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Waterloo. La disfatta di Napoleone
Waterloo. La disfatta di Napoleone
Waterloo. La disfatta di Napoleone
E-book288 pagine3 ore

Waterloo. La disfatta di Napoleone

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Info su questo ebook

Cosa ha fermato il condottiero più geniale della storia?

La fatale sconfitta del grande generale nella battaglia che segnò la fine di un'epoca

Il 18 giugno 1815 si svolse un evento di proporzioni epocali che decise definitivamente il destino di Napoleone e di quelli che scelsero di stare con lui fino alla fine: la battaglia di Waterloo.

Debellando il condottiero còrso, le monarchie europee della Settima coalizione guidate da lord Wellington, “il duca di ferro”, distrussero brutalmente le speranze e i sogni che le forze progressiste e liberali europee avevano riposto in Bonaparte. Anche se il giudizio della storia non fu clemente con lui, da tutti, amici e nemici, fu riconosciuta la genialità tattica e strategica espressa dal piccolo soldato còrso in tante campagne e battaglie vinte. Waterloo, toponimo che evoca la parabola di un condottiero che – negli ultimi mesi di comando – manifestò appieno le sue debolezze, fu una sorpresa: la disfatta francese giunse inaspettata per ambedue gli schieramenti. Quale fu l’elemento che giocò un ruolo così negativo per la Grande Armée? Errori? Tradimenti? Incapacità dei comandanti? La storia che si snoda in queste pagine racconta con passione e precisione i dettagli della battaglia, gli antefatti, le conseguenze. Descrive gli uomini, le armi usate, le uniformi, i diversi modi di combattere dei due imponenti eserciti che si dilaniarono a vicenda in uno sperduto angolo della campagna belga sotto una leggera pioggia primaverile.

La caduta di uno dei condottieri più geniali della storia, attraverso il resoconto puntuale delle sue ultime mosse strategiche.

Segreti, strategie e colpi di scena: la descrizione dettagliata della sconfitta più clamorosa di tutti i tempi, che segnò la fine di Napoleone e quella di un’epoca.

Che cosa non aveva previsto Napoleone?

Gianluca Scagnetti

giornalista e documentarista, ha collaborato con varie testate della carta stampata, radiofoniche e televisive. Dal 1991 ha seguito gli eventi bellici nella ex Jugoslavia e la crisi albanese, è stato inviato in Asia centrale e Medio Oriente. È autore di reportage di guerra e del romanzo Omicidio di un “gladiatore” nella Destra Tagliamento. Attualmente vive tra Roma e il Friuli.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2014
ISBN9788854163591
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    Waterloo. La disfatta di Napoleone - Gianluca Scagnetti

    225

    Le illustrazioni delle tavole fuori testo sono di Giorgio Albertini

    Prima edizione ebook: febbraio 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6359-21

    www.newtoncompton.com

    Gianluca Scagnetti

    Waterloo

    La disfatta di Napoleone

    logonc

    Newton Compton editori

    Prologo

    Waterloo non è una battaglia, è un mutamento di rotta dell’universo.

    Victor Hugo

    Sono passate poco più di due ore dalla mezzanotte del 18 giugno 1815. Sotto la pioggia battente, alcune ombre a cavallo si muovono circospette attorno agli avamposti, vanno al piccolo trotto nella terra di nessuno e si fermano ogni tanto per osservare i fuochi di bivacchi che sono più in lontananza. Qualcuno, nella penombra, individua quelle figure e tra queste una a cavallo più piccola delle altre. Un soldato scrolla un compagno assopito, altri uomini attorno ai falò fumiganti si indicano le ombre che ora avanzano più chiare verso di loro. All’improvviso si leva un grido che provoca un’eco che si diffonde immediatamente nell’accampamento. Pochi secondi e centinaia di voci rese rauche dall’umidità si schiariscono urlando: «Vive l’Empereur! Vive Napoleon!». Gli uomini coi pastrani e i pantaloni incrostati di fango, molti dei quali indossano divise di fortuna, scandiscono il nome dell’uomo che per oltre un ventennio ha fatto tremare mezza Europa ed entusiasmato l’altra metà.

