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Micronazionalismo. Libertà, identità, indipendenza
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E-book536 pagine8 ore

Micronazionalismo. Libertà, identità, indipendenza

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Info su questo ebook

Cosa sono le micronazioni? Piccoli gruppi di persone hanno dato vita a nuove nazioni, basate sull'aggregazione libera e spontanea di individui, in contrapposizione a larga parte degli stati odierni, sorta grazie all'uso della forza, attraverso sopraffazioni e raggiri che hanno portato all'imposizione forzata di un'identità e di un'autorità. La nascita e lo sviluppo di queste micronazioni hanno dato luogo al fenomeno del micronazionalismo, le cui origini sono da ricercare nel libertarismo, nelle idee di stati per associazione e stati per contratto ma anche nella semplice libertà di scelta insita nella natura umana.
Per la prima volta vengono descritte storia, cultura e caratteristiche delle centinaia micronazioni esistite o esistenti: micronazioni territoriali, che posseggono o rivendicano un territorio, rivendicazioni, che avanzano pretese in virtù di fatti legati al loro passato e micronazioni extra-territoriali. Esistono poi nazioni basate su territori artificiali, progetti di stati extraterrestri e persino su spazi virtuali.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2017
ISBN9788892687981
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    Anteprima del libro

    Micronazionalismo. Libertà, identità, indipendenza - Emanuele Pagliarin

    633/1941.

    PREMESSA

    L’abuso del termine «nazione», la creazione di stati artificiosi e la nascita di organizzazioni atte a legittimarli in ogni occasione hanno fatto sì che si perdesse di vista il vero significato di tale parola. Oggi vengono classificate come nazioni l’Italia, il Belgio, la Spagna. Ma chiunque abbia avuto l’occasione, l’opportunità e l’interesse di informarsi e riflettere, armandosi di onestà intellettuale e senza farsi accecare dall’istruzione statale impartitagli o da ciò che le istituzioni hanno voluto fargli credere, è a conoscenza dell’inesistenza di queste «nazioni». Più precisamente, non si tratta di nazioni bensì di stati, all’interno dei quali sono racchiuse diverse nazioni, spesso inglobate con l’uso della forza o in alcuni casi con l’inganno. Si definisce nazione un insieme di persone che condividono la stessa identità. Quest’identità è identificabile con etnia e interessi comuni. Etnia da non confondere con razza e neppure con origine: non è il DNA a sancire l’identità di una persona, in quanto l’etnia è da ricondurre invece a fattori culturali. Non è il DNA a decretare la lingua di un individuo, ma la comunità in cui cresce oppure, in seguito, lui stesso.

    Così i suoi tratti identitari possono dipendere in un primo momento dall’ambiente in cui cresce ed in un secondo momento dalle sue scelte. Essendo questo un libro sul micronazionalismo e non in generale sull’autodeterminazione, ci concentreremo in particolare sul secondo caso, anche se in alcune circostanze le due cose possono coincidere.

    Al contrario di quanto spesso avvenuto in passato, ci si prepone di affrontare questa tematica con la massima serietà, contemplando quindi esclusivamente le vere micronazioni, riconoscibili da elementi che verranno presentati nel testo. Non vi sarà quindi spazio per «nazioni» immaginarie o rivendicazioni prettamente burlesche. Quanto verrà presentato nei vari capitoli, in particolare gli esempi di micronazioni, sebbene possa in alcuni casi apparire bizzarro, è frutto di convinzioni ed intenzioni reali.

    MICRONAZIONALISMO

    «Micronazionalismo» è un termine sicuramente sconosciuto alla maggior parte delle persone. Vi è poi, in quelle poche che si siano imbattute nella parola, una larga fetta di individui a cui è oscuro il vero significato del vocabolo e, come avremo modo di vedere, ve ne sono alcuni che ne hanno abusato, stravolgendone il senso e creando un grave danno a tutto il movimento ed a questo interessante fenomeno.

