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I sopravvissuti del volo 305
I sopravvissuti del volo 305
I sopravvissuti del volo 305
E-book417 pagine5 ore

I sopravvissuti del volo 305

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Info su questo ebook

Tradotto in 20 Paesi
Oltre 1 milione di copie vendute

Un grande thriller numero 1 negli Stati Uniti

«Ben costruito e congegnato come un orologio svizzero, ricco di azione senza tregua, con una trama avvincente e tutti gli ingranaggi si incastrano alla perfezione.» 
Diana Gabaldon

Harper Lane è in volo da New York a Londra, dove dovrà prendere la decisione più importante della sua vita. Ma una misteriosa turbolenza fa precipitare l’aereo nella campagna inglese, e la priorità, per lei e per gli altri passeggeri, diventa sopravvivere al disastro. Ben presto però i superstiti si rendono conto che nell’aria c’è qualcosa di strano e inspiegabile. Il mondo sembra diverso da come lo ricordavano. E forse l’incidente non è stato casuale: potrebbe esserci un collegamento tra alcuni dei passeggeri che si trovavano sul volo 305. Ma quale? 
Nick Stone è un uomo d’affari sempre pronto all’azione; Sabrina Schröder una dottoressa tedesca dai modi stravaganti, mentre Yul Tan, genio dell’informatica, ha trascorso tutto il tempo della traversata a digitare sul suo portatile, e non ha smesso neanche dopo lo schianto. Infine c’è Grayson Shaw, figlio di un magnate dell’industria: se ne sta sulle sue, scontroso, alterato dall’alcol, e tratta gli altri dall’alto in basso. Chi di loro sa cosa è realmente accaduto? Quale enigma lega il loro volo a un mistero più grande, che avrà effetti incredibili sul mondo intero, travolgendo i concetti stessi di spazio e tempo?

Un thriller da manuale: scienza, azione, colpi di scena e una storia che travolge il lettore dalla prima all’ultima pagina.

Un autore da 1 milione di copie, tradotto in 20 Paesi

Cinque sconosciuti
Una corsa contro il tempo
Un enigma mortale

Presto un film per la 20th Century Fox
A.G. Riddle
Cresciuto in Nord Carolina, da giovane ha fondato la sua prima società con gli amici d’infanzia. Dopo aver lavorato dieci anni in alcune aziende on line, negli ultimi tempi si è dedicato esclusivamente alla sua vera passione: scrivere romanzi. Oltre a I sopravvissuti del volo 305, la Newton Compton ha pubblicato anche Atlantis Saga (Atlantis Genesi, Atlantis Secret e Atlantis Code).
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2016
ISBN9788854196155
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    Anteprima del libro

    I sopravvissuti del volo 305 - A.G. Riddle

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    1325

    Dello stesso autore:

    Atlantis Genesi

    Atlantis Secret

    Atlantis Code


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Departure

    Copyright © 2014 by A.G. Riddle.

    Published in agreement with the author, c/o BAROR

    INTERNATIONAL, INC., Armonk, New York, U.S.A

    All rights reserved.

    Impaginazione e traduzione dall’inglese di Sandro Ristori

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9615-5

    www.newtoncompton.com

    A.G. Riddle

    I sopravvissuti del volo 305

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A chi è abbastanza ostinato da non smettere mai di sognare

    Prima parte

    Sopravvissuti

    Capitolo uno

    Harper

    Manca soltanto un’ora e l’aereo atterrerà, e io non potrò più rimandare la Decisione. Sarò costretta a fare una scelta di cui potrei pentirmi per il resto della vita. Forse mi ritroverò in un incubo di caos e povertà. O nella beatitudine più pura. Un cinquanta e cinquanta di possibilità, direi. Io non ho paura. Per niente. Ogni tanto, non ci penso nemmeno, alla Decisione. Per un paio di secondi.

    Come la maggior parte degli scrittori, non giro molto. Né vengo pagata molto. Volo in economy e, nove volte su dieci, mi schiacciano tra un tizio febbricitante che tossisce quando meno te lo aspetti e un uomo sposato che puntualmente mi chiede: «E come mai una ragazza carina come te è ancora single?». Inizio ad avere il sospetto che le compagnie aeree abbiano un file su di me, con una bella nota accanto al mio nome: «Non si lamenta mai: datele i posti peggiori».

    Ma non stavolta.