    A urlare con maggiore veemenza sono i veterani della Guardia, i reduci delle campagne d’Italia e Spagna, i combattenti in Egitto, quelli che un anno prima erano arrivati fino a Mosca. Coloro che imprecando e scrollando la testa hanno accompagnato Napoleone in tutte le sue imprese, come vuole un celebre verso di una poesia di Alessandro Manzoni. Per questo motivo il loro condottiero li ha ribattezzati affettuosamente grognards (brontoloni) e loro portano con fierezza questo soprannome che rimanda al rispetto che si deve ai vecchi di una grande famiglia: la gloriosa Armée dai vessilli tricolori. Alcuni di loro avevano seguito Napoleone addirittura nell’esilio dell’isola d’Elba e poi con lui erano fuggiti, ritrovandosi nell’ennesima campagna militare, pronti ad affrontare ancora una volta i nemici di sempre.

    L’ultimo atto si sarebbe consumato in quell’anonimo e quasi piatto angolo di campagna belga, lungo la strada che collega Charleroi a Bruxelles attraversando i villaggi di Quatre-Bras, Genappe, Belle Alliance e Waterloo. In poco meno di dieci ore di battaglia, dalle undici e mezza del mattino alle nove di sera, in quei campi di grano avrebbe avuto luogo uno dei più grandi massacri della storia, con cinquantamila morti e diecimila cavalli abbattuti nel fango.

    La madre di tutte le battaglie, la definitiva sconfitta di Napoleone, l’estremo e più drammatico scontro tra il figlio della rivoluzione e i difensori dell’assolutismo: un crocevia della storia che recò con sé i tanti irripetibili motivi che ne fecero uno dei laboratori della letteratura dell’Ottocento. Di Waterloo, infatti, ne avrebbe scritto ne I miserabili Victor Hugo, descrivendola come «...la giornata del destino, dovuta a una forza superiore dell’uomo»; Stendhal, invece, l’avrebbe raccontata attraverso gli occhi idealisti di Fabrizio del Dongo nella Certosa di Parma; e ancora: William Tackeray, Walter Scott, lord Byron, Charles Baudelaire, furono tra i tanti che contribuirono a tramandarne la storia e a perpetuarne la leggenda.

    Quei soldati che nella notte del 18 giugno 1815 gridavano «Viva l’Imperatore!», agitando i loro berretti sulla punta delle baionette innestate, erano stanchi. Quasi tutti si avviavano a trascorrere una notte insonne a causa di una pioggia a dirotto che aveva già inzuppato il terreno al punto da ostacolare i movimenti degli uomini e delle artiglierie che di lì a qualche ora loro stessi avrebbero dovuto spingere faticosamente in posizione. Molti non avrebbero visto l’alba del giorno seguente, eppure, era bastata la fugace visione dell’imperatore a cavallo col suo seguito a risvegliarne l’antico spirito di battaglia. Ancora una volta avrebbero combattuto sotto le insegne dell’aquila. Ancora una volta si sentivano parte di una storia cominciata solo qualche mese prima...

    NapoleoneFirma.JPGnapoleone_001.jpg

    La scrittura di Napoleone (da Friedrich M. Kircheisen: Napoleon I. Sein Leben und seine Zeit, vol. I, München, Leipzig 1911).

    Parabola

    di un condottiero

    ...sembra incredibile! Io che non ho paura né di

    Dio né del diavolo, tremo come un bambino

    quando si avvicina.

    Dominique-Joseph René Vandamme, generale

    dell’Impero e conte d’Unsebourg, veterano delle campagne

    della Rivoluzione e dell’Impero, a proposito di Napoleone.

