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L'altra sorella: Un'indagine di John Adderley
L'altra sorella: Un'indagine di John Adderley
L'altra sorella: Un'indagine di John Adderley
E-book428 pagine12 ore

L'altra sorella: Un'indagine di John Adderley

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Info su questo ebook

IL SECONDO ROMANZO DELLA SERIE CON PROTAGONISTA JOHN ADDERLEY, AGENTE DELL’FBI SOTTO COPERTURA IN SVEZIA.

Un protagonista tormentato e pieno di lati oscuri, ma assolutamente affascinante.” PUBLISHERS WEEKLY

Alicia Bjelke è una giovane donna dal volto talmente sfigurato da un incidente avvenuto durante la sua infanzia che tutti distolgono lo sguardo quando la vedono. Per questo si è creata una vita come genio della programmazione e ha creato un rivoluzionario sito di incontri con Stella, la sua bellissima sorella che è anche il volto ufficiale dell’azienda.

Finché un giorno Stella viene trovata morta. È stata ferita al collo con un’arma da taglio e anche il suo viso è mutilato. E la vita di Alicia prende decisamente la piega sbagliata, perché capisce di essere proprio lei la prossima vittima.

Sull’omicidio di Stella viene chiamato a indagare John Adderley, l’ex agente dell’FBI sotto copertura a Karlstaad. Dopo una fallita infiltrazione in un cartello della droga negli Stati Uniti, è fuggito in Svezia, ma deve continuare a guardarsi le spalle. Perseguitato dai fantasmi del passato, John sta per andarsene, quando i suoi piani cambiano. Deve affrontare il suo destino una volta per tutte, e questa nuova indagine potrebbe fornirgli una via d’uscita inaspettata…

Una serie che ha appassionato let­tori e librai di tutti i paesi scandinavi.

LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2023
ISBN9788830592674
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    Anteprima del libro

    L'altra sorella - Mohlin & Nyström

    PRIMA PARTE

    Mercoledì

    1

    Le bambine riuscirono finalmente a sincronizzarsi. Si tenevano per mano e scoppiavano in una risata fragorosa ogni volta che le altalene fissate alla struttura portante in acciaio raggiungevano un punto più alto. La madre, con gli occhi piantati sul cellulare, si stava perdendo lo spettacolo, ma dalla panchina distante una ventina di metri Alicia poteva vedere la gioia sulle loro facce sporche di moccio. Due sorelle, in sintonia tra loro e con il mondo, in un perfetto movimento oscillatorio. Come se fossero state un corpo unico.

    Faceva freddo, c’erano un paio di gradi sotto lo zero. Le sue gambe avevano quasi perso la sensibilità, ormai, non si era più mossa di lì, stupendo persino se stessa. Non era da lei guardare i bambini che giocavano nel parco.

    Di solito prendeva un taxi dal lavoro per tornare a casa, era un lusso che si concedeva per evitare gli sguardi della gente in autobus. Ma quel giorno aveva percorso a piedi i tre chilometri che separavano gli uffici della Raw, nel centro di Karlstad, dalla sua casa a Norrstrand. Il sole del pomeriggio era così splendente che si era fermata nel quartiere prima del suo e si era seduta su una panchina. Era rimasta lì, a disegnare con i piedi figure sulla neve pensando che quello era un giorno assolutamente perfetto. E se lo era quel giorno poteva esserlo anche il giorno dopo, e quello dopo ancora.

    Sorrise tra sé e sé e scosse la testa. Eccola, Alicia Bjelke, seduta lì a enunciare formule da manuale di autoaiuto.

    «Devo fare la pipì.»

    La voce della bambina più piccola destò l’attenzione della mamma, immersa nel suo smartphone. Alicia non aveva figli, ma poteva immaginarsi che non fosse un’impresa facile sfilarle la tutina in nylon Beaver. Per evitare incidenti, la mamma si trascinò dietro la figlia verso la casa in legno bianca, che si trovava di fianco al parco giochi. Alla sorella più grande fu concesso di restare sull’altalena, con l’avvertimento di non allontanarsi. Si diede un po’ di slancio con le gambe, ma senza prendere troppa velocità. Dondolarsi da sola non era divertente come con la sorellina.

    Alicia pensò alla conversazione che aveva avuto con la sua, di sorella, poco più di un mese prima. Era la terza domenica di Avvento, non era ancora caduta la prima neve. Aveva messo le carte in tavola, spiegando a Stella perché il lancio della Raw in Germania doveva essere rimandato.