    Più o meno sei ore fa, ho fatto il mio ingresso in un mondo incantato, un posto magico ed effimero che esiste soltanto a dodici chilometri da terra: la prima classe di un volo internazionale. Questo luogo meraviglioso, che appare e scompare come un universo parallelo, ha riti e usanze tutti propri. Ho cercato di godermela fino in fondo, dato che sicuramente sarà la mia unica occasione: con ogni probabilità il biglietto costa quanto due mesi d’affitto del mio minuscolo appartamento di Londra. Se mi avessero dato i soldi sarei stata più contenta, ma era un regalo, o meglio, un tentativo di manipolazione da parte del miliardario che mi ha presentato la Decisione all’incontro di New York.

    Decisione alla quale io non sto pensando. No, niente affatto. In questo momento sono in una zona franca. Una zona del tutto de-decisionalizzata.

    Il volo da New York a Londra dura meno di sette ore. Guardo lo schermo ogni quindici minuti, per controllare dove siamo, sperando che l’aereo continui senza sosta, che voli fino a esaurire tutto il carburante. Forse potrei passare alla hostess un bigliettino con su scritto: «Se l’aereo scende sotto i dodici chilometri di quota, salterà in aria!».

    «Ehi, ma bisogna ammazzare qualcuno per farsi portare un drink? E che problema ha Internet?».

    Guai in paradiso. Il regno di Prima Classe conta dieci abitanti, e per quanto ne so io solo due sono infelici. Ho soprannominato quella sacca di inquietudine il Corridoio dei commenti maligni e meschini: i suoi inquilini, entrambi sulla trentina, si sono sfidati in una vera e propria gara a base di bevute e sarcasmo. Conosco uno di loro, l’individuo che al momento insiste per avere un altro drink, e so bene qual è il suo problema, perché c’entro anch’io. Si chiama Grayson Shaw. Ho fatto davvero di tutto per evitarlo.

    «Insomma, dico a te», urla Grayson.

    Un’assistente di volo magrolina e scura di capelli – JILLIAN, si legge sulla targhetta – si affaccia in corridoio con un sorriso flebile. «Signore, il capitano ha acceso il segnale per le cinture di sicurezza e ha sospeso tutti i…».

    «Per l’amor del cielo, lanciami due bottigliette e basta. Siamo tipo a due metri di distanza».

    «Ignoralo, Jillian», dice l’altro scocciatore. «Due bottigliette non risolveranno il suo problema».

    «Grazie, sconosciuto del 2A. Davvero arguto».

    Grayson si alza in piedi proprio mentre un’altra turbolenza stravolge l’aereo. Barcolla in avanti, lo sento sbattere contro il mio poggiatesta. I capelli, biondi e lunghi, gli finiscono davanti al viso e per fortuna gli impediscono di vedermi. Si ferma davanti al mio posto in prima fila.

    «Avanti, non è poi così difficile. Sei una cameriera che lavora in mezzo al cielo, no? Perciò ora passami le bottiglie».

    Il sorriso prestampato di Jillian scompare. Si allunga per prendere qualcosa, ma il telefono dell’aereo squilla e lei afferra la cornetta.

    Grayson si massaggia le tempie e si gira di lato, i suoi occhi incontrano i miei. «Tu. Cristo, di male in peggio».

    Sta quasi per partire all’assalto, quando l’altro scocciatore gli appare davanti, a una distanza sgradevolmente ravvicinata. Devo dire che è piuttosto affascinante: capelli scuri e corti, viso magro e sguardo risoluto.

    Grayson lo fissa per un secondo e poi inclina la testa. «Ti serve una mano?»

    «Veramente, sei tu quello che ha bisogno di una mano».

    Di solito non vado pazza per questo genere di sfoggio di testosterone… ma devo ammettere che l’eroe del 2A non è niente male. Ha un non so che di misterioso e familiare allo stesso tempo.

    Grayson apre la bocca per ribattere, ma non ne ha modo: il botto alle sue spalle è assordante. L’aereo perde quota, poi si stabilizza, trema e ondeggia come un sassolino durante un terremoto. I due sono finiti a terra di fronte a me, rotolano di qua e di là, forse si stanno picchiando; ma l’aereo mi sballotta così forte che non saprei dirlo con certezza.

    Il caos è assoluto. Le hostess cercano di raggiungere i loro posti aggrappandosi agli schienali, ricacciando gli oggetti negli appositi spazi appena possono, urlando a squarciagola ai passeggeri di allacciare le cinture. Dagli altoparlanti esce una voce, ma non riesco a comprendere quel che dice.