    Dagli anni ruggenti

    all’amarezza degli

    ultimi giorni

    Cancro. Più precisamente: lesioni cancerose allo stomaco. Queste le cause del decesso riportate dai medici britannici nel documento ufficiale firmato dopo l’autopsia sul cadavere di Napoleone. Era il 6 maggio del 1821 e il condottiero corso se ne era andato via il giorno prima, stavolta definitivamente. Egli, già nelle settimane che avevano preceduto la campagna militare del 1815 – l’ultima della sua esistenza –, era apparso pallido in volto: il colorito verdastro, unito al gonfiore del viso, non aveva lasciato presagire nulla di buono riguardo al suo stato di salute. Chi, del suo seguito, ebbe occasione di osservarlo mentre riposava, riferì in seguito di essersi trovato di fronte alla maschera mortuaria dell’uomo irrefrenabile e pieno di vita che aveva avuto modo di conoscere in precedenza. In effetti, così Napoleone era stato fino a poco tempo prima; però, dalla sconfitta del 1814 – dramma che fu il preludio dell’esilio all’isola d’Elba – non era più la stessa persona. Quando la morte lo raggiunse aveva cinquantadue anni e si trovava nuovamente all’esilio in un’isola nel mezzo dell’oceano Atlantico. I vincitori avevano deciso di confinarlo lì, per sempre, immediatamente dopo la sua sconfitta a Waterloo. In quegli stessi giorni, in vari luoghi del mondo, qualcuno fantasticava ancora su irrealizzabili progetti di una sua evasione. Ubbie, nella desolazione di Sant’Elena gli era rimasto vicino soltanto un piccolo seguito col quale condividere la sua amarezza, magari nell’ultimo debole sforzo di riversare le responsabilità del disastro del Belgio sui suoi marescialli, in modo particolare su Grouchy.

    Contrariamente ai suoi colleghi britannici, la prima cosa che pensò il suo medico personale – il dottor Francesco Antommarchi, patologo e professore all’Università di Pisa – fu l’epatite. Un’intossicazione dunque, come tante altre, seppure, a distanza di oltre un secolo, qualcuno avrebbe addirittura ventilato l’ipotesi che egli potesse essere stato avvelenato. Accadde negli anni Sessanta, a seguito di un’analisi effettuata per mezzo dell’attivazione dei neutroni che portò al rinvenimento di tracce di arsenico nei capelli del Bonaparte, dovute con ogni probabilità all’assorbimento da parte dei tessuti delle vernici e di altre sostanze chimiche presenti sulla bara, un fenomeno frequente in questi casi. Quando Napoleone morì, dalla sua ultima battaglia erano trascorsi solo sei anni, ma il suo nome era comunque già entrato nella leggenda.

    Non è possibile narrare Waterloo senza aver prima tratteggiato, seppure soltanto per grandi linee, il profilo del suo maggiore protagonista. Napoleone Bonaparte, l’uomo che aveva ricostruito la Francia rivoluzionaria trasformandola da Paese in rovina in potenza organizzata e progredita, quello stesso Paese che però aveva trascinato in uno stato di guerra praticamente ininterrotto per la durata di dieci anni. Una premessa obbligata, utile anche per esaminare il suo tempo, una breve e intensa era di sconvolgimenti consumatasi in neanche tre decenni, un arco di tempo tutto sommato ridotto, ma sufficiente a lasciare una profonda impronta nella storia.

    Napoleone aveva visto i natali il 15 agosto del 1769 ad Ajaccio, in Corsica, frutto dell’unione di Carlo Buonaparte (il cognome verrà in seguito mutato in Bonaparte) e Letizia Ramolino. Pare che la sua famiglia discendesse da un antico casato toscano; il padre Carlo, avvocato, era stato un fiero sostenitore dell’indipendenza dell’isola e aveva combattuto contro i francesi nei gruppi armati organizzati da Pasquale Paoli, ma dopo la riunione della Corsica alla Francia avvenuta nel 1768, si era riconciliato con le autorità ottenendo la carica di assessore reale nella sua città. La madre viene ricordata come una donna affascinante d’aspetto e decisa nel carattere, a tal punto animata da spirito patriottico e coraggiosa da seguire i partigiani còrsi sui monti durante la guerriglia antifrancese. Napoleone era il secondogenito di tredici figli dei quali solo otto sopravvissero. Nel 1778, Carlo Buonaparte riuscì ad assicurare ai suoi due figli maggiori – il primogenito Giuseppe e Napoleone – un posto nel collegio di Autun, l’anno seguente Napoleone poté quindi accedere all’accademia militare di Brienne, dove sarebbe rimasto cinque anni, rivelandosi – malgrado le iniziali difficoltà linguistiche e l’estraneità di quell’ambiente – uno studente attento e meritevole, particolarmente portato per le discipline esatte. Nell’ottobre del 1784 venne ammesso alla scuola militare di Parigi, dove, dopo averne seguito i corsi di studio della durata di un anno, conseguì la nomina al grado di sottotenente e venne assegnato a un reggimento di artiglieria stanziato ad Auxonne, una località non distante da Digione. Negli anni successivi Napoleone visse poveramente, riuscendo comunque a completare la propria preparazione militare, in particolare quella relativa alle tecniche di artiglieria. Una fase della sua vita nella quale divorò i libri di autori antichi e moderni, restando affascinato in special modo dalle magistrali narrazioni degli eventi bellici fatte da Giulio Cesare, mentre, al contempo, Plutarco gli suggeriva una morale di vita forte.