    Il termine deriva naturalmente da «Micronazione». Che cos’è una micronazione? La risposta, molto semplicemente, è data dalla parola stessa: micro-nazione. Una nazione minuscola. Nazione che, come detto, è da intendersi come gruppo di persone con identità ed interessi comuni. Il termine «micro», in questo caso, può essere interpretato in diversi modi. Da una parte, più frequentemente ma probabilmente in maniera inesatta, indica il territorio della nazione, solitamente di ridotte dimensioni, talvolta tanto irrisorie da giustificare appieno l’accezione «micro». Dall’altra, forse più appropriata, indica il fatto che la nazione è costituita da un piccolo gruppo di persone.

    Si può quindi affermare che una micronazione è un piccolo gruppo di persone con identità ed interessi comuni.

    Cos’è dunque il micronazionalismo? È quel fenomeno che porta alla nascita e all’affermarsi di una micronazione.

    Una nazione è formata da individui che crescono in un determinato territorio, all’interno di una comunità condividendone identità, cultura, lingua, usi e costumi. In questo caso si fa riferimento quindi all’identità che nasce alle radici, che l’individuo acquisisce vivendo in un determinato ambiente. Ma una volta che, crescendo, questo individuo ne abbia ottenuto la capacità, può cambiare l’identità? Esulando da concetti razziali e asserendo che l’identità non è altro che un fattore culturale possiamo senza dubbio affermare che ciò è possibile. Un’operazione simile gli stati la effettuano da sempre, non basandosi però sulla libera scelta delle persone, ma con l’ausilio della forza o con, il più delle volte ignobili, stratagemmi. Quando tale operazione viene svolta dagli stati ha il preciso scopo di uniformare la popolazione, cancellando le identità, quindi le diverse nazioni o comunità che la compongono. Ciò che li spinge a farlo è il timore dell’autodeterminazione. Gran parte degli stati odierni si sfalderebbe se fosse realmente applicato il principio dell’autodeterminazione. La maggior parte poi, neppure sarebbe sorta. Naturalmente essi si guardano bene dal porsi contro l’autodeterminazione, il trucco è molto semplice: dichiararsi favorevoli all’autodeterminazione dei popoli ma, allo stesso tempo, negare l’esistenza di diversi popoli all’interno dello stato in questione. Il problema, per loro, è dunque risolto, di popoli con la possibilità di autodeterminarsi ne restano quindi pochi e situati nelle zone «calde» (ad esempio i palestinesi) o in stati che si sono indeboliti e dove le nazioni hanno coraggiosamente intrapreso la via della libertà, dichiarando l’indipendenza e lottando per la stessa (come accaduto nell’ex Jugoslavia). Alcuni popoli vengono poi riconosciuti come tali ma non vengono minimamente presi in considerazione. L’esempio lampante è rappresentato dagli indiani americani, la cui ambizione di riconoscimento della sovranità nelle loro riserve è stata ed è costantemente ignorata.