    Gli scompartimenti sopra le nostre teste si aprono di colpo, e di fronte a me cala la maschera dell’ossigeno: una specie di conca di plastica gialla, rotonda e con la base piatta. Saltella su e giù legata al tubo come una pignatta appesa troppo lontano, irraggiungibile.

    Grayson è scomparso – dove sia finito non lo so e non mi interessa. L’altro scocciatore si alza in piedi, cerca di tenersi in equilibrio reggendosi alla paratia. Scruta in lungo e in largo il corridoio, strizzando appena gli occhi, guarda a destra e sinistra, come in cerca di qualcosa.

    Infine, si lascia cadere sul sedile di fianco al mio e allaccia la cintura ben stretta.

    «Ciao».

    «Ciao», mimo con le labbra. Non sono sicura che la mia voce sia udibile in mezzo al frastuono.

    «Riesci a sentirmi?».

    Non so per quale motivo, la sua voce è chiara e cristallina, con un accento americano e un’inflessione calma che è decisamente fuori posto, con tutto il pandemonio che esplode intorno a noi. Sembriamo all’interno di una bolla, io e lui: due sconosciuti che parlano del più e del meno, mentre il mondo che li circonda va in frantumi.

    «Sì, ce la faccio», rispondo, e finalmente riesco a sentire le mie stesse parole, anche se sembrano lontane, flebili.

    «Allaccia la cintura, metti la testa tra le ginocchia e copriti la nuca con le mani. Non alzare mai lo sguardo».

    «Perché?»

    «Ci stiamo per schiantare, credo».

    Capitolo due

    Nick

    Sono vivo, ma sono stato meglio in vita mia. Decisamente.

    Mi fa male ogni centimetro del corpo. Il sordo ronzio dell’alcol è stato rimpiazzato da un mal di testa martellante. Il bacino è messo peggio: ho abbassato la cintura appena prima dello schianto, nella speranza di non danneggiare nessun organo interno. Ha funzionato, ma non senza danni collaterali. Provo a slacciarla, ma mi fermo.

    C’è troppa calma.

    Le luci sono fuori uso, soltanto il chiarore della luna penetra dai finestrini. Sento qualche flebile lamento alle mie spalle. C’erano circa 250 persone su questo 777 decollato dall’aeroporto JFK. Se anche solo una minima parte dei passeggeri fosse sopravvissuta, la cabina dovrebbe essere sommersa dalle voci, anzi, dalle urla. Questo silenzio è un brutto segno.

    Non ho perso conoscenza, le braccia funzionano e credo di essere in grado di camminare. Sono in condizioni decenti, ma scommetto che gli altri passeggeri non sono stati così fortunati, considerata la violenza dello schianto. Devo aiutarli. È la prima volta da… be’, da sempre, per quanto mi ricordo, che mi sento quasi normale. Ho un obiettivo, una missione urgente. Mi sento vivo.

    La donna al mio fianco non si è ancora mossa. Si è accovacciata con la testa tra le gambe e le dita intrecciate sulla nuca, proprio come le ho detto di fare.

    «Ehi ». La mia voce è rauca.

    Non si muove.

    Mi sporgo e le scosto i capelli biondi dal viso. Si volta appena e mi guarda con un occhio solo, iniettato di sangue. Si alza pian piano, scoprendo un viso aggraziato e anche l’altro occhio, sempre iniettato di sangue. Ha pure una ferita, che dalla tempia corre fino alla mascella.

    «Stai bene?».

    Muove il capo su e giù e deglutisce. «Sì, credo di sì».

    Che altro devo fare? Controllare che non sia sotto shock? «Come ti chiami?»

    «Harper. Harper Lane».

    «Quando sei nata, Harper?»

    «L’undici dicembre». Sorride debolmente, e non specifica l’anno.

    Sì, sta bene. Deve essere sulla trentina, ed è inglese. Non me ne ero accorto prima. Probabilmente era diretta a casa, a Londra.

    «Resta ferma. Torno subito da te».

    E ora la prova decisiva: slaccio la cintura, mi alzo in piedi e perdo subito l’equilibrio, colpendo forte la paratia con la spalla. L’aereo è inclinato di trenta gradi, leggermente in pendenza a sinistra e con il muso a terra. Mi appoggio alla paratia e aspetto che il dolore si plachi.

    Do un’occhiata in giro, guardo lungo il corridoio… e quasi svengo per lo shock.