    Il servizio di dating online che le due sorelle avevano avviato insieme non era più l’attività con cui occupavano il tempo libero in una stanza da studentesse. In qualità di direttore tecnico, Alicia doveva poter svolgere il suo lavoro con la massima accuratezza, ma la situazione era diventata insostenibile. Lavorava quattordici ore al giorno e le stringhe di codice se le sognava anche di notte. Stella le aveva messo un braccio attorno alle spalle e l’aveva ascoltata. Era brava in questo, sua sorella, sapeva sempre quando era il momento di parlare e quando era il momento di tacere. Aveva promesso di posticipare la data di sei mesi: la salute veniva prima di tutto.

    Alicia ricordò il sollievo provato subito dopo. Per la prima volta da molto tempo aveva dormito tutta la notte. Il Natale era passato senza che lei quasi se ne accorgesse, sepolta sotto il piumone del suo letto.

    Spostò lo sguardo sulla ragazzina rimasta sola sull’altalena. La sua velocità era aumentata, adesso. Lo pneumatico su cui era seduta oscillava sempre più in diagonale e alla fine andò a sbattere contro la struttura portante. Il suo esile corpicino fece un volo che si concluse sulla neve. Alicia corse da lei e le si accovacciò accanto, poi la aiutò a rialzarsi in piedi.

    «Tutto bene?» le chiese.

    Il viso roseo della piccola si sforzava di trattenere le lacrime. Alicia sentì dei passi alle spalle e quando si voltò vide che era la madre della bambina. Doveva aver notato da casa cos’era successo e si era affrettata a tornare. I loro sguardi si incrociarono e Alicia si accorse che la donna sussultò indietreggiando.

    «Vieni, rientriamo» disse alla figlia.

    «Ha fatto davvero un bel volo, ma per fortuna è atterrata sul morbido. Credo sia stato più lo spavento che altro» disse Alicia rialzandosi a sua volta.

    La donna non rispose, continuando a fissarla.

    «Dobbiamo andare, adesso» le uscì di bocca alla fine.

    «Volevo solo aiutarla.»

    «Grazie, ma non ce n’è bisogno.»

    Gli occhi della madre rifiutavano di staccarsi dal suo viso. Alicia era abituata a quel tipo di reazione. Un misto di fascino e disgusto. Di solito lo tollerava, non era certo la prima volta che qualcuno la fissava insistentemente in volto. Ma quella stronza stava esagerando. Lei era andata a consolare la figlia e in cambio veniva trattata come una reietta.

    «Se vuole continuare a guardare il mostro dovrà pagare il biglietto» disse allungando la mano.

    2

    La fiamma della candela tremò quando la cameriera gli passò davanti. John la vide affrettarsi tra i tavoli per raggiungere il gruppetto in fondo al ristorante. Tre uomini e una donna, tutti in completo da ufficio. Li aveva catalogati come colleghi che si erano ritrovati per un afterwork, ma non ne era del tutto sicuro. Era proprio quello il problema. Negli ultimi tempi non era più sicuro di niente.

    Dagli altoparlanti si diffondeva una salsa melodica e gradevole. La stessa playlist di sempre. La musica del Rederiet era prevedibile come il suo menu: tapas spagnole e vino Rioja. John si sentiva a casa tra quei tavoli di legno grezzo e i grandi lampadari a soffitto. Il ristorante era a un tiro di schioppo dal suo appartamento e ci veniva diverse volte alla settimana. Ma quella sera sapeva che non era il caso di rilassarsi troppo, tutto poteva cambiare da un momento all’altro e lui doveva essere pronto.

    «Santo cielo, che caldo che fa qua dentro. Credevo fosse ai finlandesi che piaceva fare la sauna.»

    La risata dall’altra parte del tavolo sovrastò la musica. Quel suono fragoroso era il segno più distintivo di Trevor. John avrebbe potuto additarlo a occhi chiusi in mezzo a una marea di gente che rideva.

    Il suo amico tirò giù la cerniera del piumino. Quando la sua mano scomparve sotto il tessuto imbottito, John strinse più forte l’arma che nascondeva sotto il tavolo. Lentamente, avvicinò l’indice al grilletto. Se avesse sparato, il colpo gli avrebbe colpito il basso addome.

