Giappone farebbe scattare un TSO), Arturo scrive trasognato: «È la macchina più potente che ci sia eppure è fine e delicata. Sembra un levriero pronto allo slancio». Tela e legno buono, qualche tirante, una bussola (che Arturo aveva tolto a un caccia inglese fuori uso), un altimetro e un leva comando per 215 chilometri orari di velocità massima: eccolo il levriero volante di Ferrarin.

    Esplorando l’aria, la sconosciuta terza dimensione, quegli uomini spedivano loro stessi perfino in una quarta dimensione, fra ignoto, perizia estrema, capacità di autoconservazione e desiderio di misurarsi: con chi? Con che cosa? Con il Tutto. Perché per loro il volo era Tutto. Finché lo stesso concetto di volo trascende. Ferrarin si sente come traslato quando nei suoi appunti confessa: «Non ho più incertezze… Sono un Budda, il cinquecentounesimo… Il volo non ha più interesse per me, è un mezzo qualunque. L’arrivo è cosa decisa dal destino».

    Il diario del viaggio, vergato dallo stesso Arturo, è una lettura estremamente sui generis, che alterna passaggi strettamente tecnici a sconfinamenti poetici e di puro stupore. Se a tratti Ferrarin sembra un novello Aladino che divora le nuvole sotto la luce delle stelle come fosse seduto su un tappeto volante, c’è anche molto dell’influsso di quel futurismo che ispira le menti più audaci dell’epoca. Nella tappa che lo porta da Buscir a Bandar Abbas, in Iran, Ferrarin rammenta fremendo il passaggio obbligato in una stretta gola, con i «muraglioni laterali che cercano di afferrarmi e stritolarmi fra di loro». Una resa visiva che non doveva essere molto dissimile a quella di Incuneandosi nell’abitato, vertiginoso dipinto di Tullio Crali dove il paesaggio cittadino si sovrappone perfettamente a quello delle perfide montagne.

    Ma oltre a pagine di pura adrenalina, Arturo dispensa momenti lirici come perfetto complemento dell’impresa. Se posate per un attimo il libro e andate a cercarvi Il Viandante sul mare di nebbia, celebre opera pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich, non stupitevi di intravedere laggiù, lontano sopra le montagne, uno Sva che bacia le nuvole mentre il viandante cerca di fissare l’attimo.

    Non c’era solo la poesia, però, c’era anche una missione da compiere e possibilmente la pelle da riportare indietro. E c’era da fare spesso i conti con la realtà del volo, che non prevedeva ancora specifici manuali con una check list in caso di problemi oppure – ovviamente – l’aiuto di computer o dell’elettronica di bordo.

    «L’aeroplano da me pilotato», racconta Ferrarin, dando una resa pratica di ciò che ha realizzato, «era vecchio e malandato. L’originale motore da 220 CV era stato sostituito con uno a compressione ridotta, che non sviluppava più di 180 CV. Ciò era stato ottenuto col semplice espediente di collocare uno spessore tra il basamento del carter ed i cilindri. La regolarità di funzionamento era stata così aumentata, ma i decolli, a potenza ridotta, apparivano più rischiosi. Inoltre i serbatoi dell’aeroplano non potevano portare più di 330 litri di benzina, invece dei 440 dei modelli più moderni, per cui la normale autonomia dello Sva ne risultava ridotta da dieci ore e mezza di volo a sole otto. Per di più l’aeroplano, per uno svergolamento della cellula, pendeva a destra. Bisognava dunque pilotarlo tenendo costantemente la cloche poggiata sulla sinistra, per compensare questo difetto. Ciò feci tenendola agganciata con un elastico alla parete di sinistra dell’abitacolo per tutta la durata del volo». Scarsità di mezzi, abbondanza di inventiva, coraggio da vendere.

    Era ancora l’intuizione del momento molto spesso a fare la differenza tra il successo e il fallimento, tra la vita e la morte, in un mondo aeronautico in fasce popolato da sognatori e avventurieri, che poi sarebbe progredito in un concentrato di tecnologia e precisione. Per capirci, nei giorni antecedenti al clamoroso sorvolo su Vienna del 9 agosto 1918, D’Annunzio scriveva certamente accompagnando il pennino con gesti apotropaici: «Il capitano Bourlot pensa e mi dice che in pochi giorni lei (l’ing. Brezzi, ndr) possa compiere il prodigio e, trasformando le ali, dare all’apparecchio una più lunga potenza di volo. Di questo volevo parlarle. Le mie sorti sono nelle sue mani sapienti».

    Le mani sapienti sono anche quelle di Ferrarin e del fido meccanico Capparrini, encomiabile nella sua disgraziata collocazione all’interno della carlinga, l’orecchio sempre teso ad accordarsi con ogni rumore emesso dal velivolo quanto indefesso nel volare accucciato per tutto il viaggio, tanto da commuovere Arturo. Lo Sva percorre 18.000 km in 18 tappe e arriva a Tokyo il 31 maggio, con 109 ore di volo alla media di 160 km all’ora. Ferrarin è il primo aviatore occidentale a giungere nel Paese del Sol Levante a bordo di un piccolo aereo. Ben duecentomila giapponesi accorrono sul campo di atterraggio dove oggi c’è il Parco di Yoyogi. Grandi sono l’accoglienza e i festeggiamenti, l’immagine di Ferrarin viene collocata accanto al busto di Marco Polo in un tempio di Canton.

