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I cavalieri dell'aria: Storie di aviazione e aviatori polesani e ferraresi nella Grande Guerra 1915-1918
I cavalieri dell'aria: Storie di aviazione e aviatori polesani e ferraresi nella Grande Guerra 1915-1918
I cavalieri dell'aria: Storie di aviazione e aviatori polesani e ferraresi nella Grande Guerra 1915-1918
E-book221 pagine3 ore

I cavalieri dell'aria: Storie di aviazione e aviatori polesani e ferraresi nella Grande Guerra 1915-1918

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Questo volume raccoglie e rielabora le relazioni presentate al convegno “Ali sul Po” di Rovigo del 18 novembre 2006. Oltre agli autori dei contributi di questo libro, hanno partecipato al convegno Pier luigi Lodi di Gorizia e Giorgio Evangelisti (forse il massimo storico italiano dell’aviazione). La relazione di Evangelisti è tratta dal suo libro La scrittura nel vento. Gabriele D’Annunzio e il volo su Vienna (1999).
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2018
ISBN9788828326403
I cavalieri dell'aria: Storie di aviazione e aviatori polesani e ferraresi nella Grande Guerra 1915-1918

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    I cavalieri dell'aria - Leonardo Raito

    DIGITALI

    Intro

    Questo volume raccoglie e rielabora le relazioni presentate al convegno Ali sul Po di Rovigo del 18 novembre 2006. Oltre agli autori dei contributi di questo libro, hanno partecipato al convegno Pier luigi Lodi di Gorizia e Giorgio Evangelisti (forse il massimo storico italiano dell’aviazione). La relazione di Evangelisti è tratta dal suo libro La scrittura nel vento. Gabriele D’Annunzio e il volo su Vienna (1999).

    L’AVIAZIONE NELLA PRIMA GUERRA MODERNA

    Leonardo Raito

    La prima guerra mondiale segnò uno spartiacque epocale tra l’Ottocento e il Novecento. Dal punto di vista politico, il conflitto sancì l’inadeguatezza dei vecchi regimi, incapaci ormai di governare le forze del cambiamento e di dare seguito a quelle richieste di partecipazione che si facevano sempre più pressanti dopo la partecipazione forzata del soldato massa al conflitto. In Italia lo stato liberale si sgretolò sotto il peso di una vittoria quanto meno iniqua, che non servì a placare la necessità di giustizia sociale e che non seppe rilanciare una economia in difficoltà sotto il peso dei debiti e delle difficoltà prodotte dal tentativo di riconversione industriale. Dal punto di vista tecnologico, la guerra rappresentò il primo grande conflitto industriale, in cui tutto un apparato di stato (industriale, economico, agricolo) venne posto al servizio di un esercito che combatteva al fronte una dispendiosa ed estenuante guerra di trincea. Nel corso della prima guerra mondiale vennero sperimentati i più moderni modelli di armamenti. Obici, cannoni, mitragliatrici. Anche i carri armati fecero la loro comparsa sul finire del conflitto. Come strumenti di supporto alla fanteria, queste scatole d’acciaio, pur denotando tutti i limiti di una tecnologia ancora allo stato sperimentale, anticiparono uno dei grandi temi strategico-militari del dopoguerra, ovvero la funzionalità di un supporto corrazzato in grado di diventare postazione di fuoco mobile nella guerra di movimento. Nel frattempo, durante il conflitto italo turco, si vedevano effettuare i primi esperimenti sull’utilizzo degli aeroplani come strumenti d’offesa. Fu così che già nel 1914 l’aviazione iniziava a diventare specialità bellica utilizzata in modo più o meno massiccio su tutti i fronti della Grande Guerra. Inizialmente veniva considerata come una specie di cavalleria volante al supporto delle forze di terra e negli alti comandi pochi prevedevano per la nuova arma una funzione diversa da quella di ricognizione. Ciò tuttavia, l’avanzamento del conflitto, le continue migliorie tecniche e d’armamenti, proiettarono l’aviazione in una dimensione diversa, contribuendo a costruire figure di piloti che si ritagliavano il ruolo di assi a suon di abbattimenti.