    «Ma in fondo che ne so io, magari anche gli svedesi vanno matti per la sauna» proseguì Trevor.

    Si sfilò la giacca a vento e la appese allo schienale della sedia. Entrambe le mani erano di nuovo visibili e John poté riprendere a respirare. Non più tardi della sera prima, era convinto che il suo amico fosse morto. Trovarsi adesso seduto di fronte a lui al Rederiet gli sembrava del tutto irreale.

    John mormorò qualcosa in risposta, mentre continuava a guardarsi attorno nella sala alla ricerca di nemici ignoti. Il proprietario del ristorante sapeva che era un poliziotto e senza fargli domande gli aveva lasciato dare un’occhiata all’agenda delle prenotazioni prima dell’ora di apertura. La coppia accanto alla finestra e la famiglia con la carrozzina avevano prenotato con largo anticipo, per cui loro li poteva escludere. Al contrario, l’uomo con le spalle larghe seduto al tavolo a sinistra dell’entrata doveva invece essere tenuto sotto controllo. Aveva prenotato il giorno stesso, così come il gruppetto di colleghi che era appena stato servito dalla cameriera.

    John rivolse lo sguardo all’angolo bar. Lì c’erano due clienti abituali con cui di solito faceva quattro chiacchiere, ma anche un volto sconosciuto. O meglio, una nuca. L’uomo con i capelli color argento raccolti in un man bun era in piedi di spalle e stava bevendo una birra direttamente dalla bottiglia.

    «Cazzo, che figata rivederti. Non puoi immaginare cosa significhi per me» disse Trevor, sembrando sinceramente grato.

    John si sforzò di sorridere, cercando di capire se l’amico avesse perso peso. In effetti la giacca gli stava più larga sulle spalle e la camicia non tirava più allo stesso modo sul petto. O Trevor era dimagrito, oppure indossava volutamente abiti di una taglia più grande per dare quell’impressione.

    L’amico si asciugò il sudore dalla fronte con un tovagliolo e si sfilò il berretto di lana. John sussultò vedendo il suo cranio pelato. Quando si erano incontrati l’ultima volta, quattro mesi prima, aveva ancora capelli ricci e folti.

    «Non essere tanto sorpreso» disse Trevor. «Cosa ti aspettavi?»

    John abbassò gli occhi sul tavolo.

    «In effetti non lo so» mormorò.

    L’atteggiamento dell’amico gli era a un tempo familiare ed estraneo. La voce da basso, la risata e la gestualità particolarmente espressiva erano le sue, ma comunque in lui c’era qualcosa di artefatto. Il modo in cui si era tolto il berretto era stato teatrale, come se volesse ottenere il massimo effetto possibile mettendo in mostra la pelata.

    John ricordò a se stesso che tutto quello che serviva a un uomo per simulare gli effetti collaterali della chemioterapia erano un rasoio e della schiuma da barba. Doveva continuare a comportarsi come se Trevor fosse un’esca, e il loro incontro una trappola. Se gli scagnozzi – come li definiva – si nascondevano nel locale, lui aveva quantomeno il vantaggio di giocare in casa. La porta a vento che conduceva in cucina era a pochi passi, e nel regno dello chef c’era un’uscita che dava direttamente sulla via dietro l’edificio. Lì era parcheggiata l’auto di John, con tutto quello che poteva servirgli per iniziare una vita in fuga.

    «Come stai, vecchio mio?» gli domandò Trevor.

    L’amico gli sorrise da sopra la candela accesa.

    Vedendo che John non rispondeva aggiunse: «Dài, su, adesso raccontami cosa c’è che non va. E se è una pistola quella che tieni sotto il tavolo, puoi anche metterla via».

    3

    Alicia voleva ordinare qualcos’altro da bere e si guardò attorno nella pizzeria. Era lì che si era precipitata dopo il diverbio nel parco, al Palermo. Le piaceva, quel posto, era vicino a casa e a debita distanza dall’ufficio glamour tutto di design della Raw, in centro città.

    Nella pizzeria gli arredi erano davvero brutti e privi dell’ironia del kitsch. Sulla parete in mattoni dipinti di bianco erano appesi poster di film degli anni Ottanta e Novanta. I tavoli laccati di nero avevano un ripiano di vetro fissato sulla superficie con il menu inserito sotto.