    La tattica degli stati, come detto, è quella di colpire alla radice. Prendiamo ad esempio l’Italia. Possono gli abitanti di questo stato definirsi nazione? Hanno un’identità comune? Le persone obiettive potranno certamente dire di no. Celebre è la frase «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani» che indica chiaramente come questo stato sia artificiale. Ma come sono stati «fatti» gli italiani? Ormai sfatate le leggende, sappiamo che la nascita dello stato italiano altro non è dovuta che a un’annessione militare della penisola da parte dei Savoia, verificatasi in buona parte con la forza e in altri casi con plebisciti truffa. Il problema della diversità etnica è stato risolto con metodi non molto migliori: il genocidio culturale dei popoli della penisola, senza dimenticare Sicilia e Sardegna, è stato attuato imponendo una lingua comune. Di pari passo le lingue locali vennero classificate come dialetti della lingua italiana e denigrati, così come le persone che intendevano usarle. Ma lo strumento più efficace usato dagli stati è la manipolazione dell’informazione ed in particolare della storia. Così nelle scuole italiane anziché le lingue locali venivano insegnate solo la lingua dello stato, l’eroica storia fatta da patrioti e imprese dove tutti sembravano inspiegabilmente voler creare lo stato italiano, come se fosse nelle ambizioni di un sudtirolese unirsi alla Sicilia o in quelle di un sardo unirsi al Veneto e viceversa. Questo vale per molti altri stati, ad esempio la Spagna. Un accanimento ancor più cruento fu quello degli Stati Uniti d’America o del Canada nei confronti delle nazioni native americane. Bambini strappati alle loro famiglie e rinchiusi in appositi istituti, dove venivano sistematicamente puniti se scoperti a parlare nella loro lingua e dove venivano loro insegnate tutte le cose necessarie per diventare un buon americano: lingua inglese e cristianesimo. In contrapposizione all’uso della forza, vi è la libera scelta o presa di coscienza. Da questa possono scaturire il risveglio di un’identità sopita o perduta oppure la nascita di una nuova identità. Il primo caso può riguardare, appunto, quei popoli sottomessi o raggirati che riscoprono la loro vera identità, le loro tradizioni e magari la loro vera storia. Questa è materia fertile per molti movimenti indipendentisti, per i quali un vero micronazionalista non può che simpatizzare e che talvolta sono alla base stessa della nascita di una micronazione. Ma è il secondo caso quello che si intende analizzare più da vicino in questo testo.

    Come affermato in precedenza, oltre che dall’identità, una nazione può essere rappresentata da persone con interessi comuni. L’interesse più ricorrente nelle tematiche che si intendono trattare è la libertà. Questo elemento tuttavia è anche assimilabile all’identità. Nonostante possa sembrare un’affermazione azzardata, ragionandovi si può giungere a questa conclusione. La libertà non è forse parte dell’identità di alcuni popoli? Ad esempio gli indiani americani non si adattarono mai alle limitazioni dei bianchi. La religione stessa viene considerata parte dell’identità, possiamo quindi sostenere che anche gli interessi comuni o le tendenze socio-politiche possono essere considerate parte dell’identità di una nazione. Così come nell’identità degli indiani americani è racchiuso l’amore per la libertà ed il rispetto per la natura.

    L’interesse che ha dato vita ad un numero considerevole di micronazioni è dunque proprio la libertà. Gruppi di individui, stanchi delle limitazioni e delle imposizioni poste loro dagli stati, hanno preso coraggio e si sono ribellati, diventando i padri di una nazione più libertaria, in questo caso, o più vicina ai loro interessi, ad un sistema che rispecchiasse meglio il modo in cui desiderano vivere.

    Si possono quindi delineare due tratti importanti del micronazionalismo: identitario e libertario. La seconda caratteristica non va però confusa con l’imposizione ad ogni comunità di un sistema libertario, bensì con la possibilità di ogni comunità di dotarsi liberamente di un sistema in cui i membri di quella comunità desiderano vivere e allo stesso tempo con la possibilità di ogni individuo di scegliere liberamente se adattarsi a quel sistema o se aderire ad un’altra entità in cui maggiormente si riconosce.

    È bene notare come però il termine «micronazione» venga spesso utilizzato solamente per indicare quelle nazioni, con le caratteristiche già indicate, prive del riconoscimento ufficiale e quando quest’ultimo si concretizza ci si riferisce alle entità in questione semplicemente come nazione. Ciò genera alcuni errori di valutazione, portando a catalogare come micronazioni entità che rivendicano o che sono collocate su territori vastissimi che contano migliaia o milioni di abitanti senza nulla in comune e senza la volontà di appartenere a quell’entità.

    MICRONAZIONI

    Nonostante la definizione data, esistono diverse tipologie di micronazioni:

    - micronazioni virtuali o extra-territoriali;

    - micronazioni territoriali;

    - rivendicazioni.