    Nella logica di un modernismo sfrenato che aveva fondamenti sia nello sviluppo economico che nelle correnti ideologico intellettuali in voga nel tempo, l’aviazione rappresentò insieme il coronamento di un sogno e di una prospettiva. L’antico sogno di volare che ha accompagnato l’evoluzione della specie umana. La prospettiva di superare un limite, attraverso la tecnologia, nella prospettiva di poter domare l’indomabile.

    I primi piloti furono autentici cavalieri dell’aria, ardimentosi eroi che cavalcavano come destrieri queste futuribili macchine volanti, di certo non rapportabili agli aerei che combatteranno la seconda guerra mondiale o ai moderni caccia da combattimento, me che rappresentavano all’epoca il prodotto del massimo sforzo e del massimo ingegno applicato alla motoristica e all’aerodinamica. Queste sensazioni attingevano a piene mani dalle ideologie avanguardiste che vedevano nella guerra un momento di redenzione, rinascita, purificazione dello spirito guerriero. In questa logica, non possiamo dimenticare, per il contesto intellettuale italiano, il futurismo. Marinetti e gli altri avanguardisti coltivavano l’amore per la velocità, le tecnologie e la violenza. In un tale panorama ideale, automobile e aereo rappresentavano il trionfo tecnologico dell’uomo sulla natura, macchine che assumevano caratteri quasi mitologici, mitici strumenti di combattimento con cui affrontare duelli epici, misurando forza, coraggio e ardimento. Alla fine della guerra, ogni esercito annoverava i suoi assi, i suoi venerati eroi. George Guynemer per la Francia, Albert Ball per l’Inghilterra, Manfred Von Richtofen, il mitico barone rosso per la Germania, Francesco Baracca per l’Italia. In mezzo a questi assi, operarono tanti piloti che non hanno avuto la ribalta della cronaca, ma che hanno offerto un contributo prezioso alla causa dei propri eserciti. Raccontare queste storia dimenticate, ci permette di aprire una nuova pagina della storia del conflitto. Ho pensato di dividere questo libro in due parti. La prima dedicata agli sviluppi tecnici e strategici dell’aviazione nel conflitto. La seconda dedicata agli aviatori. Potrebbe sembrare un modo romantico, forse antimoderno, di tenere distinti gli uomini dalle macchine. Lo reputo invece un modo concreto di aiutare a comprendere che, nelle grandi trasformazioni prodotte dall’era dell’industrialismo, spesso i destini degli uomini e dei prodotti della tecnologia si sono fusi. La Grande Guerra è stata storia di uomini e di tecnologie. Capire gli uni e le altre ci permette di costruire uno spaccato realistico di un conflitto sanguinoso e drammatico, destinato a segnare per sempre, e in profondità, la storia dell’umanità.

    Bibliografia

    R. Gentili, P. Varriale, I reparti dell’aviazione italiana nella Grande Guerra, SMA, Roma 1999.

    R. Gentili, A. Iozzi P. Varriale, Gli assi dell’aviazione italiana nella Grande Guerra, SMA, Roma 2002.

    B. Di Martino, I dirigibili italiani nella Grande Guerra, SMA, Roma 2005.

    B. Di Martino, Ali sulle trincee: ricognizione tattica e osservazione aerea nell’aviazione italiana durante la Grande Guerra, SMA, Roma 1999.

    P. Ferrari (a cura di), La Grande Guerra aerea 1915-18, Rossato editore, Valdagno 1994.

    M. Isnenghi, La Grande Guerra, Giunti, Firenze 1993.

    Un idrovolante sul Po. Una testimonianza concreta di un rapporto del tutto particolare tra i polesani e il mondo del volo.

    IL POTENZIALE BELLICO DELL’AVIAZIONE ITALIANA NEL 1915 ALLA VIGILIA DELL’INIZIO DELLE OPERAZIONI

    Luigi Emilio Longo

    Compiti e ruoli

    «Questa lotta nell’aria, come ho già detto e non mi stancherò mai di ripetere, è inevitabile e la sua inevitabilità è sorta nel momento preciso in cui l’uomo apprese a sostenersi nell’aria. Come si designerà nei suoi particolari io non so, né è possibile prevederlo, ma è certo che all’idea di questa lotta aerea bisogna, fin d’ora, abituare la nostra mente perché i mezzi si adattino a combatterla nelle migliori condizioni».