    L’aereo è andato. Quasi completamente. La prima classe e la business: ecco tutto ciò che ne rimane. Più in là si intravedono soltanto rami di alberi che si intrecciano attraverso lo squarcio. La maggior parte dei viaggiatori era in economy, e non c’è traccia di sopravvissuti: soltanto foresta e silenzio. Per quanto ne sappia, l’altra parte dell’aereo potrebbe trovarsi a chilometri di distanza, distrutta in mille pezzi. Sono sorpreso che non abbiamo fatto la stessa fine.

    Sento un ticchettio ritmico dall’altro lato della paratia. Barcollando, oltrepasso il divisorio tra la prima classe e la cucina. È Jillian, l’assistente di volo, che bussa alla cabina del pilota.

    «Non escono», dice appena mi vede.

    Non faccio in tempo a risponderle che si appoggia alla parete, afferra il telefono e rimane in ascolto per un secondo. Poi lo scaglia via. «Morto».

    Credo sia sotto shock. Cosa devo a fare a questo punto? Qual è la priorità? Lancio un’occhiata alle scintille che scoppiettano sul metallo contorto. «Jillian, c’è pericolo d’incendio?»

    «Incendio?»

    «Sì. C’è del carburante in questa sezione?». Sembra una domanda sensata, ma chi può dirlo?

    Jillian guarda dietro di me, confusa. «Non dovrebbero esserci rischi. Il comandante ha scaricato il carburante. O almeno così pensavo…».

    Un signore di mezza età in prima classe solleva la testa. «Quale incendio?».

    Intorno a lui, gli altri passeggeri iniziano a ripetere la stessa parola sottovoce.

    «Dove siamo?». Mi sembra la domanda più ovvia, adesso.

    Jillian ha gli occhi persi nel vuoto, ma Harper risponde: «Stavamo volando sopra l’Inghilterra». Quando incrocio il suo sguardo, prosegue: «Stavo… guardando la rotta del viaggio sul monitor».

    È la prima buona notizia finora, ma non ho il tempo per godermela: la parola incendio ha raggiunto la persona sbagliata.

    «C’è un incendio! Dobbiamo uscire da qui!», grida qualcuno. In tutto l’aereo, la gente inizia a slacciarsi le cinture e a dimenarsi sul proprio sedile: una massa di persone in preda al panico si accalca nello spazio strettissimo. Diversi passeggeri si fanno strada a forza verso lo squarcio posteriore, ma tornano indietro spaventati dall’altezza del salto. «Siamo in trappola!», urlano, e poi: «C’è un incendio!», e le cose iniziano a prendere una brutta piega. Una signora anziana in business class inciampa e cade, e viene calpestata dalla folla che ora corre in avanti, proprio verso me e Jillian. Siamo immobili, senza parole. Le urla della donna non li rallenta neanche di un attimo.

    Continuano ad avanzare, contro di noi.

    Capitolo tre

    Nick

    L’avanzata della folla costringe Jillian a riprendersi. Allarga le braccia, ma la voce non le viene in aiuto: persino io riesco a sentirla a malapena, in mezzo a tutto quel chiasso. Vederla lì, disarmata contro la calca impazzita, mi fa scattare.

    Avanzo di qualche passo e mi frappongo tra Jillian e la folla, ben saldo sui piedi. Urlo, e la mia voce riecheggia forte e chiara, più di quanto mi aspettassi. «Fermi! Fermatevi tutti, state facendo male a quella donna! Ascoltate. Non… c’è… nessun… incendio». Scandisco le parole in modo chiaro, sempre più lentamente e con più calma. «Capito? Nessun incendio. Non c’è pericolo. Cercate di rilassarvi, niente paura».

    Qualche altro spintone, e la folla torna tranquilla: tutti gli occhi adesso sono fissi su di me.

    «Dove siamo?», mi urla una donna.

    «In Inghilterra».

    Quella parola serpeggia tra la folla, bisbigliata piano, come se fosse un segreto.

    Jillian, alle mie spalle, si sposta e si appoggia a un sedile.

    A un tratto, i sopravvissuti iniziano a tempestarmi di domande, neanche fossimo a una conferenza stampa alla Casa Bianca.

    «Presto arriveranno i soccorsi», mi ritrovo a dire. «Ma in questo momento è essenziale mantenere la calma. Se vi fate prendere dal panico qualcuno finirà per farsi male, e i responsabili dovranno risponderne davanti alla legge». Dopo un attimo di silenzio, aggiungo, per sicurezza: «E poi la stampa ovviamente verrà a sapere chi avrà causato ulteriori danni dopo lo schianto, perciò aspettatevi pure di finire sul telegiornale». Ricorrendo alla minaccia dell’umiliazione pubblica – la più grande paura della maggior parte delle persone – credo di aver centrato l’obiettivo. Il panico è sedato, e rimpiazzato da qualche sguardo diffidente lanciato di sottecchi. Ognuno si chiede se il proprio vicino li denuncerà per la folle corsa verso l’uscita.