    Come sempre, Ratko era dietro al bancone a fare le pizze. Quando alzò gli occhi dal suo piano di lavoro, Alicia sollevò il bicchiere vuoto indicandolo. Lui le fece un cenno per confermare l’ordinazione.

    Il proprietario del Palermo era quasi fuori luogo quanto lei, nel proprio ristorante. Possedeva la discoteca più famosa della città, il Safir, e diversi caffè modaioli dove i clienti bevevano frappuccino e latte di soia macchiato, non caffè che sapeva di bruciato come lì. Ma il Palermo era stato il suo primo ristorante e Ratko si incaponiva a voler continuare a infornare pizze e servire i clienti diverse sere a settimana, anche se il locale contribuiva solo in minima parte al suo crescente impero.

    «Continui a non volermi dire perché sei così arrabbiata?» le chiese piazzandole la birra sul tavolo.

    La quarta di fila.

    Alicia ripensò alla donna del parco, che magari in quel momento era seduta davanti alla tv con un bicchiere di vino rosso e stava raccontando al marito dello sgradevole incidente. Non tanto del fatto che la figlia maggiore fosse caduta dall’altalena, ma dell’essere mostruoso che l’aveva aiutata a rialzarsi dalla neve spaventandola a morte.

    «Smettila di rompere» disse Alicia. «Non vedi come sono tranquilla adesso? Praticamente una monaca buddhista.»

    Chiuse gli occhi facendo finta di meditare. A dire la verità avrebbe voluto farsi anche uno shottino di vodka, ma lasciò perdere. Non le andava di vedere la faccia preoccupata di Ratko mentre le versava il liquore.

    Un paio d’anni prima avevano avuto una breve relazione, formando la coppia più improbabile di tutta Karlstad. Lui, l’immigrato di seconda generazione frutto della guerra in Jugoslavia, sempre vestito con camicie costose e jeans all’ultima moda, attentissimo a essere ben inserito, a venire accettato da quelli che contavano. Lei, l’outsider, la faccia da mostro, la ragazza che sapeva tutto di computer e indossava sempre e solo jeans neri e felpe con il cappuccio altrettanto scure.

    Naturalmente Ratko si era premurato di mantenere segreta la loro storia. Farsi vedere in pubblico con lei rischiava di farlo scendere di diversi gradini nella scala sociale, che era tanto ossessionato di voler salire. Nemmeno i clienti abituali del Palermo sapevano che erano andati a letto insieme.

    Alicia stava per portarsi il bicchiere di birra alla bocca quando dalla parte opposta del ristorante si levarono forti sghignazzi. I maniaci del calcio, che occupavano nel solito ordine il lungo tavolo davanti al maxischermo. Al Palermo costituivano un gruppo a sé, che di rado si mescolava agli altri clienti abituali, i quali a essere sinceri non erano molti. In realtà solo poche anime perdute come lei e gli zombie con dipendenza da gioco che bivaccavano alle slot-machine in fondo al locale.

    «Non la smettono mai di aprire quelle boccacce? La partita è finita.»

    «Sì, ma è mercoledì. Serata di quiz.»

    Alicia si diede un colpetto in fronte.

    «Ah! Me n’ero dimenticata. La sfida tra i colossi dell’intelletto.»

    «Cerca di non fare troppo la maleducata. Se si fermano un po’ di più è solo un bene per i miei affari» disse Ratko prima di tornare dietro il bancone, mentre la voce di uno degli uomini si alzava.

    «In quali anni Fredrik Reinfeldt è stato ministro di stato della Svezia?»

    Attorno al lungo tavolo si fece silenzio mentre i concorrenti delle squadre sussurravano tra loro.

    «Dal 2006 al 2014» gridò Alicia, e poi bevve una lunga sorsata di birra.

    I maniaci del calcio si voltarono, guardandola con aria irritata. Non era la prima volta che senza esserne invitata si intrometteva nel gioco a quiz.

    L’uomo che aveva fatto la domanda si alzò e arrivò al suo tavolo. Era di corporatura gracile, con spalle strette e braccia prive di muscoli, ma sotto la maglietta rossa da calcio spuntava una pancetta da birra bella gonfia. Alicia aveva sentito che gli altri lo chiamavano l’accademico. Quando aveva chiesto a Ratko se lo era davvero, lui aveva riso fino alle lacrime. Insegnava le cosiddette materie sociali – storia, geografia, religione ed educazione civica – alle medie, il che evidentemente lo rendeva titolato a meritarsi quel soprannome.

