Il più forte del mondo: La filosofia di Dragon Ball
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Un bambino che vive da solo sulle montagne, impossibile da ferire con armi comuni. Un alieno inviato sulla Terra per sterminare la specie umana e conquistare il pianeta. L’ultimo baluardo contro minacce universali provenienti da mondi lontani, futuri distopici e dimensioni alternative. Goku è stato tutto questo, dalle evidenti citazioni al Superman delle origini fino all’ascesa cosmo-teologica degli ultimi anni. Da un arco narrativo all’altro, la più celebre opera di Akira Toriyama ha attraversato diverse fasi, ciascuna delle quali ha consentito di elevare il protagonista, i suoi alleati e i suoi avversari a nuovi livelli di potenza.
In questo saggio ripercorreremo la vicenda della serie a fumetti "Dragon Ball", cercando di comprendere in che modo la storia, la natura, la tecnologia e l’esistenza umana si siano espresse nelle pagine del manga più influente di sempre.
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Anteprima del libro
Il più forte del mondo - Claudio Kulesko
Le origini del mito
La prima volta che lo incontriamo, Goku è ancora un bambino. L’anziano eremita Son Gohan l’ha trovato non lontano dalla capsula di colonizzazione Saiyan con la quale Goku è stato inviato sulla terra da suo padre, Bardock; l’ha cresciuto, educato e gli ha insegnato tutto quel che sapeva delle arti marziali. Per lo spettatore odierno sono ancora lontani i fasti della saga dei Saiyan, e ancor più le battaglie cosmiche per la salvezza degli universi di Dragon Ball Super. Goku vive da solo sulle montagne e non sa nulla della civiltà: tutto quel che conosce sono le creature mostruose che infestano un habitat ispirato alle regioni più selvagge della Cina. L’incontro con Bulma, giovanissima scienziata figlia del più grande inventore del mondo (il Dr. Brief, creatore di una tecnologia che consente di trasportare qualsiasi cosa all’interno di capsule delle dimensioni di un tubetto di colore) è l’evento che di colpo lo proietta verso il suo destino.
Insieme a Bulma notiamo che Goku è dotato di una coda da scimmia, un elemento che per ora non possiede alcuna connotazione. Tale scelta narrativa affonda le proprie radici in una tradizione ben nota sia ai fan della serie sia ai cultori di letteratura orientale. Il principale riferimento è al Viaggio in Occidente, romanzo cinese pubblicato attorno al 1590, in epoca Ming, e attribuito allo scrittore Wu Ch’eng-en. In questo poema si narra la vicenda dello scimmiotto Sun Wukong, che, dopo essere divenuto il guerriero più forte del mondo e aver seminato il caos in cielo e in terra, finisce seppellito da Buddha in persona sotto la Montagna dei Cinque Elementi. Cinquecento anni dopo, a Sun Wukong viene offerta la possibilità di redimersi, accompagnando il monaco Sanzang alla ricerca dei sutra contenenti i veri insegnamenti di Buddha.
Il rimando al Viaggio è evidente in tutta la prima serie, non solo nelle bozze iniziali create da Toriyama⁴ ma anche attraverso gli ambienti, gli abiti e i paesaggi. Oltre a Sun Wukong, infatti, nel corso del suo viaggio Sanzang recluta come propri discepoli il demone maiale Zhu Wuneng e il demone fluviale Sha Wujing, personaggi che trovano i propri corrispettivi nel maiale mutaforma Oolong⁵ e nel bandito adolescente Yamcha. In tale cornice, l’infantile ed egoista Bulma si sostituisce proprio al monaco, assumendo il ruolo di profetessa di un mondo catturato nel vortice di una grande accelerazione
⁶ tecnologica ma ancora permeabile alla magia, incarnata dalle Sfere del Drago. In questa prima parte del manga, anche Goku sembra far parte del sottofondo magico che anima la storia: un bambino ferale dotato di un’immensa forza e di un corpo pressoché invulnerabile, al punto che neppure le armi da fuoco sono in grado di ferirlo.
Una dialettica, quella tra tecnica e magia, che rispecchia la situazione nella quale si trova non solo la Cina ma anche il Giappone, due Paesi in bilico tra rigide tradizioni millenarie e un boom tecnologico-industriale che rischia di far svanire l’antico tra gli ingranaggi del moderno. Tuttavia, ambientando Dragon Ball in una sorta di Cina alternativa, Toriyama non intende solo mettere in scena tale transizione, ma anche dischiudere il potere immaginifico espresso dall’ibridazione radicale di questi due mondi.
I signori del mondo
«Un comandante deve essere bello, per avere successo con le donne!»
Comandante Red a Segretario Black
Il lavoro di worldbuilding svolto dall’autore ci presenta un pianeta più piccolo della Terra, abitato sia da esseri umani sia da animali antropomorfi. La maggior parte della popolazione vive in villaggi sparsi su quella che si presenta come una sorta di Pangea circondata da isole, isolotti e atolli⁷. I grandi centri urbani sono pochi e ancor meno le metropoli. Queste ultime, in particolare, si riducono a quattro capoluoghi di regione, denominati in base al loro orientamento geografico (Città del Nord, Città dell’Est e via dicendo). Dalle poche scene ambientate in città, si può constatare che sebbene la moda, come nel caso degli abiti e degli orologi da polso, sia rimasta grossomodo ferma agli anni Ottanta, lo stesso non vale per le tecnologie di trasporto e i mezzi di comunicazione. Sulle strade le normali automobili sono affiancate dalle hovercar; assieme ai telefoni a filo e ai cellulari si impiegano computer palmari molto avanzati; i robot non sono comuni, ma sappiamo che diverse industrie e organizzazioni ne possiedono – anche grazie al lavoro di ricerca di scienziati e inventori quali il Dr. Brief e il Dr. Gero; e persino il minuscolo atollo su cui vive il Maestro Muten è dotato di una televisione. Nelle campagne e nelle regioni selvagge, al contrario, la gente vive in condizioni di arretratezza, pratica l’agricoltura, l’allevamento, la caccia e la pesca di sussistenza, e non sembra aver tratto alcun giovamento dal balzo tecnologico di cui godono le metropoli. È in questi luoghi remoti che è possibile incontrare un’ulteriore serie di oggetti, di segno opposto rispetto ai precedenti: sfere di cristallo, armi e artefatti magici, nuvole senzienti, castelli infestati e idoli tribali; ma anche mostri, streghe, dinosauri, pesci giganti, spettri, demoni e diavoli.
Il secondo riferimento, meno immediato del primo, è legato a uno dei capisaldi del pensiero occidentale: l’idea di buon selvaggio
. Comparsa per la prima volta nel romanzo del 1670 The Conquest of Granada, del poeta inglese John Dryden, tale espressione è stata resa celebre dal filosofo Jean-Jacques Rousseau in saggi quali Il contratto sociale (1762) e Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755) e nel suo romanzo pedagogico Emilio (1762). Per Rousseau – ispirato dalle descrizioni antropologiche delle abitudini e dello stile di vita delle popolazioni indigene dell’Africa e delle Americhe – il buon selvaggio non è altro che un individuo nato al di fuori della civiltà: un proto-soggetto che al pari dell’infante non conosce il denaro, le relazioni di potere, le ingiustizie del diritto, la proprietà privata e, di conseguenza, l’egoismo e la sopraffazione. In breve, il buon selvaggio sarebbe la dimostrazione che ogni essere umano nasce libero, indipendente, altruista e dotato di un’affinità spontanea nei confronti del mondo naturale, per poi essere corrotto dalla