    Era il giugno del 1911 e l’intuizione dell’allora Maggiore Giulio Douhet si sarebbe presto avverata oltre ogni previsione. Per molte ragioni l’Aviazione è l’arma che meglio raffigura la Prima Guerra Mondiale quale moderno conflitto industriale, diverso e innovativo rispetto all’esperienza storica. La novità del mezzo, alla cui rapidissima evoluzione la guerra avrebbe dato un contributo decisivo, si saldò con le premesse, solo in parte realizzate, di offrire un ruolo individuale e una risoluzione rapida alla più sanguinosa paralisi di massa della storia.

    L’aereo era veramente l’arma nuova perché nell’agosto 1914 la sua storia era poco più che decennale e l’esordio bellico risaliva a meno di tre anni prima ¹. Allo scoppio della guerra, l’aereo aveva già superato i 200 chilometri orari di velocità, i 7850 metri di quota, le 24 ore di durata e i 1900 chilometri di distanza. La vera dimostrazione di maturità del mezzo aereo era però giunta con la guerra Italo-Turca: il primo impiego reale bellico era stato appannaggio dell’Italia, una ricognizione di 61 minuti effettuata il 23 ottobre 1911 dal Cap. Carlo Maria Piazza lungo la strada fra Tripoli e Azizia e nei mesi successivi furono concepiti e sperimentati tutti i possibili impieghi militari, dal bombardamento al trasporto, dalla direzione del tiro alla caccia.

    L’Italia entrò in guerra con 120 aerei e una ottantina di piloti operativi più una manciata di dirigibili, con piccole riserve e una minima organizzazione addestrativa. A fronteggiarli stavano un centinaio tra velivoli e idrovolanti austriaci, in parte già provati in combattimento sui fronti orientali.

    Come per tutti i belligeranti, tradurre questo embrione in uno strumento bellico efficiente rappresentò la sfida principale dei primi mesi di guerra. Fu necessario creare organizzazioni complesse, in grado di produrre aerei competitivi, addestrarne gli equipaggi, costruirne le basi, assicurarne il rifornimento, tracciarne la dottrina d’impiego. Non esistendo forze aeree autonome, la prima difficoltà fu data dalla frammentazione dei mezzi fra gli eserciti e le marine, spesso in contrapposizione fra loro per strappare alle ditte il gettito maggiore o i ritrovati più moderni.

    In Italia solo nell’ultima fase del conflitto si sarebbe pervenuti alla creazione di un Commissariato per l’Aeronautica ² preposto agli aspetti industriali al quale corrispondeva, per quelli operativi, un Comando Superiore d’Aeronautica, mentre quelli tecnici erano affidati a una Direzione Tecnica dell’Aviazione Militare ³.

    All’Aviazione fu assegnato innanzitutto il compito della ricognizione, fino allora prerogativa della Cavalleria. La stagnazione del fronte avrebbe portato tale impiego a raffinarsi, differenziandosi fra la scoperta di movimenti di truppe, la direzione del tiro d’artiglieria, il monitoraggio di campi d’atterraggio e di basi navali anche molto lontani dal fronte.

    Ritirati rapidamente dal servizio i Blériot XI-2, il compito passò ai biplani Farman e Caudron, tutti nella configurazione a travi di coda. Più avanti si sarebbe passati ai tipi a fusoliera quali SAML e Pomilio. Le maggiori prestazioni consentirono di migliorare gradualmente l’armamento, tanto in funzione difensiva che offensiva con bombe di piccolo calibro. Per la ricognizione a lungo raggio trovò utile impiego lo SVA, costruito dall’Ansaldo su progetto degli ingegneri militari Savoja, Verduzio e Rosatelli ⁴.