    «So benissimo che sai rispondere a tutte le domande che ho preparato per questa sera» disse sventolando un foglietto di carta. «Ma i ragazzi non si divertono più se urli tu le risposte ad alta voce.»

    Il tono era amichevole e ad Alicia passò la voglia di mettersi a battibeccare con lui.

    «Puoi comprare il mio silenzio per un shottino di Smirnoff» gli disse.

    Lui scoppiò a ridere e le porse la mano.

    «Affare fatto.»

    Tornando verso il tavolo lungo l’uomo passò davanti al bancone del bar, pagò la vodka e fece un cenno nella sua direzione. Come Alicia si aspettava, Ratko non parve troppo contento. Ma chi era lui per sentenziare sulle sue abitudini in fatto di alcolici? Non andavano più a letto insieme e non si incontravano mai al di fuori del Palermo.

    Alicia prese il cellulare e fece scorrere i messaggi di posta elettronica ricevuti, senza aprirne nemmeno uno. Leggere e rispondere alle email da ubriaca non era una buona idea, aveva già avuto modo di constatarlo in passato. Posò il telefono sul tavolo e pensò a Stella. La registrazione dell’intervista televisiva a Stoccolma doveva essere ormai pronta. Il programma si intitolava L’approfondimento e sarebbe andato in onda il giorno dopo.

    Alicia aveva deriso il sottotitolo pomposo che aveva: Incontri con personaggi che hanno segnato il nostro tempo. Ma doveva ammettere che la descrizione in quel caso era corretta. Lo strumento di dating creato da lei e da Stella era per molti aspetti estremamente innovativo e aveva rivoluzionato gli schemi degli incontri online tra le persone.

    Se Alicia conosceva bene sua sorella, sarebbe rimasta nella capitale dopo l’intervista, lasciandosi sedurre dai bar attorno a Stureplan. A differenza di lei, Stella non aveva bisogno di elemosinare perché le offrissero da bere.

    Ratko non disse niente quando le portò la vodka. Si limitò a posare il bicchiere sul tavolo e tornò verso il bar.

    «Dài, smettila, è solo uno shot» gridò rivolgendosi alle sue spalle.

    Lui si voltò per dire qualcosa, ma si bloccò quando due uomini in giubbotto di pelle nera aprirono la porta del Palermo. Ad Alicia sembrò di riconoscerne uno. Aveva la barba grigia e tatuaggi sia sul viso sia sul cranio rasato. Con l’altezza e le spalle larghe che aveva, pareva un gigante in confronto al suo accompagnatore. L’etichetta con ricamata su la scritta PRESIDENT sul suo giubbotto era superflua. Chiunque nel locale poteva comunque capire chi fosse a comandare tra i due.

    Lo sguardo solitamente così sicuro di Ratko vacillò. Si prese tra le dita la collana d’oro che si intravedeva sotto la camicia sbottonata sul collo. Il Presidente disse qualcosa al suo sottoposto, che andò a sedersi sul bordo del tavolo più vicino alle slot-machine. Poi il gigante scomparve in cucina insieme a Ratko.

    Alicia non sapeva perché si era messa a ridere, ma una volta iniziato non riuscì più a smettere. Era colpa dell’alcol, e della stronza al parco che aveva risvegliato l’attaccabrighe che era in lei. Non che quel suo lato fosse mai troppo sopito, per carità.

    Ma possibile… che funzionasse ancora così? Con le bande di biker che facevano cagare sotto i ristoratori come Ratko e attingevano a piene mani ai loro incassi giornalieri?

    Alicia buttò giù la vodka e andò al bar per versarsene un’altra. L’insegnante di materie sociali pose la seconda domanda mentre lei si allungava sul bancone per afferrare la bottiglia.

    Il sottoposto la guardò dal suo angolino con gli occhi sgranati, ma rimase comunque seduto quando lei si riempì il bicchiere e lo alzò verso di lui facendo un brindisi.

    Alicia era al terzo shot quando Ratko e il Presidente tornarono dalla cucina. Le girava la testa e doveva tenersi al bancone per non cadere dall’alto sgabello dove si era seduta.

    «Quanto paga lui?» disse.

    Il tizio con il giubbotto nero la guardò stupito.

    «Eh?»

    «Cioè, quanto costa evitare che il proprio locale venga distrutto?»

    «Per favore, ti dispiace lasciarci in pace?» disse Ratko prendendola per un braccio.