    È in questo momento di giubilo che l’attualità di un personaggio come Arturo si ritrova perfettamente in quel contesto che lo circondava, a tratti demenziale allora come oggi. Emblematico nella sua tragicomicità è infatti il dicotomico trattamento italico riservato all’eroe. Mentre a Tokyo spiegano che gli sarebbe stata conferita «la spada d’oro di Samurai, la più alta onorificenza giapponese, serbata agli eroi della Patria e agli stranieri che si vogliono maggiormente onorare», a Roma in parlamento si criticano i costi e l’organizzazione del volo. Non solo. Mentre le autorità imperiali desiderano che il biplano di legno e tela venga esposto al Museo della Guerra russo-giapponese in un «posto d’onore», a guastare la festa giungono telegrammi sorprendenti dall’Italia. A Ferrarin viene ordinato di rientrare «con il primo piroscafo», provocando sconcerto perfino all’Imperatrice. Quando «per stolto pregiudizio di burocrazia e per formalità, feci chiedere a Roma il permesso di donare la mia vecchia carcassa al Museo di guerra», scrive Arturo, «risposero testualmente che era opportuno vendere l’apparecchio di Ferrarin al migliore offerente. Feci rispondere che il miglior offerente era il Tenente Ferrarin il quale offriva mille yen (ottomila lire). Solo allora, certo per vergogna, telegrafarono da Roma che l’apparecchio di Ferrarin poteva essere donato al Giappone. Tale era l’Italia nel maggio 1920».

    Arturo aveva già capito molte cose...

    parte prima

    il volo roma - tokio

    capitolo i

    durante la guerra

    Assieme al compianto amico Del Prete, avevamo deciso di narrare, col racconto dell’ultimo volo, anche le vicende della nostra carriera aviatoria, non certo per vanità o per far rumore attorno ai nostri nomi, ma perché ogni fase della vita non è che la conclusione e il riassunto dei periodi precedentemente vissuti.

    Dei quali è piacevole fermare il ricordo anche per avere occasione di evocare persone che ci furono larghe di aiuti e di incitamenti; il compimento di qualche impresa è dovuto non soltanto a noi stessi ma, in non piccola parte, all’atmosfera sociale nella quale viviamo che, quando volge in favore, è la vera suscitatrice delle energie e delle iniziative individuali. Ciò, fortunatamente, si verifica in tutti i paesi, e specie nel nostro, a proposito di aviazione e di aviatori, circondati come siamo di benevolenza e di cordialità: l’interesse col quale il pubblico ci accompagna nelle ore liete e nelle tristi non potrebbe essere né maggiore né più pieno.

    Pensavamo, assieme al perduto amico, che non poteva riuscir discaro conoscere le tappe precedenti della nostra vita, sopratutto perché i più giovani, seguendone il corso, apprendano come non occorrano meriti specialissimi per riuscire, là dove l’istinto e la buona sorte hanno principalissimo giuoco, e perché vedano che la via dei cieli è veramente aperta e spianata a tutti gli idonei e a tutti i volonterosi che abbiano lena e fede occorrenti a percorrerla. L’aviazione ha sempre esercitato sovra di me un fascino particolare: nato e cresciuto in provincia di Vicenza¹, ove il Conte Almerigo da Schio e Nico Piccoli furono pionieri nello studio dei voli, conobbi il problema della conquista dell’aria fino, si può dire, dai primi anni della mia vita, quando altrove forse non se ne discorreva: e questa passione, suscitata dai misteriosi e seducenti studi dei miei comprovinciali, si acuiva in me nell’esercizio assiduo della caccia, che mi rivelava la perfezione con la quale natura aveva saputo risolvere un problema che gli uomini quasi non erano mai stati capaci neanche di affrontare. Ma scoppiò la guerra europea, che seppe subito mettere in valore le notevoli conquiste aviatorie degli ultimi anni, onde apparve immediatamente non lontano il giorno della realizzazione quasi piena del più antico e insoddisfatto sogno dell’umanità. Chiamato anch’io alle armi allo scoppio della guerra, ebbi la fortuna di essere arruolato nel corpo degli aviatori, ove già prestavano servizio due miei fratelli ai quali spetta il merito di avermi avviato alla vita dei voli.

    Alla quale però mi sentii fortemente attratto per virtù dei valenti aviatori che convenivano in Torino al ristorante Nazionale di via Lagrange: ivi, reduci cotidianamente dal cielo, infiammavano col loro esempio e con le loro descrizioni noi commensali più giovani, che stavamo ad udire e ad ammirare.

