Il dolore di essere italiani
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Anteprima del libro
Il dolore di essere italiani - Giulio Savelli
intima
Il dolore identitario
Essere italiani è doloroso. Questo dolore da alcuni decenni si è fatto più evidente, e la sua percezione è diventata ineludibile. Al tempo stesso, si direbbe che al male si sia fatta l’abitudine e che nulla di nuovo ci si possa aspettare né dall’azione delle forze che causano la pena né dalla nostra reazione ad esse.
Da tale bolla di tormentata assuefazione nasce l’esigenza di comprendere la struttura e le radici del dolore. Nessun intento politico anima queste pagine, non essendo queste orientate verso alcuna proposta; né un intento storiografico in senso proprio. Piuttosto, poiché ciascuno dopo molto tempo e molte cure inutili si sente legittimato a considerare se stesso un esperto dei propri mali, queste note rappresentano l’indagine di un italiano sopra la propria natura culturale – senza competenze dottrinali specifiche, ma con la stessa sicurezza d’orientamento che contraddistingue un parlante nel considerare grammaticale o agrammaticale una frase della propria lingua materna.
In cosa consiste dunque il dolore di essere italiani? Un accenno di risposta sembra baluginare nel titolo, quasi identico, di due libri molto diversi: uno di Sebastiano Vassalli, Gli italiani sono gli altri, l’altro, successivo, di Francesco Cossiga con Paolo Chessa, dal titolo Gli italiani sono sempre gli altri¹. I titoli ricalcano un’affermazione presente nelle Lezioni di sociologia di Horkheimer e Adorno: «raramente qualcuno accetta di considerarsi come uomo-massa: la massa sono sempre gli altri»². E rimandano, implicitamente, anche alla celebre sentenza di Sartre per cui «l’inferno sono gli altri»³. La cosa curiosa è però che nei due titoli – che suonano come una frase idiomatica, come un pensiero già pensato e contenuto nel sapere comune - difficilmente a «italiani» si potrebbe sostituire «francesi» o «americani» o «tedeschi». «Gli italiani sono gli altri» implica anzitutto che, per gli italiani, essere italiani non sia cosa di cui andare orgogliosi. L’aforisma individua dunque la nota tendenza autocritica nazionale. Implica, inoltre, che ciascun italiano nasconda a se stesso i propri difetti, vedendo però chiaramente e denunciando quelli dei connazionali: che sia dunque ego-centrato, e consideri se stesso disomogeneo rispetto alla comunità nazionale. «Gli italiani sono gli altri» contiene cioè la consapevolezza dell’iper-individualismo tipicamente italiano, tante volte condannato dagli italiani stessi. Ma la sua verità più profonda consiste nel suggerire che all’individualismo e alla compulsione autocritica corrisponde una scissione interna all’identità italiana. Questa frattura è tutta interiore, si manifesta in un giudizio e un atteggiamento verso la comunità nazionale e copre non tanto una contraddizione e un difetto morale – vedere il fuscello nell’occhio altrui e non il trave nel proprio – quanto un dolore individuale e privato: non voler essere ciò che si è. Dal paradosso proviene l’attrattiva e il divertimento della sentenza, che per il resto non ha molto di piacevole. Infatti sottintende, in conclusione, che essere italiani vuol dire non considerarsi tali: essere italiani significa dissociarsi dall’essere italiani. Per ogni italiano, infatti, i connazionali sono potenzialmente un inferno.
Un aspetto caratteristico dell’identità degli italiani consiste nell’avere le proprie fondamenta in una comunità ristretta, di misura variabile ma comunque più piccola di quella nazionale. Si è settentrionali o meridionali, romani o non-romani, ma anche sardi, veneti, abruzzesi, e soprattutto si è milanesi, napoletani, torinesi, palermitani, si è fiorentini oppure pisani, di quel certo quartiere della città, di quel paesetto, di quella particolare frazione, si è membri di una corporazione professionale, di un’azienda, di una comunità di amici e di una famiglia, si è infine individui chiusi nel proprio perimetro più ristretto, piccolo piccolo come il borghese di Cerami e Comencini. Non a caso interpretato da Alberto Sordi, maschera italiana per eccellenza.⁴ L’identità locale, professionale e familiare non è complementare a quella nazionale, ma tendenzialmente alternativa a questa. Tale sistema identitario ha le sue radici nei sei lunghi secoli in cui l’Italia è stata politicamente divisa in città e in Stati differenti, fra loro ostili. L’identità nazionale, per una parte cospicua degli italiani, si è aggiunta a questa pre-esistente rimanendo astratta e nominale, senza sostituirla e senza integrarla se non superficialmente.
Il conflitto fra l’identità individuale, familiare, locale e di gruppo da un lato e quella italiana dall’altro si manifesta quando lo Stato pretende una cittadinanza piena e consapevole – tipicamente con il pagamento delle imposte e con la scelta elettorale, ma, più in generale, con il rispetto delle leggi, con la lealtà verso le istituzioni e con la condivisione delle regole di convivenza stabilite. Spesso, quando si crea il conflitto, questo viene smussato da un aggiustamento all’italiana. Per esempio, quando esisteva la leva obbligatoria, era assai diffusa nelle famiglie, all’approssimarsi della chiamata, la ricerca di un alto ufficiale in qualche modo disponibile a far riservare al proprio figlio un trattamento di favore. Non rifiuto della leva, non obiezione di coscienza: piuttosto la ricerca di un compromesso fra rifiuto e accettazione. Questo conflitto fra le esigenze individuali e lo Stato implica, sotterranea, una vulnerabilità identitaria, una fragilità – e in definitiva una sofferenza.