    Dopo il 1789 aderì all’esercito rivoluzionario e, nel 1791, a Valence, si iscrisse al Club dei Giacobini. Le sue origini còrse, però, fecero sì che mantenesse un atteggiamento distaccato di fronte agli eventi, evitando di farsi coinvolgere in quel clima così infervorato. Per un breve periodo della sua esistenza fu un giacobino, anche se poi non ebbe difficoltà a collaborare coi moderati. Nel 1793, nominato capitano proprio su raccomandazione dei suoi amici giacobini, venne inviato in missione a Tolone, un’importante piazzaforte che era stata occupata dai soldati inglesi e dalle forze controrivoluzionarie. Nel corso dell’assedio della città portuale e delle operazioni che portarono alla sua conseguente conquista, Napoleone rivelò uno spiccato intuito militare, evidenziandosi inoltre come ufficiale molto energico e attivo. Subito dopo Tolone, alla giovane età di ventiquattro anni, ricevette la nomina al grado di generale di brigata, con l’incarico di addetto all’artiglieria. Fu l’inizio della sua ascesa, anche se le alterne vicende che lo interessarono nei mesi che seguirono non furono certamente incoraggianti. Infatti, trovandosi nel 1794 a Marsiglia, fece ricostruire una fortezza distrutta dai controrivoluzionari, un’iniziativa che però insospettì alcuni membri della Convenzione, che da Parigi gli fecero pervenire un monito di censura. E non sarebbe finita lì, dato che il 6 agosto di quello stesso anno avrebbe scontato con l’arresto la sua amicizia col fratello minore di Robespierre, l’incorruttibile artesiano. Rilasciato due settimane dopo per diretta intercessione del conte Lazare Carnot – all’epoca ministro della guerra – Napoleone venne messo in disparte, trovandosi così privo di prospettive per l’avvenire, al punto che, nel 1795, il suo nome venne persino cancellato dall’elenco dei generali francesi. Un momento terribile per quel giovane e ambizioso ufficiale. Privato della paga, arrivò a addirittura a pensare di espatriare per offrire i suoi servigi al sultano di Turchia, ma poi, grazie all’interposizione dei buoni uffici della moglie di un altro convenzionale, alla fine venne riammesso in servizio. Nel settembre del 1795, avute le prove che i realisti stavano preparando moti insurrezionali approfittando del malcontento popolare generato dal carovita, Paul Barras, importante esponente della Convenzione al quale era stata affidato l’incarico della difesa interna della Francia, si ricordò di Napoleone – già conosciuto durante l’assedio di Tolone – e lo chiamò nella capitale per incaricarlo delle attività di repressione, e lui assolse pienamente al suo compito. All’esplosione della rivolta – avvenuta nel mese di ottobre, proprio nel bel mezzo di una delicata fase politica che preluse alla costituzione del Direttorio – il generale di origini còrse non esitò a impiegare l’artiglieria nelle strade di Parigi per riportare la situazione all’ordine e ci riuscì in una sola giornata. Il successivo incarico cui venne designato fu il comando dell’Armata d’Italia. Poco prima di partire per la campagna militare a sud delle Alpi, si unì in matrimonio con Giuseppina Behaurnais, la bella vedova di un generale dell’esercito ghigliottinato durante il Terrore che poi era divenuta amante dello stesso Barras. Di sei anni più vecchia di Napoleone, era comunque una donna molto intelligente e soprattutto perfettamente introdotta negli ambienti altolocati di Parigi. La campagna d’Italia si risolse in un capolavoro di condotta militare, offrendo a Bonaparte anche l’imperdibile opportunità di fornire una dimostrazione delle proprie innate capacità.

