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La fionda Nulla sarà più come prima?: Nulla sarà più come prima? Gli scenari della post-emergenza: Italia, Europa, Mondo
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La fionda Nulla sarà più come prima?: Nulla sarà più come prima? Gli scenari della post-emergenza: Italia, Europa, Mondo
E-book483 pagine6 ore

La fionda Nulla sarà più come prima?: Nulla sarà più come prima? Gli scenari della post-emergenza: Italia, Europa, Mondo

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Info su questo ebook

L'emergenza sanitaria legata al Covid-19 rappresenta un fattore di accelerazione di tendenze e processi già in atto da tempo. E questo vale soprattutto per la sfera politico-istituzionale, per quella economica e per quella politico-internazionale. Quali saranno gli sviluppi della crisi di funzionalità e legittimità delle nostre democrazie? In che modo si andrà riarticolando la dialettica Stato-mercato? Si guarderà ad una forma di keynesismo di tipo nuovo? Assisteremo al rilancio del progetto di integrazione europea o a una sua inesorabile agonia? Infine, a livello internazionale, andrà consolidandosi un assetto multipolare, si aprirà un nuovo ciclo egemonico o, al contrario, si troveranno forme nuove di governance globale condivisa?
Interventi di Pino Arlacchi, Gaetano Azzariti, Richard Bellamy, Alessandro Bonetti, Alberto Bradanini, Paolo Desogus, Giulio Di Donato, Monica Di Sisto, Pierluigi Fagan, Valeria Finocchiaro, Carlo Galli, Álvaro García Linera, Vladimiro Giacché, Federico Lauri, Andrea Muratore, Damiano Palano, Laura Pennacchi, Alessandra Pioggia, Mimmo Porcaro, Geminello Preterossi, Alessandro Somma, Wolfgang Streeck, Umberto Vincenti, Alessandro Volpi, Sirio Zolea.
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita18 dic 2020
ISBN9791220238311
La fionda Nulla sarà più come prima?: Nulla sarà più come prima? Gli scenari della post-emergenza: Italia, Europa, Mondo

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    Anteprima del libro

    La fionda Nulla sarà più come prima? - AA. VV.

    AA. VV.

    La Fionda 1/2021

    Nulla sarà più come prima?

    FROMBOLIERI

    Andrea Bellucci, Marco Baldassari, Savino Balzano, Giacomo Bandini, Francesco Berni, Michele Berti, Lorenzo Biondi, Antonio Bonifati, Matteo Bortolon, Fabio Cabrini, Carlo Candi, Fabrizio Capoccetti, Anna Cavaliere, Francesca Cocomero, Paolo Cornetti, Marco D e Bartolomeo, Antonio Di Dio, Antonio Di Siena, Lorenzo Disogra, Giulio Di Donato, Francesca Faienza, Matteo Falcone, Thomas Fazi, Antonella Garzilli, Antonello Gianfreda, Roberto Michelangelo Giordi, Giulio Gisondi, Gabriele Guzzi, Simone Luciani, Mattia Maistri, Matteo Masi, Lucandrea Massaro, Diego Melegari, Giulio Menegoni, Alessandro Monchietto, Riccardo Muzzi, Matteo Nepi, Francesco Polverini, Giandomenico Potestio, Geminello Preterossi, David Proietti, Francesco Ricciardi, Pietro Salemi, Lorenza Serpagli, Alessandro Somma, Ludovico Vicino, Alessandro Volpi, Cristiano Volpi, Sirio Zolea, Piotr Zygulski.

    Direttore editoriale

    Geminello Preterossi

    Direttore responsabile

    Alessandro Somma

    Comitato scientifico

    Paolo Borioni, Anna Cavaliere, Massimo D’Antoni, Alfredo D’Attorre, Paolo Desogus, Carlo Galli, Chantal Mouffe, Pier Paolo Portinaro, Onofrio Romano, Pasquale Serra, Marcello Spanò, Antonella Stirati, Wolfgang Streek, Davide Francesco Tarizzo, José Luis Villaca ñ as Berlanga, Umberto Vincenti, Andrea Zhok, Mimmo Porcaro, Vladimiro Giacché, Pino Arlacchi, Alberto Bradanini

    Comitato di redazione

    Andrea Muratore, Anna Cavaliere, Marco Baldassari , Alessandro Bonetti, Davide Ragnolini, Diego Melegari, Fabrizio Capoccetti, Francesca Faienza, Giulio Gisondi, Giulio Menegoni, Matteo Bortolon, Matteo Falcone, Sirio Zolea, Valeria Finocchiaro

    Coordinamento e comunicazione

    Alessandro Volpi, Paolo Cornetti, Matteo Masi

    Segretario di redazione

    Giulio Di Donato

    Editore

    Rogas

    Marcovaldo di Simone Luciani

    viale Telese 35

    00177 – Roma

    P. Iva 11828221009

    Iscr. ROC 35345

    ISBN: 9788845294778

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Perché «La fionda»?

    Nulla sarà come prima?

    Il conflitto fra le sovranità. La pandemia e l’ordine politico

    SCENARI SANITARI

    Quale sanità dopo l’emergenza Covid-19?