    «Se siete feriti, rimanete al vostro posto. Con delle lesioni interne, la cosa peggiore che potete fare è muovervi. Il personale di soccorso vi controllerà immediatamente appena arriverà, e deciderà se e come spostarvi». Sì, direi che suona bene.

    «Dov’è il capitano?», chiede un uomo di mezza età che ha decisamente qualche chilo di troppo.

    Per fortuna (o sfortuna), le bugie continuano ad accorrere prontamente alle mie labbra: «Sta coordinando le operazioni di soccorso, proprio in questo momento».

    Jillian mi guarda confusa. Sta cercando di capire se è una buona notizia o una bugia. Mi chiedo se mi potrà essere d’aiuto, e fino a che punto.

    «Chi è lei?», urla qualcun altro.

    «È solo un passeggero, come tutti noi». A quanto pare l’idiota del posto 2D è sopravvissuto. Che sfortuna. Mi fissa con quei suoi occhi vitrei. «Ignoratelo: è solo un pagliaccio».

    Scrollo le spalle. «Certo che sono un passeggero. Chi mai dovrei essere? Ora, chiunque riesca a camminare mi ascolti: scenderemo dall’aereo in modo ordinato. Sedevi, tutti quanti, al posto più vicino e aspettate di essere chiamati. Questa signorina», faccio un cenno a Jillian, «aprirà le uscite d’emergenza, e quando chiamerà la vostra fila, farete tutto quello che vi dice. Se c’è un dottore a bordo, venga da me immediatamente».

    Jillian apre l’uscita di sicurezza sul lato sinistro, e sento lo scivolo d’emergenza che si gonfia. Rimango in piedi al suo fianco e do uno sguardo fuori: lo scivolo rimane impigliato tra gli alberi che ci circondano, ma i passeggeri riusciranno comunque a scendere. Il muso dell’aereo è ancora a un paio di metri da terra; tutta la sezione è tenuta su dagli alberi, ma sembra piuttosto stabile.

    «E ora che facciamo?», mi chiede Jillian a bassa voce.

    «Inizia a chiamare le persone in fondo». In questo modo dovremmo minimizzare gli spostamenti dell’aereo.

    Dopo cinque minuti, c’è già la fila per lo scivolo e il quadro generale è molto più chiaro: sembra che tutti i passeggeri della prima classe siano sopravvissuti, ma una decina di quelli che viaggiavano in business – sui venti totali – non riesce a muoversi.

    Una donna, con i capelli scuri e lunghi fino alle spalle, si ferma accanto a me sulla soglia. «Cercavi un dottore?». Si sente appena un accento… tedesco, credo.

    «Sì».

    «Io… ho una laurea in medicina, ma non faccio il dottore».

    «Oh, be’, oggi sì».

    «D’accordo», risponde, ancora un po’ esitante.

    «Jillian ti fornirà un kit di primo soccorso. Controlla i feriti, e gestiscili secondo le priorità: prima quelli gravi, poi i bambini, le donne e gli uomini».

    Senza rispondere, la dottoressa si dirige verso la cabina, insieme a Jillian. Io mi occupo di far uscire la gente, stando attento a lasciare parecchio spazio tra una persona e l’altra, in modo che non si scontrino. Alla fine guardo scendere anche l’ultima passeggera: si tratta della signora anziana calpestata poco fa. Quando i suoi piedi toccano terra, un altro signore avanti con gli anni, probabilmente suo marito, la prende per mano e l’aiuta a rialzarsi. Lentamente, mi fa un cenno con il capo, e io annuisco in risposta.

    Dal locale di servizio tra la prima classe e la business si levano il tintinnio di alcune bottiglie di vetro e il suono di una voce arrabbiata: il tizio del 2D ora ce l’ha con qualcun altro.

    Vado verso di loro e trovo Harper in piedi di fronte a lui, con il viso stravolto dal dolore. Ci sono una dozzina di bottigliette allineate sul tavolino reclinabile: per metà sono vuote, e il tizio adesso è alle prese con il tappo di un Tanqueray.