    Alicia si strattonò per liberarsi e fece cadere la poca vodka rimasta nel bicchiere sulla superficie laccata di legno scuro.

    «Okay, okay, riformulo la domanda» disse. «Ratko paga in cash, giusto?»

    «Ma chi cazzo sei tu?» sbottò il Presidente.

    «Vedimi come un consulente finanziario indipendente. E in realtà non hai bisogno di rispondere perché sono abbastanza sicura che paghi in contanti. Il che è una vera idiozia. Pensa a quanto lavoro evitereste cambiando modalità.»

    Alicia si accorse che stava biascicando. L’uomo strizzò gli occhi azzurro chiaro per cercare di seguirla.

    «Non capisco cosa intendi dire» fece il Presidente.

    «Intendo dire che il cash è ridicolmente obsoleto nell’ambiente criminale» rispose, cercando di scandire le parole nel modo più chiaro possibile.

    «Ma che cazzo, Alicia, adesso basta. Questo non è…»

    Ratko si zittì all’istante quando Giubbotto nero alzò una mano perché lei potesse continuare.

    «Quante ore sprecate ogni mese per riciclare il denaro sporco?» continuò lei. «Tutto tempo buttato via, secondo la mia opinione. Dovete stare al passo con l’innovazione e iniziare a lavorare in digitale.»

    «In digitale. E come sarebbe?» chiese il Presidente.

    «Criptovalute, ovvio. Sono fatte apposta per non essere tracciate. Ma forse sono cose troppo sofisticate per voi?»

    Alicia vide che Ratko sussultò di fronte a quell’oltraggio. La guardò con l’aria preoccupata, come se cercasse di dirle con gli occhi di sparire.

    «Stai parlando di bitcoin?» disse il Presidente, facendo in realtà un sorrisetto.

    Alicia si mise a ridere.

    «Ma no! Di nuovo, dovete portarvi avanti. Nessun gangster che si rispetti usa più i bitcoin, ormai. Potrei suggerire Monero, Ethereum o forse anche Zcash.»

    «Okay, e cosa sono?»

    «Altre criptovalute più furbe. Sono convinta che Monero farebbe proprio al caso vostro. Crittografando l’indirizzo del destinatario nella blockchain e dando al mittente un indirizzo falso il pagamento diventa pressoché impossibile da tracciare.»

    Il Presidente la fissò a occhi spalancati e poi guardò Ratko.

    «Chi cazzo è questa qua?»

    «Scusa, mi dispiace» fece Ratko.

    «Ma no, che cazzo dici? Mi piace.»

    Fece il giro del bancone e andò a sedersi su uno sgabello vicino ad Alicia.

    «Dacci un paio di Jägermeister» disse, e poi raddrizzò il bicchiere che si era rovesciato.

    «Io bevo Smirnoff.»

    «Okay, due vodke, allora.»

    Il Presidente porse ad Alicia un pacchetto di Marlboro.

    «Fumi?»

    Lei scosse il capo.

    «Credevo che non fosse più consentito nei ristoranti.»

    «Infatti non lo è» disse lui accendendosi una sigaretta. «Cos’è successo alla tua faccia? Fa davvero impressione.»

    Alicia fece la solita battuta che usava per sdrammatizzare: che ricordava la pizza Vesuvio e che a lei a volte bastava guardarsi allo specchio per farsi venire l’appetito. Il Presidente rise e le fece il primo complimento che avesse mai ricevuto per il suo aspetto da adulta, pur avendo già raggiunto la bella età di ventinove anni.

    «In ogni caso le tue tette sono assolutamente fantastiche. Sono rifatte, no?»

    «Per niente. Sono un dono di natura.»

    Ratko riempì due shottini facendo del suo meglio per non far capire che stava ascoltando cosa si dicevano. E invece non si perdeva una parola, Alicia ne era sicurissima.

    Piano piano il Palermo riprese vita. I maniaci del calcio ricominciarono a fare il loro quiz e i ludopatici osarono avvicinarsi al bancone del bar per cambiare i soldi. Il Presidente alzò il braccio e fece un brindisi ad Alicia. Lei indicò con il mento il suo sottoposto al tavolo nell’angolo.

    «Non credi che anche il tuo assistente personale abbia voglia di bersi qualcosa?»

    Giubbotto nero scoppiò di nuovo a ridere.