    SCENARI POLITICI

    Nella pandemia e dopo: il contenuto etico-politico della rottura necessaria per le politiche economiche e sociali

    Disintermediazione e post-storia

    La smobilitazione totale. La pandemia e il destino delle democrazie

    Covid-19. Un caso di fallimento adattivo

    SCENARI GEOPOLITICI

    Scenari del mondo post-Americano

    SCENARI ECONOMICI

    La Cina tra ideologia e realismo

    Politiche commerciali post-Covid: rovesciamento del paradigma dominante o ritorno all’austerità export-led

    Come nuove teorie e vecchie idee stanno mettendo all’angolo la cultura neoliberista

    The New New Normal: il ritorno delle istituzioni

    SCENARI EUROPEI

    Un supermercato non è un’isola. Contro l’apologia del sovranazionalismo

    L’Europa espansiva?

    Cambiare l’Europa?

    La svolta di maggio: cosa cambia nell’Ue e cosa no

    L’unione che non c’è

    RASSEGNE

    La filosofia davanti al virus

    «Socialismo di mercato» cinese e riflessi della «nuova guerra fredda» con gli USA

    VOCI DALL’ESTERO

    La riconnessione demoicratica dell’UE

    Non vede, non sente e non parla: l’estremismo di centro come base di classe del fallito Stato consolidato

    Lo Stato in tempi di coronavirus

    INCIAMPI

    Perché «La fionda»?

    Perché è lo strumento di chi si ribella all’oppressione. Di chi non può contare su grandi risorse materiali né gode di protettorati mainstream , ma mira dritto perché ha il coraggio delle idee. La forza dell’irriverenza, che fa analizzare in contropelo i luoghi comuni. La passione intellettuale e politica di chi non aderisce alle idee ricevute, ma sottopone tutte le tesi a una verifica attenta. L’ostinazione ragionata di chi non ha paura di smentire la propaganda, squarciando il velo della post-verità del sistema neoliberista. La lucida coerenza di non negare i fatti, o edulcorarli, per approfondire e cercare di capire di più, senza fermarsi di fronte alle convenienze, alle interpretazioni di comodo.

    « La fionda » è uno spazio pluralista e libero di elaborazione culturale e politica, promosso da una comunità di persone che condivide alcune precise idee ‒ statualiste, autenticamente democratiche e antiliberiste ‒ , senza compromessi contraddittori né opacità furbesche. Ma che ha l’autentico desiderio di confrontarsi, di dare luogo a un dibattito vero, fecondo, senza tabù. Questo deve essere il tempo della nitidezza e dello spirito critico che non arretra di fronte a nulla. Solo così sarà possibile ripartire non gattopardescamente, ma cambiando paradigma.

    La fionda di Davide contro Golia. Ma anche la fionda di Gian Burrasca.

    In questa rivista si parla di cose serie, non di sovranismo, moltitudine, democrazia sovranazionale e governo mondiale, diritti dei consumatori al posto di quelli dei cittadini, virtù del mercato da contrapporre allo Stato, e via cantando con i ritornelli del neoliberalismo, nelle sue varie declinazioni, e dell’alterglobalismo, viziato di sulbalternità culturale e antistatualismo. Un orizzonte che è stato egemonico e che oggi sta miseramente fallendo, ma che deve essere sostituito, per evitare guai peggiori, da un nuovo assetto che nasca dalla rottura con quei dogmi.

    Si parla di cose serie come lo Stato costituzionale, la sovranità democratica che vuol dire partecipazione e deve andare a braccetto con le regole dello Stato di diritto, il Welfare (che significa sanità, scuola e piena occupazione, non protervo paternalismo), la necessità di un grande progetto collettivo di rilancio della cultura popolare, per recuperare dagli effetti devastanti dell’omologazione mercatista, un impegno ecologico non retorico, che metta al centro la questione della produzione e del finanzcapitalismo, un vero internazionalismo come fonte di lotte comuni e solidarietà tra popoli, che non neghi affatto i territori e i diversi contesti culturali, ma cerchi di unire le forze contro l’effettivo nemico comune (il neoliberismo), il tema dei diritti da valorizzare come fronte emancipativo collettivo, espressione del principio moderno, ma non liberale, della soggettività in relazione, per far avanzare insieme diritti sociali e civili, e non compensare tristemente la demolizione dei primi con i secondi, tradendone il senso e il valore.

    Si tratta di tornare ad imparare, oggi, dalla lezione del « momento Polanyi» (gli effetti distruttivi del laissez-faire producono bisogni di protezione da riconoscere e accettare come legittimi, per declinarli democraticamente, altrimenti saranno capitalizzati da forze reazionarie). Così come dalla saggezza delle analisi di Keynes (un genio benemerito, rimosso come un pericoloso eretico dai neoliberisti, ma guardato con sospetto anche a sinistra): idee da rilanciare, ma naturalmente anche da ripensare, non per attutirle, però, bensì per trarne visioni radicali all’altezza della crisi che abbiamo di fronte, seguendo la stella polare di un concetto di libertà non economicistico, ma politico, che non disdegna affatto quei bisogno di comunità e protezione che possono e debbono essere declinati pluralisticamente, civilmente, com’è accaduto in altri fasi storiche, ad esempio nel secondo dopoguerra.