Si tratta di un dolore muto. Se ne può avere un’idea pensando a quello degli emigranti, che lasciano ciò che è caro e conosciuto per confrontarsi con un ignoto che forse offrirà ciò che si desidera, ma che certamente, subito, pretende, e che ai primi passi rende insignificanti, senza nome, senza identità, senza valore. L’emigrante affronta un processo volontario di integrazione all’alterità assoluta in cui il primo atto è la perdita di status e di identità. Le valige che compaiono nelle foto dei gruppi appena sbarcati a Ellis Island mostrano una pena che allude a quella delle valige ammucchiate ad Auschwitz – la pena terribile della spersonalizzazione. Ora, per comprendere la qualità (non certo il peso e l’intensità) di un determinato dolore italiano occorre appunto pensare a questo della spersonalizzazione di fronte a un’entità estranea e potente.
Sentirsi cittadini richiede infatti una certa capacità di confrontarsi alla pari con l’astratto, di identificarsi in una responsabilità definita da una forma giuridica, di essere non se stessi nella propria completezza umana, ma se stessi in una funzione ben determinata. Implica soprattutto – come sottolinea Roberta De Monticelli – una «libera e responsabile assunzione dei propri doveri morali»⁵, una autonomia e maturità etica che la democrazia politica garantisce ma anche esige. Nell’essere cittadini non c’è dolcezza, non c’è affettività, non c’è intimità, non c’è nulla di spontaneo e immediato, e nulla che renda la fisionomia spirituale di un individuo unica e riconoscibile – come invece accade nell’appartenenza a una famiglia, a un borgo, a una comunità. Abitare un’identità esclusivamente e tenacemente pre-politica e sub-nazionale porta quindi con sé, in un contesto politico moderno, la minaccia della spersonalizzazione: dell’essere cioè alienati all’interno della condizione di cittadini – soldati in marcia, elettori in fila, alunni in grembiule, soprattutto, oggi, lavoratori espropriati del frutto della propria fatica a vantaggio di un’impersonale collettività – anziché essere individui.
La democrazia, la possibilità cioè di avere rappresentanza politica, dovrebbe, in teoria, mediare il conflitto. Ciò di fatto, in Italia, avviene solo quando il rapporto fra elettore ed eletto è personale, quando c’è conoscenza diretta, come può accadere nei comuni non troppo grandi. Già a livello regionale è del tutto impossibile un rapporto personale significativo fra elettori ed eletto. La democrazia rappresentativa richiede opinioni, orientamenti politici, cioè, di nuovo, un livello di astrazione estraneo alla concretezza dell’individuo e della famiglia, un oltrepassamento tutto intellettuale ed etico dell’orizzonte rappresentato dalle esigenze personali e dall’ambito della vita privata.
Molti italiani, per scansare una tale minaccia di conflitto fra la propria vita e le esigenze della collettività astratta, si sforzano di eludere gli obblighi della cittadinanza, pur sfruttandone i vantaggi immediati e minimi. Considerano i connazionali «gli altri» – fessi da fregare, opachi ostacoli ottusi da aggirare; talora esercitano una forma di furbizia lamentosa e inerte, fondata sulla retorica della recriminazione, che danneggia gravemente chi la pratica e colui che ne rimane invischiato, avvantaggiando solo chi è capace di sfruttarla per il proprio potere politico o criminale; in altri casi coltivano un proprio particolarismo efficace, ostinato, orgoglioso e deliberatamente miope. Poiché, però, i contatti e i rapporti con lo Stato sono ineludibili, così come quelli con il vasto mondo fuori dei confini nazionali, del tutto ignaro del valore ineffabile del piccolo perimetro personale caro a ciascuno – un mondo brutale che considera gli italiani come un unico insieme, come un popolo, che a loro piaccia o no, e l’Italia come uno Stato nazionale, che i suoi cittadini vi si riconoscano o meno – poiché, malgrado ogni sforzo, tali contatti e rapporti fatalmente si determinano, gli italiani soffrono per la loro dis-appartenenza identitaria. Ogni italiano tipico soffre per il fatto di essere, dal suo punto di vista arbitrariamente, anche un cittadino, e per di più un cittadino italiano, anziché essere semplicemente e felicemente se stesso.
Non esiste, però, solo questo dolore. C’è un altro modo di non considerarsi italiani. Un aspetto caratteristico dell’identità italiana si manifesta nella compulsione autocritica, che ha per oggetto d’elezione il carattere nazionale. La dis-appartenenza alla cittadinanza è solo una manifestazione di un insieme complesso e solidale di tratti e ne rappresenta la declinazione politica; inaffidabilità, cinismo e scarso senso morale, indifferenza per il bene collettivo, furbizia, familismo, corruzione, superficialità e irresponsabilità, vanità, spirito d’improvvisazione, elasticità illimitata nell’applicazione delle norme, vuoto formalismo, culto del proprio «particulare» (e si può continuare a lungo) sono altrettante teste di turco per gli italiani che non si adattano a tale fisionomia morale. Questi italiani possono