    Vorrei tanto sapere che cosa le ha fatto, o cosa le ha detto, ma ci sono questioni più urgenti: i passeggeri rimasti, per esempio, molti dei quali probabilmente hanno bisogno di aiuto e cure mediche.

    «Smettila di bere», gli intimo, «l’alcool ci può servire per curare qualcuno». Se finissimo il disinfettante prima dell’arrivo dei soccorsi, l’alcool sarebbe pur sempre meglio di niente.

    «Vero. Infatti sta curando me in questo momento».

    «Dico sul serio. Molla tutto e scendi dall’aereo».

    Il tizio afferra la cornetta del telefono in maniera teatrale. «E ora un giro d’applausi per Capitan Schianto, il nazista delle bottigliette». Imita persino il rumore del pubblico, poi scaglia via la bottiglia che aveva in mano e si pulisce la bocca. «Ora ti dico io una cosa». Biascica un po’. «Facciamo un patto: ti lascio tutte le bottigliette, se prima me le fai bere».

    Faccio un passo verso di lui, ma Harper si mette in mezzo. E una mano premuta sulla spalla mi ferma.

    È la dottoressa.

    «Ho finito», dice. «Vieni a vedere».

    C’è qualcosa, nel tono della dottoressa, che mi rende un po’ nervoso, e prima di seguirla insieme a Harper, lancio un’ultima occhiataccia al tizio del 2D.

    La donna si ferma davanti al sedile di un passeggero di colore, sulla cinquantina, elegantemente vestito. È appoggiato alla paratia, morto, il viso ricoperto di sangue rappreso.

    «Quest’uomo è deceduto per un trauma alla testa causato da un corpo contundente», mi riferisce la dottoressa a bassa voce. «Ha sbattuto forte contro il sedile di fronte e la paratia di lato. La cintura era ben allacciata, ma lo spazio tra i sedili in business class non è ampio come nella prima. Il colpo di frusta della discesa e dello schianto è stato fatale per i passeggeri più deboli e quelli più alti. Oltre a lui, ci sono altre due vittime». Indica le sette persone in business class che sono ancora sedute. «Quattro sono vivi, ma non coscienti. Non sono molto ottimista, purtroppo. Uno, non lo sposterei proprio; gli altri tre sono ridotti male, ma se riuscissimo a portarli in ospedale potrebbero cavarsela».

    «Ok. Grazie, dottoressa».

    «Sabrina».

    «Nick Stone». Ci diamo la mano, e Jillian e Harper si presentano a loro volta.

    «Volevo che lo vedessi con i tuoi occhi», continua Sabrina, «perché con ogni probabilità tutti quanti abbiamo subìto un trauma cranico. È fondamentale che i sopravvissuti mantengano la pressione sanguigna a livelli regolari. Chiunque potrebbe presentare un qualche trauma cranico asintomatico, in grado di causare un ictus o un’emorragia cerebrale di fronte a sforzi o emozioni intense».

    «Buono a sapersi». La verità è che non so bene cosa farmene di questa nuova informazione. Anzi, non so proprio che cosa fare in generale, a questo punto. Mi guardano tutte e tre, in attesa.

    La prima cosa che mi viene in mente è l’altra parte dell’aereo: se alla business class è andata così male, che ne è stato della seconda classe? Là i sedili sono appiccicati e il colpo di frusta alla discesa e allo schianto deve essere stato di gran lunga peggiore. Se c’è qualcuno ancora vivo nell’altra metà, avrà bisogno di immediato soccorso.

    «Dobbiamo trovare il resto dell’aereo».

    Sguardi vuoti.

    Mi rivolgo direttamente a Jillian. «C’è qualche possibilità di contattare le persone che vi sono rimaste intrappolate?».

    Scuote la testa. «No, il telefono di bordo è andato».

    Il telefono. «E il tuo cellulare? Conosci le hostess che erano di là? Hai i loro numeri?»

    «Sì, certo». Jillian tira fuori il cellulare e lo accende. «Non c’è campo». Con il mio non va meglio. «Forse è perché abbiamo dei gestori americani?»

    «Io sono di Heidelberg», dice Sabrina. «Forse… No, niente. Neanche io ho segnale».

    «Io ho EE come gestore», interviene Harper, ma anche il suo cellulare è morto.

    «Ok», dico. «Vado a cercarli».

    «Vengo con te», risponde Harper.

    Anche Jillian si offre volontaria, ma decidiamo che è meglio che rimanga con i passeggeri finché non arrivano i soccorsi. Mentre Harper raccoglie tutto ciò che può esserci utile, noto che c’è un giovane asiatico, forse sui vent’anni, seduto in business class, ricurvo su un portatile scintillante – l’unica luce nella cabina scura.