    Qui non troverete l’ideologia «luogocomunista »: quella secondo cui lo Stato non serve a niente, la sovranità non c’è più, lo Stato nazione è un relitto, esiste un ordine globale, la democrazia sovranazionale basta volerla ed eccola che appare, le identità vanno sempre rigettate, anche se pensate come accumuli di artificialità, sedimentazioni storico-culturali in lento divenire (quali sono), l’Europa e l’euro non vanno bene ma bisogna tenerseli, i populisti sono brutti e cattivi e se li eliminiamo l’Occidente tornerà il migliore dei mondi possibili (ma non ci saranno delle cause, delle «ragioni» del populismo? E non è che invece di ricercarle nella presunta ignoranza del popolo, o nel rifiuto retrogrado dei cambiamenti, bisogna andare a scavare negli interessi autoreferenziali e nell’arrogante cecità di élites ormai screditate?). Sacerdoti e vestali del neoliberismo, che nonostante i fallimenti a ripetizione delle loro ricette ritengono che l’unica strada sia ribadire i loro dogmi, imponendoli con maggior forza e intensificandone l’applicazione, assomigliano agli inquisitori che imposero a Galilei l’abiura, rifiutandosi di prendere atto dell’evidenza. Qui invece, con «La fionda», si propone un bel bagno di realismo critico, per affrontare l’interregno in cui siamo precipitati: un’analisi spietata delle trasformazioni che stiamo vivendo e delle sue cause (senza astrazioni vacue da acchiappafarfalle), e proposte coraggiosamente fuori dal coro.

    Noi pensiamo che occorra superare il normativismo astratto del «post-» (statuale, sovrano, nazionale, democratico, politico). Ripartendo da un’ovvia verità: che senza sovranità statale democratica è impossibile una politica autonoma, tantomeno una politica che punti all’attuazione del progetto sociale delineato dalla nostra Costituzione. Di crisi dello Stato si parla da più di un secolo: ma non sono emersi sostituti. Si tratta di avere ben chiaro che lo Stato costituzionale o è keynesiano, o non è: perché solo le politiche di piena occupazione e i diritti sociali, la centralità della domanda interna e del conflitto distributivo, possono imporre al capitalismo almeno un compromesso, senza il quale i presupposti stessi di una democrazia presa sul serio vengono demoliti (come Wolfgang Streeck, tra gli altri, ha messo bene in evidenza).

    Solo un’unità politica pluralizzata, differenziata al proprio interno ma capace di decisioni indipendenti, può costituire il contenitore di quei soggetti e corpi intermedi nei quali il «popolo» deve articolarsi per non essere un magma indistinto, disponibile a o­gni avventura passivizzante. Solo entro uno spazio politico concreto, territorializzato, è possibile ricostruire una rappresentanza politica del conflitto sociale che abbia la capacità di incidere, di spostare i rapporti di forza, di non subire diktat tecnocratici dai «poteri indiretti» economici. Il realismo politico non è affatto necessariamente quietista, cinico, rassegnato: così va il mondo ed è immodificabile (secondo gli stilemi di un certo elitismo). Abbiamo bisogno di un realismo critico che sappia interpretare la nuova questione sociale, riconoscendo spietatamente la fondatezza delle ragioni che hanno condotto al disconoscimento da parte dei ceti popolari della sinistra tradizionale e radical, in virtù della sua subalternità al discorso neoliberale.

    Il vero nodo è il recupero di uno spazio concreto di autonoma azione collettiva, dove sia possibile agire il conflitto e non ci siano «piloti automatici» che impongono decisioni dall’alto, prospettate come necessità tecniche, aggirando di fatto la democrazia.

    Per far avanzare il dibattito, occorre uscire dalla tenaglia globalismo (neoliberale)-nazionalismo, contrastando l’affermazione di una sorta di monopolio della critica della globalizzazione da parte di chi spesso cavalca i temi sociali, ma a fini regressivi.

    Occorre avere il coraggio di mostrare l’inconsistenza di una serie di dogmi su cui si fonda la semplicista filosofia della storia global-progressista, che scambia il globalismo per universalismo critico: l’idea dell’unificazione politica dell’umanità come un destino, che si fonda su un fraintendimento dei processi materiali e tecnologici di interconnessione globale, peraltro oggi bloccati. Questi, in ogni caso, non implicano affatto l’unità politica del mondo, che resta un pluriverso di soggettività politiche, interessi e identità: e per fortuna, perché altrimenti saremmo di fronte a un progetto di omologazione, una sorta di global-autoritarismo, che appiattirebbe tutte le differenze, suscitando refrattarietà ed esplosioni di violenza incontenibile (una sorta di guerra civile globale).

    Un altro assunto per nulla ovvio e anzi fuorviante è quello che dà per scontata l’analogia tra l’integrazione europea e l’unificazione degli Stati nazionali europei. Le differenze invece sono evidenti, macroscopiche: i soggetti e i contesti sono differenti; non ci sono alle viste (per fortuna!) guerre di indipendenza e/o di conquista; mancano i presupposti culturali, linguistici, letterari comuni che hanno alimentato i movimenti di liberazione nazionale (dov’è la «nazione» europea?); manca un’ideologia comune (anzi assistiamo oggi alla crisi della narrazione europeista). Constatare queste ovvie verità non vuol dire chiudersi in micro-comunità tribalistiche, ma comprendere che la cooperazione, anche in Europa, può essere rilanciata solo a partire da una ridemocratizzazione del livello statale e da un nuovo protagonismo di forze socialmente emancipative e autenticamente popolari sui vari spazi nazionali.