    Egli ebbe modo di manifestare la proverbiale forza che era in grado di esprimere nei momenti di grande difficoltà, una caratteristica che lo avrebbe sempre contraddistinto, fino ai tristi giorni del 1814, quando dopo la sconfitta di Lipsia dovette immergersi come un forsennato nella frenetica (ma vana) riorganizzazione militare francese. Nel 1796, in Italia, si mise alla testa di 30.000 soldati indisciplinati, affamati ed equipaggiati in maniera sommaria, che nonostante tutto, attraverso geniali piani di battaglia, in poco tempo riuscirono a battere sul campo piemontesi e austriaci. Nel corso dei combattimenti di maggiore rilievo (Montenotte, Millesimo, Dego, Arcole e Rivoli), con modernità di pensiero applicò per la prima volta nella pratica la strategia d’impiego in massa delle truppe. Agì all’opposto dei suoi nemici austriaci, che invece – seguendo pedissequamente le regole apprese nelle accademie – mossero le loro unità separate tra loro. Ai francesi bastò un anno per assumere il controllo dell’Italia settentrionale, un territorio dove, su impulso dello stesso Napoleone, vennero assunte importanti iniziative sul piano politico che condussero alla costituzione delle repubbliche Ligure, Cispadana e Cisalpina, ufficialmente entità democratiche, ma nella realtà piccoli Stati satelliti di Parigi. Col Trattato di Campoformio, che Napoleone concluse senza informare dei suoi preliminari il Direttorio, l’Austria era stata umiliata e aveva perso parte dei suoi possedimenti e, soprattutto, influenza politica.

    La lotta contro

    l’irriducibile avversario

    La prossima mossa avrebbe dovuto essere l’Inghilterra. A essa Napoleone si dedicò totalmente, elaborando ed esponendo i suoi arditi piani di guerra per la conquista dell’isola. A suo avviso, Parigi avrebbe dovuto rinunciare a un’invasione attraverso il canale della Manica per inviare, invece, un corpo di spedizione in Egitto, che allora apparteneva alla Sublime Porta. Lo scopo era quello di trasformare il territorio sulla costa meridionale del Mediterraneo in una testa di ponte per le successive spedizioni militari francesi in India e nel Medio Oriente. Nelle sue colonie si sarebbero potuti meglio colpire gli inglesi, fiaccandone l’economia, cioè l’elemento alla base della loro potenza. L’Oriente dunque, forse anche come realizzazione di quel sogno che lo aveva sempre affascinato, lo stesso di Alessandro il Macedone, che quelle terre aveva dominato. Però la Francia non disponeva dei mezzi adeguati per fare la guerra agli inglesi in Oriente, una impotenza – quella sui mari – che avrebbe costituito una costante del dramma napoleonico: infatti, la sua genialità nel mettere in atto i più ambiziosi disegni strategici cozzava sempre, inesorabilmente, con la carenza di una flotta all’altezza.