    «Non preoccuparti per lui, è pagato per starsene seduto lì.»

    «Con Monero eviteresti anche queste spese» commentò Alicia. «Non avresti nemmeno bisogno di presentarti qui. Cioè, finché Ratko paga quello che deve.»

    «Ma dài» fece lui schioccandole un bacio con le labbra.

    Alicia sentì una mano sulla sua coscia e il leggero formicolio al basso ventre che quel toccò le destò. Rimase immobile come una statua quando lui le diede un bacio delicato sul collo.

    «Torno subito» disse l’uomo alzandosi dallo sgabello.

    Non appena scomparve in bagno, Ratko le si avvicinò.

    «Che cazzo stai facendo?»

    «Perché, cosa c’è?»

    «Lo sai o no chi è quel tipo?»

    Alicia dovette chiudere gli occhi. Il rapido movimento con cui si era voltata verso di lui le aveva fatto girare la testa.

    «È un gran fico, in questo momento non ho bisogno di sapere altro.»

    «Stammi a sentire, è il boss di una banda di biker che cerca di entrare nei Bandidos.»

    «Eccitante» commentò lei. «Non sono mai stata a letto con un Presidente prima d’ora. Per cui da domani potrai chiamarmi first lady, se ti va.»

    Ratko si passò la mano sui capelli impomatati.

    «Alicia, sei ubriaca marcia. Quello che non voglio è che fai qualcosa di cui poi…»

    «Faccia, non fai» lo interruppe lei.

    «Eh?»

    «Si dice che faccia non che fai

    «Smettila con queste stronzate.»

    «E perché dovrei! Sì, è vero, sono ubriaca. Ma quello in ogni caso non si vergogna di me.»

    Fece un cenno verso il Presidente, che era appena uscito dal bagno e stava tornando al bar.

    «Adesso andiamo a farci un bicchierino della staffa in un posto più tranquillo» le disse mettendole un braccio attorno alle spalle.

    Alicia si alzò dall’altissimo sgabello e si fece aiutare da lui a indossare la giacca a vento. Mentre si dirigevano verso l’uscita, lei barcollò andando a urtare contro un tavolo provvisto di posate, portatovaglioli e bicchieri che finirono rovinosamente a terra. Il Presidente le mise un braccio attorno alla vita per sorreggerla e ad Alicia piacque sentire quella presa salda.

    Dal bancone del bar, Ratko seguì con gli occhi la sua uscita tutt’altro che leggiadra, ma lei non ci pensò nemmeno a rivolgergli uno sguardo. Che cazzo, lei faceva quello che voleva. Il lavoro di Ratko era versare da bere e starsene zitto.

    Il ventilatore al soffitto ruotava alla massima velocità e il ronzio che faceva indusse Alicia ad alzare gli occhi. La stanza iniziò a girare e le sembrò di essere dentro a un caleidoscopio. Nel frattempo, l’insegnante di materie sociali seduto al tavolo lungo stava chiedendo il nome della capitale della Colombia.

    Alicia si mise le mani attorno alla bocca e gridò, voltandosi verso l’interno della sala: «Bogotá!».

    Poi uscì dalla pizzeria Palermo ed entrò nel gelo della notte.

    4

    Con un discreto cenno del capo, John fece segno alla cameriera di non avvicinarsi al loro tavolo. La conversazione in corso non si addiceva a un uditorio e poi la ragazza non doveva assolutamente accorgersi che lui stava infilando l’arma di servizio nella fondina ascellare che teneva sotto la giacca.

    «Perché non ti fidi di me?» gli chiese Trevor senza staccare lo sguardo.

    «Tu ti fideresti al posto mio?»

    «Forse no» ammise lui. «Quando ti lasci prendere dalla paranoia, la vita diventa un vero inferno.»

    John sapeva che l’amico parlava per esperienza diretta. Un anno prima erano stati ingaggiati entrambi dall’FBI; lavoravano come infiltrati in un racket nigeriano della droga a Baltimora. Ogni giorno avevano combattuto contro la paura di venire scoperti. Ciò nonostante, Trevor era stato così bravo nello svolgere il suo compito da essere diventato il braccio destro del boss. Questo la diceva lunga sulla sua capacità di bluffare e guadagnarsi la fiducia degli altri.

    «Sei venuto qui da solo?» chiese John.

    «Sì, è ovvio. Ma cosa ti sei messo in testa? Che sia stato mandato da Ganiru?»