    Identificare nazione e nazionalismo è un’assurdità: come ha mostrato un grande costituzionalista tedesco, cattolico e socialdemocratico, Ernst Wolfgang Böckenförde, la nazione ha preso il posto della religione come collante degli Stati secolarizzati. Oggi, è chiaro che la nazione non può svolgere quella funzione di mobilitazione che ha svolto in passato (nell’Ottocento, pensiamo a Mazzini, in una chiave democratico–repubblicana, nella prospettiva della primavera dei popoli), ma ciò non toglie che, anche dopo il disastro delle due guerre mondiali, l’interesse nazionale viga (realisticamente a esso si attengono gli Stati, in primis i più forti in Europa, come la Germania) e che di un terreno comune, di un vincolo prepolitico ci sia bisogno, per esistere politicamente. Le società di massa sono state integrate grazie al Welfare e a una forma di patriottismo costituzionale denso, non formalista. Sarebbe bene ricordarcelo, e non buttare il bambino con l’acqua sporca. Separare l’orizzonte materiale degli interessi e dei rapporti di forza e quello simbolico dei principi e delle egemonie culturali è un errore esiziale.

    Bisogna capire fino in fondo perché la classe dirigente del nostro Paese abbia ritenuto a un certo punto che non ci fosse alternativa al «vincolo esterno». Evidentemente ha prevalso una visione disperata del Paese. Hanno pesato anche pressioni e­sterne, che un sistema indebolito e sotto attracco non ha saputo o voluto respingere? Come si è potuto pensare, anche tra gli eredi della sinistra italiana, che fosse possibile far pagare i prezzi derivanti da questo vincolo ai ceti popolari (che in teoria si sarebbe dovuto rappresentare), senza pagare pegno, e che questo fosse un progetto giusto, da perseguire? In ogni caso, c’è un dato eclatante davanti ai nostri occhi: non siamo affatto migliorati, in questi decenni post-Maastricht. Il vincolo esterno non ci ha guariti, ma anzi ha aggravato pesantemente le nostre zavorre precedenti, aggiungendone di altre, legate ad esempio alla natura contraddittoria dell’euro. Una moneta senza Stato, mai vista nella storia, che invece di generare convergenza mette in concorrenza i Paesi che l’hanno adottata e impone politiche deflattive incompatibili con la prosperità sociale e la tenuta del vincolo politico, oltre che, nel nostro caso, con il nucleo fondativo della nostra Costituzione, in particolare gli articoli 1 e 3. Nella tabuizzazione dell’euro ha giocato anche una dimensione simbolica: la pace post-bellica in Europa (da attribuire però, nel bene e nel male, soprattutto al mondo diviso in due e alla Nato), lo sviluppo, sulla base di tali premesse geopolitiche, di una positiva cooperazione commerciale, giuridica e culturale: tutte cose possibili anche senza l’euro (infatti i maggiori successi dell’integrazione europea si sono avuti prima). Ma certamente ha agito anche una sfiducia profonda nel Paese, diffusa tra le sue élites. Le radici storiche di questo riflesso condizionato sono antiche: la fragilità dello Stato e dell’identità nazionale, l’unificazione tarda, l’abitudine a domini stranieri. E del resto le zavorre ci sono, così come i motivi per diffidare delle classi dirigenti italiche (certamente non solo di quelle politiche). Ma siamo sicuri che questa ricerca ossessiva di un vincolo esterno non sia stato anche un alibi deresponsabilizzante? E poi, è bene diffidare delle letture moralistiche della storia repubblicana: quelle zavorre, quei limiti non hanno impedito negli anni Sessanta e Settanta un mutamento profondo del P aese (pur con tutte le contraddizioni). In realtà, si manifesta in quella diffidenza quell’antica separatezza, quel senso di estraneità delle classi dirigenti borghesi, ma anche degli intellettuali radicali, rispetto ai ceti popolari, che era una questione già individuata chiaramente da Gramsci, come un rischio anche per la stessa tradizione del movimento operaio organizzato: i post-comunisti, dimentichi di Gramsci, non ne sono stati affatto immuni. C’è poi un problema di blocco di interessi: imprese che esportano, rendita finanziaria, sistema mediatico mainstream, chi ha molto da perdere oppure anche poco, ma è spaventato. Mentre lavoratori dipendenti, giovani, disoccupati, precari, piccoli imprenditori, chi vive di domanda interna e di investimenti pubblici, è alla corda. Ma attenzione, perché il mito (peraltro iniquo) della società dei 2/3 è tramontato da un pezzo. Anzi, ora siamo di fronte a uno shock sistemico: il coronavirus fa da detonatore a una situazione che era già fragile. Ora bisogna evitare la «fuga nell’astratto», nel post-politico: è il momento di un pensiero critico concreto, di un agonismo non parolaio, che tagli i ponti con normativismi autoreferenziali e post-modernismi vaghi e irresponsabili. È venuto il tempo di fare i conti fino in fondo con il «trentennio inglorioso» del neoliberismo. Di fronte a chi ha difeso a prescindere, sempre e comunque, l’Europa dell’euro e le «riforme» neoliberali, e oggi si sveglia scoprendo che di fronte a un grande pericolo l’Europa non c’è, occorre ribadire con fermezza: è tardi. Chi ha cavalcato lo slogan «più mercato e meno Stato», chi ha imposto e difeso le privatizzazioni che hanno svenduto parte significativa del patrimonio pubblico del Paese, chi ha propagandato la precarizzazione svalutando il lavoro e la sua dignità, chi ha devastato scuola e università rincorrendo modelli privatistici e manageriali privi di spessore culturale e critico, non potrà prendere in mano la ricostruzione del Paese. Chi oggi finge di accorgersi della realtà, forse perché potrebbe crollare il castello di carta dell’euro ed essere travolta la stessa Unione Europea, dov’era quando si trattava dei bambini greci lasciati senza cure, dei tagli allo Stato sociale, del sotto-finanziamento della sanità, dell’impoverimento dei ceti popolari? Erano forse considerati dei costi sostenibili, da scaricare sulla democrazia, su ultimi e penultimi, aizzandoli l’uno contro l’altro? Salvo stracciarsi le vesti per i «populisti», rimuovendo le cause di una crisi d’autorità che non è certo colpa di chi, tagliato fuori e inferiorizzato, manifesta il proprio no. Il perbenismo peloso dell’establishment è intollerabile. Per ripartire davvero, bisognerà avere molta memoria, fermezza, proposte alternative, per non transigere con una classe dirigente irresponsabile e fallimentare, cinica e cieca, che aspetta di riciclarsi. La fionda serve per liberarsene.