    L’ignoranza delle problematiche navali rappresenta un altro importante aspetto del pensiero e della condotta di Bonaparte: egli non ebbe mai il dominio dei mari e Londra – soprattutto dopo la vittoria del 1805 a Trafalgar – serrò il continente europeo dal mare nella morsa dell’assedio. Nelle guerre dell’epoca agraria, basate sul principio della conquista territoriale (in quanto terra e agricoltura costituivano l’obiettivo che giustificava un conflitto), il blocco continentale decretato da Napoleone si rivelò un sostanziale fallimento. Stabilito nel novembre 1806, avrebbe dovuto costituire una efficace risposta al dominio britannico rendendo l’Europa – in quel momento sotto il controllo francese – autosufficiente. Nei fatti però, rimase la necessità delle materie prime provenienti dai territori transoceanici, quindi l’effetto del blocco continentale fu quello di far entrare in crisi le industrie e il commercio. Tuttavia, nonostante il blocco, gli inglesi continuarono lo stesso a vendere i loro manufatti in Europa, aggirando le imposizioni di Parigi, attraverso il contrabbando, dunque fornendo le merci a prezzi molto più elevati. Si trattò di un fallimento rivelatosi come uno dei peggiori errori strategici di Napoleone, che nelle intenzioni avrebbe voluto imporre un embargo totale dei commerci con le isole britanniche, l’ennesimo tentativo di colpire economicamente Londra allo scopo di fiaccarla sul piano militare. Il suo sentimento ostile verso gli inglesi – suoi storici nemici, per i quali provava un profondo e malcelato disprezzo – lo portava a esprimersi duramente nei loro confronti, a definire gli uomini in armi della Corona come «cosiddetti soldati», o – peggio ancora – con riferimento al popolo, come una «nazione di bottegai». Si trattò di un atteggiamento mentale che lo condizionò negativamente per tutta la sua esistenza di condottiero. Fino alla fine, nel 1815, quando nei momenti cruciali della campagna del Belgio sottovalutò le capacità di capo militare del suo più temibile avversario sul campo di battaglia: lord Wellington. Quando nel 1806 ricorse al blocco continentale, non solo non riuscì a perseguire il suo principale obiettivo esterno (il depotenziamento degli inglesi), ma ben presto si trovò anche a dover fronteggiare sul piano interno i perniciosi effetti delle sue impopolari misure di natura economica. Olanda, Italia e Paesi scandinavi – per citarne solo alcuni – mal tollerarono la crisi che si era generata, una situazione difficile che, tra l’altro, fu anche alla base del logoramento del già non eccezionale rapporto con la Russia, nonché degli ulteriori conflitti che avrebbero presto stremato l’Impero fino a condurlo al collasso.

    Tornando all’impresa d’Egitto, Napoleone si imbarcò nel maggio del 1798 con 35.000 uomini al porto di Tolone. Si afferma che il Direttorio lo avesse autorizzato a questa nuova spedizione anche allo scopo di allontanarlo da Parigi. Dopo essere miracolosamente sfuggito alla flotta inglese e aver sbarcato le truppe presso Alessandria, vinse i mamelucchi alla battaglia delle Piramidi e poi conquistò il Cairo. In precedenza – durante il viaggio di trasferimento dalla Francia – un suo reparto si era impossessato dell’isola di Malta, che a quel tempo era governata dall’Ordine di San Giovanni, i Cavalieri di Malta. Con l’avanzata in direzione della Siria iniziarono però i problemi: nell’agosto, la sua flotta, ancorata nella rada di Abukir, venne distrutta dalla squadra navale britannica comandata dall’ammiraglio Horatio Nelson e circa un anno dopo il suo esercito fu decimato dalle epidemie in Medio Oriente, dove lo abbandonò per fare improvvisamente ritorno in patria.

    Lì trovò una situazione allarmante: gli austriaci avevano riconquistato il territorio precedentemente perduto in Italia, mentre a Parigi il Direttorio, che non era in grado di esercitare il controllo sul Paese, si trovava sotto la continua minaccia di complotti. Come di frequente accade in queste situazioni di instabilità, la tendenza è quella di orientarsi verso una figura forte, un personaggio al quale affidarsi ritenendo di ricavare i benefici di un rapido superamento della crisi dal suo presunto potere salvifico. La forma repubblicana era in pericolo, prossima a essere sostituita con un regime che si sarebbe incarnato nella figura di un militare di fama indiscussa, uno come Napoleone, che fino a quel momento per la Francia aveva conseguito una lunga serie di successi. Il 9 novembre del 1799 (o Diciotto Brumaio, secondo il calendario rivoluzionario introdotto dalla Convenzione nell’autunno del 1793), con un colpo di Stato venne soppresso il Direttorio e Bonaparte assunse la carica di primo console di Francia nell’ambito di un triunvirato del quale, oltre a lui, facevano parte

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