    «Ehi».

    Solleva lo sguardo, mi squadra e torna a digitare sulla tastiera.

    «Devi scendere dall’aereo».

    «Perché?», non si sforza neanche di alzare gli occhi stavolta.

    Abbasso la voce e mi chino per guardarlo in faccia. «È più sicuro a terra. L’aereo sembra stabile, ma è sorretto soltanto da alberi che potrebbero cedere in qualsiasi momento. Rischiamo di scivolare o schiantarci di colpo». Indico il metallo spezzato alle sue spalle, dove le scintille scoppiettano ancora. «Inoltre, c’è rischio d’incendio. Non possiamo escluderlo».

    «Non c’è nessun rischio di incendio», risponde, e continua a scrivere seguendo il testo con le pupille. «Devo finire questa cosa».

    Sto per chiedergli cosa può essere più importante che salvarsi la pelle in un disastro aereo, ma Harper compare al mio fianco, porgendomi una bottiglia d’acqua. Così, decido di concentrarmi su chi davvero desidera il mio aiuto.

    «Ricordate», dice Sabrina, «ogni sforzo eccessivo potrebbe rivelarsi fatale. Anche se non sentite dolore, potreste comunque essere in pericolo di vita».

    «Capito».

    Mentre ci allontaniamo, Sabrina si avvicina al ragazzo asiatico e inizia a parlargli gentilmente. Arrivati all’uscita, li sentiamo praticamente urlarsi contro. Non proprio una tipica relazione medico-paziente: è evidente che si conoscono. C’è qualcosa che non mi quadra in questa scena, ma non posso pensarci ora.

    In fondo allo scivolo, ci sono tre persone che si tengono la testa, sedute a terra o appoggiate agli alberi. Ma io ne ho viste scendere più di venti. Dove sono finiti tutti gli altri? Guardo la foresta.

    Lentamente inizio a scorgere delle lucine che si muovono in mezzo agli alberi e si allontanano dall’aereo – un mucchio di persone sparse nell’oscurità. Qualcuno corre. Devono aver attivato la torcia dei cellulari.

    «Dove vanno?», chiedo senza rivolgermi a nessuno in particolare.

    «Non senti?», risponde la donna seduta proprio accanto allo scivolo, senza sollevare la testa.

    Rimango immobile, in ascolto. E alla fine, in lontananza, le sento.

    Urla.

    Gente che chiede aiuto a squarciagola.

    Capitolo quattro

    Harper

    La foresta, fitta e scura, è illuminata soltanto dal flebile bagliore della luna sopra le nostre teste e dalle torce dei cellulari tra gli alberi di fronte. Stretti nelle mani dei passeggeri che corrono, gli schermi bianchi e brillanti oscillano avanti e dietro. La luce è sincronizzata con il rumore dei rami che si spezzano sotto i loro piedi.

    Le gambe mi vanno a fuoco, e ogni volta che il piede tocca terra, dalla pancia e dal bacino partono delle fitte di dolore che mi invadono tutto il corpo. Le parole infarto ed emorragia sono ancora impresse nella mia mente, insieme agli avvertimenti della dottoressa: ogni sforzo eccessivo potrebbe rivelarsi fatale.

    Devo fermarmi un attimo. Sto rallentando Nick, lo so. Senza dire una parola, mi blocco e mi piego con le mani sulle ginocchia, cercando disperatamente di riprendere fiato.

    Nick, davanti a me, si ferma di colpo e per poco non scivola. «Stai bene?»

    «Sì», rispondo ansimando. «Ho solo un po’ di fiatone. Va’ avanti. Ti raggiungo».

    «La dottoressa ha detto…».

    «Lo so, tranquillo».

    «Ti gira la testa?»

    «No, sto bene». Alzo lo sguardo. «Se sopravvivo a tutto questo, giuro che mi iscriverò in palestra e ci andrò ogni giorno. E non berrò più una goccia d’alcol, finché non riuscirò a correre per cinque chilometri di fila».

    «Certo, potresti fare così. Io, invece, stavo pensando che se sopravviviamo a tutto questo, un bel drink forte sarà la prima voce sulla mia lista di cose da fare».

    «Hai ragione, ma dopo la bevuta me ne vado dritta in palestra».