    Geminello Preterossi

    Nulla sarà come prima?

    Gli scenari della post-emergenza

    Il progetto della rivista La Fionda nasce a inizio 2020, e viene immediatamente travolto da una situazione storica inedita, che certo resterà nei libri di storia: la pandemia da Covid-19.

    Per una rivista che intende interrogarsi in maniera critica sul proprio presente il tema non poteva che essere quello degli scenari che si apriranno nella fase della post-emergenza sanitaria. Il che non significa interrogarsi sull’evoluzione clinica dell’epidemia (sarebbe inusuale per una rivista di politica e cultura), bensì sui molteplici effetti – politici, economici, sociali e culturali – con i quali dovremo confrontarci una volta superata la fase di contrasto al coronavirus.

    Le previsioni sugli scenari futuri sembrano essersi nel tempo polarizzate sulla base di due diversi approcci.

    C’è la visione ottimista di chi che predica il mantra racchiuso nella formula «nulla più sarà come prima», quasi a prefigurare un nuovo Rinascimento come quello che seguì le terribili ondate pestilenziali che, verso la metà del Trecento, afflissero i Paesi europei. Secondo questa prospettiva, ci aspettano dunque trasformazioni radicali ma ineludibili, nella dinamica delle relazioni sociali e umane che riconfigureranno le nostre società secondo una diversa scala di priorità, a partire da una maggiore attenzione alla qualità della vita e al destino comune che ci unisce in quanto esseri umani.

    A questa visione si oppone il punto di vista di chi esclude la possibilità di elementi di così forte discontinuità fra un prima e un dopo . Il rischio concreto, secondo taluni, è che il mondo nuovo finisca per assumere i tratti del mondo di ieri, accentuandone difetti e contraddizioni.

    Gli orientamenti alla base delle riflessioni che proponiamo non indulgono verso interpretazioni nette in un senso o nell’altro, siano esse ottimistiche o pessimistiche, anche perché la storia in fieri è sempre difficile da decifrare. D’altronde è sempre problematico cogliere l’ evento in tutti i suoi aspetti, quando esso si presenta, così come riconoscere le innumerevoli trasformazioni e persistenze che si danno nei processi concreti.

    Quello che possiamo razionalmente immaginare non è uno scenario inedito da mondo nuovo, ma nemmeno una continuità con le abitudini consolidate del mondo di ieri. Se non si può certo negare che nella storia si danno grandi mutamenti, allo stesso tempo non si può pensare che da un’emergenza di questo tipo possano generarsi automaticamente cambiamenti radicali o salti epocali.

    Questi mesi di emergenza sanitaria rappresenteranno piuttosto un fattore di accelerazione di tendenze e processi che erano già in atto da tempo. E q uesto vale soprattutto per la sfera politico-istituzionale, per quella economica e per quella politico-internazionale (prendiamo ad esempio il conflitto sempre meno latente tra Cina e Stati Uniti: una lotta per l’egemonia in campo economico-commerciale, tecnologico e politico, che in realtà esisteva già prima della comparsa del virus).

    L’obiettivo di questo numero sarà allora quello di indagare in maniera critica e problematizzante la natura di queste tendenze, che hanno a che fare con la crisi di funzionalità e legittimità delle nostre democrazie (secondo alcuni a rischio d’involuzione autoritaria), con le scelte di politica economica degli Stati (in che modo si andrà riarticolando la dialettica Stato-mercato? Si guarderà ad una forma di keynesismo di tipo nuovo?), con gli assetti dell’Unione europea (assisteremo al rilancio del progetto di integrazione o ad una sua inesorabile agonia?), infine con le relazioni tra Stati a livello internazionale (andrà consolidandosi un assetto multipolare, s’aprirà un nuovo ciclo egemonico o, al contrario, si troveranno forme nuove di governance globale condivisa?) .

    Nel frattempo possiamo tentare di raccogliere le prime indicazioni, connetterle con le lezioni del passato e formulare alcune ipotesi. Buona lettura!