    La prima categoria è sorprendentemente quella che più ha favorito la diffusione e la crescita del micronazionalismo. Ma è anche la stessa che ha indirettamente contribuito a danneggiarlo. Le micronazioni virtuali altro non sono che nazioni prive di un territorio fisico. Prima dell’avvento di internet erano anche definite «stati di carta», in quanto l’esistenza stessa di quelle entità era testimoniata quasi totalmente dall’interazione tra chi ne diveniva membro, spesso fatta unicamente attraverso la corrispondenza postale. Internet ha rivoluzionato il micronazionalismo. Gli «stati di carta» e i loro successori hanno sostituito l’uso della corrispondenza con siti internet, chat e forum. Come vedremo successivamente ciò ha risvegliato il movimento che sembrava destinato all’oblio, ma ha anche generato una moda. Le micronazioni virtuali proliferarono. O almeno questo è ciò che si pensò ad una prima analisi. In realtà, se è vero che si ebbe un aumento del numero delle micronazioni, l’amara verità è che molte entità che si definivano (e che si definiscono tutt’oggi) tali non avevano nulla a che vedere con il micronazionalismo. Molti utenti di internet, in maggioranza teenager, infatti, scambiarono il micronazionalismo per un hobby, uno scherzo, un gioco, una simulazione. Così aprivano un sito od un forum, gli davano un nome sulla falsariga degli stati reali e si proclamavano re o presidenti. Dopo di che, coi loro compagni di gioco, altro non facevano che emulare, fantasticando, gli stati reali: nei loro siti si potevano trovare le cartine della loro nazione immaginaria, le foto dei loro inesistenti edifici governativi, i dati delle flotte del loro inesistente esercito. Con l’aumento di queste false micronazioni, molti di coloro che si interessavano al micronazionalismo finivano con il confondersi le idee e questo interessante e rivoluzionario fenomeno veniva scambiato per una semplice evoluzione dei giochi di ruolo. Le poche vere micronazioni virtuali iniziarono quindi a fare precisazioni sui loro siti internet, prendendo le distanze dagli impostori. Probabilmente a creare ancor più confusione sono stati il termine «virtuale» e la sua errata interpretazione. Nel contesto micronazionalista questo aggettivo va inteso come sinonimo di extra-territorialità.

    Ma cosa distingue esattamente una micronazione virtuale da una simulazione politica online? Tolte le apparenze, si può notare come la differenza sia totale. Le micronazioni virtuali non sono finzione, non sono hobby, non sono gioco. Nessuno finge di essere un re, un presidente, un cittadino: si è presidenti, re e cittadini, riconosciuti tali dal resto della comunità di quella micronazione. Mentre la simulazione è un semplice passatempo, la micronazione è un serio tentativo di costruire qualcosa di reale. È il tentativo di una comunità di dotarsi di proprie leggi e di una cultura propria. E le finalità ultime ed estreme di tale progetto sono il riconoscimento ufficiale e l’ottenimento di una sovranità.

    Una micronazione virtuale non è quindi un gioco o una nazione immaginaria, bensì una vera e propria nazione priva di un territorio fisico. Le micronazioni virtuali hanno diversi orientamenti: quelle più ambiziose rivendicano la sovranità su un territorio o aspirano ad ottenerla, poi vi sono quelle che credono in una sovranità virtuale ovvero vorrebbero fosse riconosciuta la loro giurisdizione su un server, esistono anche micronazioni virtuali che ricercano uno status ufficiale extra-territoriale come quello del Sovrano Ordine Militare di Malta ed infine quelle che ambiscono almeno al riconoscimento ufficiale della loro esistenza, in pratica della loro identità.

    Più famose sono le micronazioni territoriali, cioè quelle micronazioni che già possiedono un territorio e che già lo occupano, ma la cui sovranità non è riconosciuta e che generalmente sono sotto la giurisdizione di un altro stato. Molte di queste rientrano nella categoria delle rivendicazioni e si appellano ad anomalie storiche o legali. Possiamo catalogare come micronazioni territoriali quelle micronazioni che già posseggono un territorio, o più precisamente che vi sono già situate o sul quale stazionano loro cittadini o, ancora, sul quale portano avanti le loro istanze. Insomma, questa categoria, è quella più simile ai movimenti indipendentisti e secessionisti.