    La caccia, la specialità più nota e ambita, nacque dall’esigenza di contrastare i ricognitori avversari. Dapprima le limitate prestazioni dei velivoli disponibili e la mancanza di una rete di avvistamento resero improduttiva la difesa basata sulla sola reazione agli allarmi. Le cose sarebbero mutate con l’arrivo dei primi monoposto che, abolendo l’osservatore, risparmiavano peso e acquistavano un margine di velocità e manovrabilità sui biposto; e nell’aprile del 1916 l’arrivo del Nieuport Ni 10, detto Bebè per le piccole dimensioni, avrebbe consentito di cogliere le prime vittorie. In ogni caso, l’armamento consisteva in una o due mitragliatrici di piccolo calibro, accessibili direttamente anche in volo per poterle sbloccare nei non infrequenti inceppamenti. Gli scontri, solitamente risolti con duelli aerei individuali, sarebbero assurti solo occasionalmente alla consistenza di vere battaglie aeree.

    Pur numericamente minoritario, il ruolo più innovativo si sarebbe rivelato il bombardamento che sfruttava la possibilità di colpire in profondità o, comunque, di ignorare le fortificazioni e le trincee che bloccavano il fronte terrestre. In funzione tattica, biposto analoghi o identici a quelli da ricognizione fungevano da cannoni o mortai volanti in appoggio diretto alle truppe mentre con dirigibili o aeri plurimotori era possibile effettuare azioni a lungo raggio contro nodi di comunicazione, depositi, fabbriche. Con una diversa scelta di obiettivi, questi mezzi potevano anche effettuare missioni strategiche, così come fatto dai tedeschi su Londra, seppur con limitato successo.

    L’impiego in massa, propugnato in primo luogo da Douhet e Caproni, prometteva di abbreviare il corso della guerra proponendo attacchi decisivi contro i centri decisionali e il morale della nazione avversaria. Di questo, in realtà, si sarebbe visto piuttosto poco, ma resta il fatto che i trimotori Caproni, in versioni via via più evolute, sarebbero stati fra i maggiori successi dell’industria bellica italiana, specie considerando che l’Austria-Ungheria non avrebbe saputo sviluppare (e tanto meno produrre) nulla di paragonabile.

    Per contro, i dirigibili non avrebbero mantenuto le promesse. L’Italia, nel 1915, era la prima potenza dirigibilistica dell’Intesa e la seconda del mondo, ma la perdita di due aeronavi nei primi mesi di guerra ( Città di Ferrara il 7 giugno e Città di Jesi il 6 agosto) avrebbe dimostrato in maniera drammatica la vulnerabilità di questi giganti del cielo e avviato la riflessione critica sulla loro utilità militare. Più positivo sarebbe risultato, invece, l’impiego in ruoli meno aggressivi quali la scorta convogli o il pattugliamento delle vie di comunicazione. Molto ampio sarebbe stato l’impiego di palloni frenati, i cosiddetti drachen, quali posti di osservazione lungo il fronte.

    I piloti, in generale, provenivano da tutti i Corpi e gradi. Poteva anche accadere che la condotta del mezzo fosse affidata a un caporale, restandone affidato all’ufficiale osservatore il comando. D’altro canto, all’epoca, il distacco fra ufficiali e sottufficiali era piuttosto marcato (ad esempio, il sottufficiale non poteva entrare in locali pubblici frequentati da ufficiali, durante le manovre l’ufficiale aveva diritto all’alloggio mentre il sottufficiale dormiva all’addiaccio, ecc.) e anche nella nuova specialità si tendeva a mantenerlo, anche sul piano uniformologico: infatti, benché le prove di volo per il conseguimento del brevetto di pilota militare fossero eguali per tutti, l’ufficiale portava sulle manopole l’aquila d’oro sormontata dalla corona reale mentre questa non figurava per l’uniforme del sottufficiale, dove il distintivo era applicato a metà manica. La prima guerra mondiale avrebbe peraltro fatto immediata giustizia di queste assurde discriminazioni.