    La redazione

    Il conflitto fra le sovranità. La pandemia e l’ordine politico

    Dialogo fra Carlo Galli* e Geminello Preterossi**

    A cura di Giulio Di Donato e Alessandro Volpi

    Di Donato e Volpi: Riconoscere come questione decisiva quella della sovranità democratica, mettendo al centro il problema dei territori e dei contesti concreti, ci aiuta a sgombrare il campo da tutta una serie di illusioni fumose e luoghi comuni presenti nel dibattito pubblico generale. Uno dei luoghi comuni più diffusi – soprattutto a sinistra ‒ da smascherare è senz’altro il mantra del tramonto della sovranità. L’attuale scenario di post-sovranità, nella globalizzazione neoliberale, non ha certo significato – come avete giustamente sottolineato entrambi ‒ mitigazione del potere, ma al contrario ha lasciato campo aperto ai poteri selvaggi transnazionali. Inoltre, citando il Prof. Preterossi, «essendosi la democrazia impiantata nell’albero della sovranità, come sovranità popolare, combattere la sovranità politica ha significato, di fatto, indebolire la democrazia.» In ogni caso, l’idea che la crisi della sovranità sia un problema solo per gli Stati non è accettabile. Essa, infatti, è un problema anzitutto per le persone, perché senza sovranità i loro diritti politici (e non solo) non sono garantiti e le politiche redistributive non si possono attuare, come ha sostenuto più volte il Prof. Massimo Luciani.

    Pertanto la questione della sovranità continua oggi più che mai a riproporsi come centrale, reclamando che si scelga tra il rilancio delle antiche sovranità nazionali (pur salvaguardandone le necessarie interdipendenze) e la costruzione di sovranità più ampie (ma difficilmente realizzabili) magari continentali. Mancano tuttavia una spinta poderosa di energia politica e le condizioni politiche, sociali e culturali in grado di produrre un salto in quest’ultima direzione. La costruzione della sovranità – come ha sottolineato di recente il Prof. Galli ‒ è uno dei processi più distruttivi della storia umana. Le sovranità degli Stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, detenere il monopolio della violenza, individuare gli interessi strategici di una comunità. Come ben sapeva Friedrich von Hayek, la via della sovranità europea porta inevitabilmente allo Stato minimo, date le radicate differenze di contesto fra i rispettivi popoli.

    Quel che è certo, guardando alla storia del processo di integrazione europea, è che da una parte si sono sottovalutati il peso delle singole identità storico-culturali e l’importanza del fattore tempo nei processi di aggregazione politica; dall’altro si è creduto in modo improvvido e superficiale di aggirare per via tecnica, funzionalista, il tema della decisione politica costituente. Il modo in cui si è reagito prima alla crisi economica, poi alla crisi sanitaria legata al coronavirus, e la strategia predatoria utilizzata contro la Grecia e gli altri Paesi del Sud hanno fatto poi il resto, logorando quel patrimonio di fiducia, attese e cooperazione di cui ancora l’Europa disponeva. Ancora oggi sotto la coltre della retorica della spinta di solidarietà europea che si sarebbe finalmente intravista ai tavoli delle trattative per affrontare le conseguenze della crisi sanitaria, c’è la realtà di una Europa che ruota attorno agli interessi nazionali dei singoli Paesi e un sistema di governance costruito in modo tale da rendere più difficoltose azioni vere di solidarietà e condivisione dei sacrifici fra i Paesi europei. Se gli assetti attuali non sono sottoposti a veri rischi di rottura è solo perché Francia e Germania non hanno alcun interesse a portare l’U e al collasso. Tanto più in momento di grande incertezza sul fronte geopolitico. In questo quadro, l’interesse tedesco è quello di mantenere e rafforzare il suo protagonismo all’interno dello spazio europeo, mentre la proiezione estera della Francia resta concentrata come da tradizione sulle sponde del Mediterraneo.

    La questione della sovranità e dell’energia politica a base di una futura unione politica europea si impongono come problemi centrali nell’ambito della ridefinizione di un ordine interno ed esterno. Per molti è stato possibile aggirare il problema – legittimamente, ma con scarsi risultati – eludendo la questione della sovranità e del potere costituente come dei ferri vecchi della politica moderna, superati da una prospettiva cosmopolitica, anch’essa con radici nel moderno ma con una tendenza a superarlo (nella misura in cui si supera l’ideologia nazionale e la sovranità statuale). L’europeismo in questo senso è spesso presentato, sul piano teorico, come un primo momento di un allargamento cosmopolitico che tiene insieme la mondializzazione dei flussi economici, di informazioni, di uomini e merci e una cultura centrata sulle categorie dei diritti umani e della cittadinanza universale, contro appunto il paradigma della sovranità dello Stato nazionale e delle economie nazionali. Sappiamo che la realtà non è questa, che è una finzione. Ma se ogni costruzione politica ha bisogno di finzioni (come costruzioni simboliche, concettuali ecc.) questa sembra particolarmente inadeguata per leggere la realtà europea contemporanea, e infatti cede sempre più al ritorno dei cosiddetti sovranismi.

    Venendo alla domanda, come leggete il nesso fra sovranità, prospettiva di integrazione europea e cosmopolitismo, alla luce tanto della realtà dei processi di integrazione europea e della globalizzazione economica, quanto delle trasformazioni dei paradigmi politico-giuridici?