    Nick osserva il fiume di lucine brillanti che pian piano, come uno sciame di libellule, fluisce verso un punto oltre gli alberi, che da qui non riesco a vedere. Ha un’espressione mortalmente seria. Mi domando che lavoro faccia: è un esperto di crisis management o qualcosa del genere? È davvero bravo, di sicuro non ha problemi a dire alla gente cosa deve fare. Tutto il contrario di me. Vorrei saperne di più. Chissà quanto siamo diversi, e se c’è qualcosa che invece ci accomuna. Ma perché mi incuriosisce tanto, in un momento come questo, poi?

    «Andiamo», dico, e riprendiamo a correre, un po’ più piano. In pochi minuti, attraversiamo la foresta e ci ritroviamo a cielo aperto.

    Quello che vedo mi lascia a bocca aperta.

    Oltre gli alberi, ci sono circa una ventina di persone, tutte in piedi una accanto l’altra, sulla sponda di uno strano lago che mi ha colpito subito: ha le sponde troppo rotonde e precise, quasi artificiali. Ma è la cosa che se ne sta lì in mezzo che mi terrorizza davvero. Si innalza per almeno una quindicina di metri, uno squarcio scuro e frastagliato, come le fauci di uno squalo gigantesco. È il corpo dell’aereo, brutalmente dilaniato all’altezza delle ali. Intravediamo una fila di sedili nella cabina passeggeri di fronte a noi, ma sono tutti vuoti.

    La coda dell’aereo deve essere sott’acqua. Cos’è che tiene in equilibrio il centro, facendo spuntare la parte squarciata? Il carrello di atterraggio? I motori? Degli alberi? Qualunque cosa sia, sta per cedere. Il bordo inferiore della fusoliera lacerata è a circa quattro metri e mezzo dall’acqua, ma affonda sempre di più ogni secondo che passa.

    Siamo a metà novembre e il clima è gelido: a ogni mio respiro, un pennacchio di vapore bianco si staglia nell’oscurità della notte. L’acqua deve essere freddissima.

    Qualcosa si muove all’interno dell’aereo. Un tizio calvo risale il corridoio, ma si ferma di colpo sulla soglia del precipizio. Aggrappato al sedile, si affaccia fuori con il viso sbiancato dalla paura, alla ricerca del coraggio necessario per il salto. Qualcuno decide per lui: un tizio massiccio lo spintona, e i due precipitano assieme. La gamba del secondo uomo sbatte contro un pezzo di metallo piegato, ruota su se stesso e precipita in acqua. Una brutta caduta, ma per fortuna non si scontra con l’altro. Osservo la scena, i miei occhi si posano sulla superficie del lago, e mi accorgo improvvisamente che ci sono già altre due persone in acqua, si agitano, si dimenano, cercano di raggiungere la sponda a nuoto. Quelli che ci sono già riusciti sono stretti uno accanto all’altro, bagnati fradici e tremanti. Mi avvicino, provo a ricostruire l’accaduto mettendo insieme i vari spezzoni incerti dei loro racconti.

    Ci siamo schiantati in acqua…

    Una forza terribile – pensavo proprio che mi avrebbe schiacciato contro il sedile…

    Ho dovuto scavalcare tre persone, credo fossero tutte morte. Non ne sono sicuro, non si muovevano. Che cosa dovevo fare?

    Continuo a chiedermi quanto sia fredda l’acqua, e quanto tempo può resistere un uomo prima di morire di ipotermia.

    Nello squarcio, appare un uomo con un cappotto blu. Si affaccia al bordo, quasi pronto a saltare, quando Nick gli urla qualcosa. La sua voce rimbombante riecheggia per tutto il lago.

    «Fermo! Se ti butti, ucciderai tutti quelli rimasti nell’aereo!».

    Un intervento maledettamente teatrale, ma di sicuro ha attirato l’attenzione dell’uomo. E la mia. E di tutti gli altri sulla banchina.

    Nick si avvicina al bordo dell’acqua. «Ascolta», gli grida, «vi salveremo noi, ma devi portare tutti i sopravvissuti lì, all’apertura».

    L’uomo sull’aereo – sulla cinquantina, credo, un po’ grassottello – è ancora immobile, in piedi, con un’aria confusa. «Come?»

    «Rifletti: l’aereo sta per affondare, e quando l’acqua entrerà nella stiva lì sotto, lo tirerà giù ancora più velocemente. Voi – tu e chiunque sia ancora cosciente – dovete collaborare. Aiuta a rimettersi in piedi tutti i passeggeri che riesci a svegliare, trova chi è vivo ma non può muoversi e portalo all’apertura. Voi pensate a questo e noi

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