    Rammento Bortolo Costantini, Romano Cattaneo, Romolo Manissero, Alfredo Cavalieri, Tono Fochesati, Luigi Olivari, Armando De Dominicis ed altri: ma, con particolare commozione, ricordo oggi sovra tutti Armando De Dominicis, perché fu lui che, facendomi conoscere a Roma nel 1925 Carlo Del Prete, accese una amicizia che fu in vita fervidissima e che la morte rese più salda e più sacra. E noto ancora - coincidenza veramente singolare - che Armando De Dominicis fu il primo a farmi volare durante il periodo torinese di attesa e di preparazione. Anche Francesco Baracca ed Ettore Croce apparivano di quando in quando dal fronte in via Lagrange per suggellare con l’eroismo dell’esempio i nostri entusiasmi. E fu così che presentai domanda per essere ammesso alla scuola di pilotaggio, ma l’accoglimento della stessa mi pervenne solo nell’estate del 1916, quando ero a Verona in qualità di mitragliere agli apparecchi Nieuport. Andai alla scuola di Cameri, presso Novara, allora militarizzata, fondata dai signori Gabardini e Landini, che ancora la reggono con loro onore e con profitto dell’aviazione.

    Ottimo era l’insegnamento, che, a differenza di qualche altra scuola, vi si impartiva, mettendo l’allievo, da solo, a diretto contatto con l’apparecchio: ma, sovra tutto, ricordo con riconoscenza di discepolo l’entusiasmo per l’aviazione che il Landini sapeva accendere nei frequentatori della sua scuola, che erano assai numerosi; egli si è reso veramente benemerito dell’aviazione e del paese. Per la prova del primo brevetto di pilota ho volato, col monoplano Gabardini 80 HP e motore Gnome, a 3500 metri, altezza che nessuno aveva ancora raggiunto alla scuola. A tale altezza l’apparecchio si sosteneva così male che, più d’una volta, mi son trovato in condizioni pericolose per minaccia di «avvitamento»; avvitamento che son sempre riuscito ad evitare «picchiando» istintivamente l’apparecchio, mentre alla scuola, non conoscendosi la vera manovra, si insegnava invece a «cabrarlo». Ottenuto il brevetto di pilota sul finire del 1916, il Landini fece domanda perché rimanessi istruttore al campo di Cameri, ma la sua domanda venne presentata tardivamente, quando ero già assegnato come istruttore ai campi di aviazione della brughiera di Gallarate.

    Rimasi in tale veste a Cascina Costa circa dieci mesi, istruttore sugli apparecchi da ricognizione Aviatik e Saml.

    Venni mandato più tardi, per punizione, alla Malpensa, istruttore agli apparecchi da caccia Nieuport: questa punizione, che mi procurò un vero conforto, data la maggiore importanza del nuovo incarico, mi venne inflitta per la duplice imputazione di aver rubato tempo all’istruzione col far voli acrobatici e di aver compiuto tali voli coll’apparecchio Saml, ritenuto inadatto alle acrobazie: cose codeste che invece ritenevo doverose ed onorevoli per un istruttore.

    All’epoca di Caporetto ero alla Malpensa, per quanto, fin da prima, avessi domandato invano di andare alla fronte: osservo però che nel periodo d’istruzione ai campi di Gallarate ho compiuto in un anno undicimila e settecento voli d’istruzione, fra voli diurni e voli notturni, e facendo talvolta anche 70 voli al giorno, con la soddisfazione di aver esercitato questo ufficio senza incidenti a danno mio o degli allievi. Invano, dopo Caporetto, reiterai le istanze, valendomi anche del Capitano Croce, per essere mandato alla fronte: fui mandato invece per circa un mese al campo di Furbara quale istruttore alle acrobazie, e indi, per un altro mese, alla difesa di Milano. In dicembre però ero già finalmente alla fronte, a San Pietro in Gu, con la 82 Squadriglia comandata da Tono Fochesati, vecchia e cara conoscenza. Assieme a lui fecero parte della mia squadriglia e della 70 (sempre abbinata alla mia, che, con la squadriglia Baracca, formava il X Gruppo) Pirelli, Avet, Durso, Panero, Fassi, compagni di guerra eroicamente morti: e il Capitano Vaccarossi, il Capitano Tosi e i Tenenti Bernelli, Guglielmotti, Resch, Con tardini, Rossetti, Bognetti, Comandone, Teobaldi ed altri. Giunto alla fronte, notai esser diffusa la persuasione della assoluta superiorità in caccia degli apparecchi inglesi: proprio appena arrivato, volli cimentarmi a cortese tenzone con un ufficiale inglese, che vinsi in finta manovra di caccia, montando uno dei nostri apparecchi fabbricato dalla Casa Macchi.

    Ciò mi procurò la benevolenza degli ottimi colleghi, che mi circondarono subito di attenzioni, anche perché ero l’unico fra essi nato e cresciuto nella zona delle nostre operazioni: l’Altipiano di Asiago; fin da bambino, mi recavo quasi ogni

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