    Preterossi: Credo che la questione del «nazionale, sovranazionale, internazionale, cosmopolitico» sia uno dei grandi nodi della riflessione politica e giuridica del tempo presente, ma sia anche fonte di notevoli equivoci, perché sull’opposizione globalismo-nazionalismo, e sui processi di denazionalizzazione prima e di de-globalizzazione poi, si sia giocata una partita para-identitaria, che ancora persiste.

    Gran parte del pensiero che genericamente possiamo qualificare, e che si auto-qualifica oggi, come «progressista» (che sia più o meno neoliberale, a sua insaputa oppure no, ma comunque condizionato da una serie di luoghi comuni mainstream degli ultimi 30/40 anni), ha individuato nei processi di denazionalizzazione e nella dimensione sovranazionale interpretata come habitat elettivo del costituzionalismo mondiale (nella migliore delle ipotesi), o come globalismo no border, uno straordinario avanzamento, una sorta di scarto antropologico e di filosofia della storia, che renderebbe possibile chissà quale ordinamento post-politico del mondo. Una strana fides ben poco realistica, che non consente di avere strumenti che abbiano presa analitica sull’effettività, uno sguardo concreto e critico su quello che abbiamo davanti agli occhi, cioè l’interregno del post-neoliberismo. Quella fiducia astratta nel carattere avanzato, progressivo del globalismo, ha una precisa genealogia: da un lato c’è l’eredità del marxismo e del post-marxismo, dall’altro quella di un certo illuminismo estremo che politicamente in Italia sfocia nell’azionismo, dall’altro ancora la stessa cultura cattolica, che tende ad alimentare un generico umanitarismo post-religioso. La fusione di tali filoni, radicalizzati nelle loro tendenze anti-statuali in un contesto non più «frenato» dalla sfida bolscevica a Est e dallo Stato keynesiano a Ovest, conduce a una spoliticizzazione integrale della cultura politica, che slitta in moralismo astratto.

    La tradizione radical-illuministica liberal guarda sistematicamente con sospetto tutto ciò che è potere, radici, territorio, nazione e fa fatica a pensare il conflitto, proprio perché svaluta questi contenitori di senso e di effettività, non riuscendo a capirne la persistenza e funzionalità. La saldatura di queste diverse tradizioni è rintracciabile, da tempo, in un nome eclatante: quello di Altiero Spinelli. Egli non era un intellettuale comunista «organico», ma ha avuto una sua storia che l’ha messo fortemente in contatto con il mondo del PCI prima, e poi, attraverso Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini ecc. l’ha portato ad assumere una serie di riferimenti intellettuali di tipo liberaldemocratico radicale, che sono sfociati nel Manifesto di Ventotene, diventato col tempo una sorta di Bibbia laica. Se ci si addentra nel testo, esso si rivela costellato da contraddizioni e astrattezze. Certo, è un documento che viene elaborato in una situazione peculiarissima, tragica: al confino, nel bel mezzo di una guerra tremenda, guardando al futuro e provando a immaginarlo. Se si va ad analizzarlo si vede che la colpa della tragedia in atto è attribuita non a quello che oggi possiamo chiamare il «momento Polanyi» ‒ l’assolutismo del mercato, il bisogno di protezione sociale, il fascismo «rivoluzione passiva» che in qualche modo ha monopolizzato la risposta a tali bisogni (seppur in chiave ferocemente autoritaria) ‒, ma allo Stato sovrano, che inevitabilmente diventerebbe nazionalismo, politica di potenza e diritto del più forte. Ora, a volte ciò accade, ma non necessariamente. E in ogni caso ci troviamo di fronte a un’analisi davvero molto parziale della tragedia del Novecento, perché espunge gli elementi strutturali, economico-sociali per focalizzarsi soprattutto su quelli ideologici. Dalla propaganda nazionalista del fascismo si deriva l’inservibilità o addirittura la pericolosità dello Stato-nazione e della sovranità politica tout court. Un bel salto mortale. Oltre a questo, la proposta alternativa che si lancia con il Manifesto è un mero atto di volontà, un salto quasi religioso, una transustanziazione: facciamo lo Stato mondiale; se si vuole, si può. E se nell’immediato quest’ideale di presunta perfezione irenica non è possibile, si passa a un’altra proposta, pensata come tappa intermedia: gli Stati Uniti d’Europa. Tutto un gettare il cuore oltre l’ostacolo, per nobili ragioni, per carità, ma che non sta in piedi. Le nobili ragioni, peraltro, possono anche essere strumentalizzate da chi, forte dei propri interessi, teme il potere delle masse nel nuovo Stato democratico, a fini redistributivi e di politicizzazione del conflitto sul salario. Inoltre, se le nobili ragioni si rivelano inefficaci o addirittura entrano in contraddizione con il fine dell’emancipazione sociale, evidentemente dal punto di vista politico non erano così buone. Senza considerare poi il sospetto nei confronti dei partiti, dei sindacati, dell’organizzazione del lavoro, la volontà dichiarata di promuovere sì una maggiore giustizia ed uguaglianza, ma comunque con un certo sospetto rispetto all’autorganizzazione delle masse, cioè con un’ottica per quanto progressiva, profondamente elitistica.