    Era così che si chiamava. Ganiru Okeke. Capo del racket della droga locale, che si era beccato sette anni di galera grazie alla testimonianza di John e di Trevor al processo che si era tenuto l’autunno prima.

    «Non è poi così strano pensarlo, non credi?» disse John. «Che stia usando te per arrivare a me.»

    «Ti va bene se ordino qualcosa da bere o temi che la cameriera ti pianti il cavatappi nel collo?»

    «Sì, certo» disse John, perfettamente consapevole che anche lui avrebbe reagito così a quel tipo di obiezioni. Ridicolizzando la preoccupazione per cercare di dissiparla. Smascherando il fantasma e riducendo gli scagnozzi di Ganiru a semplici babau.

    Trevor fece segno alla giovane di avvicinarsi. Spiegò che avrebbero aspettato a ordinare i loro piatti, nel frattempo lui si sarebbe preso una birra. Quando la ragazza se ne andò per servire altri clienti, si chinò sul tavolo verso John.

    «Okay» gli disse. «Ricominciamo dall’inizio, così riesco a capire bene anch’io. Prima che ci separassimo subito dopo il processo ho creato due account crittografati in un servizio di posta elettronica. Perché credi che lo abbia fatto?»

    «Per poter rimanere in contatto, anche dopo esserci trasferiti e aver ottenuto una nuova identità.»

    «Quindi su questo non ci sono dubbi.»

    John scosse il capo.

    Trevor allontanò la candela perché la fiamma non lo bruciasse.

    «Non pensavo che mi avresti mai scritto.»

    «Non lo pensavo neanch’io.»

    John ricordò gli avvertimenti che gli aveva impartito il suo referente al Bureau. Chi entrava nel programma di protezione testimoni doveva essere pronto a tagliare completamente i ponti con il passato. Ogni minimo contatto poteva costituire un rischio potenziale per la propria sicurezza.

    «Perché hai poi cambiato idea?»

    «Per lo stesso motivo per cui a te era venuto in mente di creare gli account.»

    Trevor annuì e lo guardò con aria seria. Per un istante John sentì di nuovo il profondo legame che li univa. Quel vincolo particolare che derivava dall’aver visto da vicino il regno del terrore di Ganiru, e dalla consapevolezza dell’enorme capitale di violenza di cui poteva disporre il trafficante di droga. Chi era preso di mira da un personaggio di quel calibro aveva bisogno di un amico che sapesse cosa voleva dire non poter mai più dormire sonni tranquilli.

    La cameriera arrivò con la birra e posò sul tavolo il boccale spumeggiante.

    «Mi spiace ma non riesco più a seguirti in questo gioco agli indovinelli» disse Trevor quando la ragazza se ne andò. «Quando, secondo te, pensi che abbia tradito la tua fiducia?»

    John scrutò gli occhi perplessi dell’amico.

    «Non lo hai fatto volutamente» rispose. «Credo che tu sia stato costretto da quelli che mi danno la caccia.»

    «Quelli che ti danno la caccia?»

    «Sì, gli scagnozzi che paga Ganiru per scoprire dove siamo finiti noi due. Non so come abbiano fatto a trovarti, ma so che ci sono riusciti.»

    Sembrò che Trevor stesse per strozzarsi con la birra.

    «No, ma che cazzo…»

    «Aspetta» lo interruppe John. «Sono riusciti a entrare nel tuo computer e hanno trovato le email che ci siamo scambiati. Dato che non avevamo mai rivelato dove ci trovassimo, si sono messi alla tastiera e mi hanno scritto fingendosi te.»

    «E quindi vuoi dire che questo…»

    Trevor si posò la mano sulla pancia.

    «… non è altro che una montatura. Che il mio intestino crasso non è pieno di tumori.»

    «Sì» rispose John. «È esattamente quello che penso.»

    «Scusa, ma allora non capisco… Perché se lo pensi hai comunque permesso che venissi qui?»

    «Perché sono un maledetto idiota che si è bevuto la storia dell’amico malato di cancro che voleva vederlo per un addio strappalacrime. Soltanto ieri sera mi sono accorto che qualcosa non andava. Ho riletto le tue email e ho trovato lievissime variazioni nel tuo modo di esprimerti, cambiamenti che, guarda caso, sono iniziati contemporaneamente ai tuoi problemi all’intestino.»

    «E queste sarebbero le prove che

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