    Le scuole di volo

    Nel gennaio del 1910 fu costituita sul campo romano di Centocelle la prima scuola di volo militare in Italia. Presso le scuole di volo, che furono istituite in molte località lontane dal fronte da Passignano sul Trasimeno a Malpensa, da Pisa a Mirafiori i semplici programmi addestrativi erano improntati a una forte gradualità e gli allievi familiarizzavano con decolli e atterraggi in una lunga serie di brevissimi voli, anche inferiori ai 10’. Limitata era la formazione teorica, mentre poca attenzione era dedicata all’addestramento operativo che veniva completato ai reparti.

    D’altronde non esisteva un regolamento d’impiego, una normativa di guida e di consigli all’infuori di quelle a carattere disciplinare: il diporto, l’uniforme, il saluto, la ritirata, ecc. Sarebbero stati i Comandanti di Squadriglia, coadiuvati dai loro piloti, a studiare le formazioni atte ad eseguire i bombardamenti così come sarebbero stati i singoli piloti da caccia che, a seconda delle attitudini ed esperienze, avrebbero trovato i sistemi più efficaci di abbattere per non essere abbattuti.

    Uno dei campi più frequentati e noti era quello di Cascina Costa, che peraltro si poteva chiamare scuola di volo solo perché vi volavano degli aeroplani, ma che in realtà altro non era che un baraccamento di zingari senza nemmeno l’acqua e privo di qualsivoglia altra prima necessità. Solo l’intervento della Provvidenza, sotto forma di un violento ciclone, riuscì a sistemare il campo: le baracche, affumicate e untuose, vennero rifatte in muratura e così hangars, uffici, infermeria, cucina truppa, corpo di guardia, magazzini, mensa e circolo ufficiali, cisterna dell’acqua, ecc. Le file si ingrossavano sempre di più, si era giunti a 160 ufficiali e 600 militari di truppa già in possesso del brevetto su altro tipo di apparecchio per compiere il passaggio sul SAML A 12.

    Per i voli erano disponibili 150 velivoli fra Aviatik A 10 e SAML A 12 con venti istruttori.

    Il suo rendimento era destinato a primeggiare; trenta velivoli alla volta si susseguivano in decolli e atterraggi e in un solo giorno furono compiuti 1400 voli di cui 30 di brevetto.

    La considerazione nella quale era tenuta la scuola fece sì che le fosse affidato l’addestramento per il pilotaggio di due gruppi di ufficiali stranieri, 20 Giapponesi e 10 Australiani.

    Arrivarono i primi porta-bombe da sistemare fra le gambe di forza del carrello con un sistema di filo flessibile per lo sganciamento a portata di mano del pilota. Per tacca fissa di mira era stata praticata una feritoia larga 10 cm nella tela in fondo alla carlinga dalla quale il pilota poteva vedere il bersaglio e a caso faceva la stima del tempo che avrebbe impiegato la bomba a raggiungere il bersaglio con la distanza per lo sganciamento. Giunta la prima mitragliatrice Lewis, senza alcuna istruzione, si provvide alla sua installazione fra i due montanti anteriori centrali della carlinga, in modo che per il puntamento l’osservatore, che occupava il seggiolino posteriore, doveva alzarsi in piedi e la canna passava di poco sulla testa del pilota. Durante il primo esperimento di tiro i bossoli finirono nell’elica e l’inconveniente fu eliminato applicando a fianco dell’otturatore un cestino di filo di ferro tipo scola-insalata fungente da raccogli-bossoli.

    Un’altra scuola di volo assurta a grande notorietà fu quella di Taliedo, dotata di due tipi di aerei, il Blèriot con motore Anzani da 35 HP e l’Henri Farman con motore Gnome da 50 HP. Il primo veniva impiegato per compiere, rullando, linee rette e qualche piccolo salto, né si sarebbe potuto fare di più essendo la manetta del gas bloccata a metà del suo settore. Le rette erano lunghe circa 500 mt, e non sempre si riusciva a compierle completamente perché il velivolo imbardava per la scarsa velocità; inoltre il motore, non girando a regime, di frequente si fermava e nel rimetterlo in moto, data la mancanza del parabrezza, si aveva una continua schizzata di olio di ricino sul viso del pilota.

    L’Henri Farman

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