    Questo strano coacervo di astrattezza e buone intenzioni e, in fondo, di radicalismo borghese cosmopolitico è diventato, dopo la crisi dell’egemonia gramsciana (ma anche della tradizione socialista radicale, da Basso a Caffè), il «testo sacro» di ciò che una volta era la sinistra sociale e popolare in Italia. Il risultato finale è che si è persa totalmente la consapevolezza del fatto che lo Stato-nazione non è né buono né cattivo. È la forma che lo Stato moderno assume nella sua maturità. Riprendendo la famosa tesi di Böckenförde: per millenni la religione è stata il collante, poi nella modernità lo è stata la nazione e così, in un’epoca secolarizzata, lo Stato secolarizzato diventa Stato nazionale. Certamente la nazione è un’identità costruita nel tempo, frutto di un accumulo di artificialità, anche a prezzo di politicizzazioni, esclusioni e violenza. Per questo motivo, è ingenuo pensare che, visto che la nazione è una costruzione politica, possa essere «decisa» prescindendo dal contesto dato, dalle condizioni che eventualmente la rendono possibile, cioè possa essere sostituita facilmente. Vanno considerati, al contrario, il fattore tempo e le tante ipoteche che pesano sui processi storici collettivi. Non si può credere a una volontà astratta che produce chissà cosa. È chiaro che se si genera un’energia che una volontà politica intensa e organizzata contribuisce a incanalare, si possono creare anche esperienze politiche radicalmente nuove. Ciò richiede spesso una frattura rivoluzionaria, che ha anch’essa le sue radici. E anche in questo caso, ad oggi, il contenitore è il medesimo: lo Stato (nazionale o federale che sia).

    È evidente che la nazione non è più quella dell’Ottocento, in nome della quale sorgeva il fervore per la «primavera dei popoli», una «religione», seppur laica, che attraeva i giovani. Anche se ciò dipende da dove vogliamo guardare. Ad esempio, non sarei così certo che i popoli che lottano per l’indipendenza non siano propensi a essere una comunità politica e a volersi affermare come Stato-nazione. Pensiamo per esempio ai palestinesi.

    Certo è che in Europa, dopo tutto quello che è successo nel Novecento, la nazione non è più, almeno per una parte della cittadinanza, un fattore mobilitante. Ma resta il contenitore entro cui si esplica la sovranità democratica. Quindi, essere contro la nazione significa essere contro la sovranità democratica. È un errore e una forzatura pensare che il tener conto della centralità dello Stato moderno sia necessariamente il segno di un attardarsi regressivo. Per me è il «fattore Stato» quello decisivo, ma oggettivamente si tratta di uno Stato-nazione. Ci sono certo anche Stati federali, i quali peraltro una qualche forma d’identità nazionale comune ce l’hanno, come gli Stati Uniti; oppure se non ce l’hanno più ciò diventa un grande problema: si pensi sempre all’esempio degli Stati Uniti, la cui «religione civile» sembra oggi in crisi (o forse si tratta solo dell’esplosione delle contraddizioni che fin dall’inizio animano quell’esperimento: il mito della frontiera e la «grande società», i diritti naturali e lo schiavismo, l’autorizzazione della violenza privata e l’eccezionalismo salvifico, l’universalismo «liberal» e la politica delle differenze). Insistere sul livello sovranazionale o transnazionale etichettandolo come cosmopolitico è politicamente non innocente perché, in realtà, è stato funzionale all’ideologia anti-statuale e, in fondo, antidemocratica e antipolitica del neoliberismo. Naturalmente è comodo usare il cosmopolitismo, che è un concetto a bassa intensità politica particolarmente evocativo dal punto di vista morale, da Kant in poi, identificandolo con la grande idea del Weltmann nel Settecento, l’uomo di mondo che coltiva se stesso e la propria curiosità verso gli altri, in spirito di apertura e tolleranza. Chi può essere contro? Non si considera però che l’apertura autentica, la curiosità vera verso le differenze presuppongono la «propria differenza», e la consapevolezza della sua storia, non un appiattimento generale, una omologazione culturalmente avvilente, una plastificazione integrale, che è poi quanto ha alimentato l’immaginario della globalizzazione (la prospettiva da perseguire può essere quella di un pulviscolo che si agita senza direzione da una parte all’altra, informe?). Così non solo non si riesce a tenere insieme le collettività, cioè non si riesce a governarle, ma francamente si determina a mio avviso anche una regressione politico-culturale, forse persino antropologica, devastante anche in termini di cultura popolare di massa. Siamo invasi da prodotti mediocri della cultura consumistica e pubblicitaria il cui epicentro è l’America, ma diciamo ormai anche l’Occidente tutto.

    Se il cosmopolitismo è un fatto morale non è un problema, se si pretende di tradurlo in un concetto generatore di forma politica allora è un disastro.

    Dobbiamo capire che l’etichetta «cosmopoli» serve a coprire un’operazione politica-polemica feroce, anche se dissimulata, che è la demolizione degli universali concreti, determinati come lo Stato moderno, e di conseguenza di partiti, sindacati, di tutti i soggetti e gli strumenti di mediazione collettiva. La messa in discussione dell’autonomia della politica, della sua istituzionalizzazione travolge la politica e anche il diritto. In questo senso i giuristi, i quali si illudono che col sovranazionale ci sia lo spazio per il trionfo del diritto e dei diritti, sono nella migliore delle ipotesi molto ingenui. Il trionfo di cosa? Da un

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