    È possibile fare una distinzione tra questa tipologia e quella delle rivendicazioni. In questo secondo insieme possiamo inserire quelle entità che rivendicano ad esempio un territorio, senza però avere una presenza fisica di nessun genere sullo stesso, senza avere cittadini, facenti parte della micronazione, che vivano su quel territorio. Ad esempio, in tal senso, potremmo fare riferimento a quelle micronazioni che rivendicano territori liberi, come porzioni di Antartide o di corpi celesti extraterrestri. Allo stesso tempo la medesima categoria include le micronazioni che rivendicano territori che sono sotto la giurisdizione di altri stati.

    MICRONAZIONALISMO MODERNO

    Storicamente i tentativi di autodeterminazione e la conseguente nascita di piccole comunità, tribù, città-stato, comuni et similia sono stati molteplici. Tuttavia lo sviluppo più rilevante e significativo del fenomeno del micronazionalismo è probabilmente collocabile nell’ottocento.

    Il termine «micronazione» fu però coniato solo nella seconda metà del novecento. In questo senso il padre del micronazionalismo non fu nient’altro che un ragazzino di 13 anni di Milwaukee (USA) e l’occasione che diede vita a tutto ciò fu una noiosa giornata dopo Natale. Robert B. Madison fu l’artefice della propria autodeterminazione. Il 26 dicembre 1979 dichiarò la sua cameretta una nazione sovrana e indipendente: il Regno di Talossa. E si autoproclamò Re Robert I.

    Curiosamente, appresa la notizia, molte persone di ogni parte del mondo decisero di aderire alla neonata nazione, diventandone cittadini.

    Ben presto l’esempio di Madison fu seguito da altre persone e sorsero nuove micronazioni. L’interazione tra i cittadini di queste entità avveniva praticamente e principalmente attraverso la corrispondenza postale. Il fenomeno raggiunse il picco negli anni ottanta quando quella generazione di micronazioni fondò la LOSS, la Lega degli Stati Secessionisti. Il nome di questo soggetto, nato il 26 novembre 1980, faceva ben intendere le chiare intenzioni degli stati aderenti. Esso si poneva come una sorta di micro-ONU prefiggendosi l’obbiettivo di portare avanti le istanze delle nazioni membre. Improvvisamente, però, il movimento subì un arresto inaspettato. Una fase di stallo, durata più di dieci anni. Le cause di ciò probabilmente furono le difficoltà di interazione e di organizzazione: gli Stati «ufficiali» hanno a loro disposizione i mezzi ed il personale per portare avanti la loro diplomazia ed i loro affari, mentre questo non era certamente plausibile per nazioni nate da poco, con una bassa popolazione e senza fondi (fondi che gli stati hanno grazie all’imposizione di tasse ai cittadini, peculiarità difficile da riscontrare per quanto riguarda le micronazioni).

    Ma nel 1996 entrò in scena Internet: fu la svolta. A fare da pioniere fu di nuovo il Regno di Talossa, aprendo il suo sito internet. Ben presto anche le altre micronazioni compresero che si trattava della più grande opportunità che potesse capitare loro e seguirono l’esempio di Talossa. A quel punto le micronazioni non erano più isolate e conosciute solo da pochi interessati o curiosi, ma erano alla portata di tutti coloro che avevano la possibilità di accedere alla rete. Ciò non portò solo estremi benefici ai membri della LOSS (anche quest’ultima approdò in rete) ma spinse molte persone a fondare nuove micronazioni, si verificò, in pratica, un rinascimento micronazionalista.

    Come accennato nei precedenti capitoli, vi furono anche risvolti negativi. Se è vero che si moltiplicò il numero delle micronazioni virtuali, nacquero anche le prime false micronazioni che nel secolo successivo divennero addirittura più numerose di quelle vere. Tuttavia in un primo momento ciò non danneggiò il micronazionalismo. Il periodo di splendore tra la fine degli anni novanta e l’inizio del ventunesimo secolo diede anche popolarità ad alcune micronazioni, che riuscirono persino a ritagliarsi uno spazio su alcuni media, in particolare con qualche articolo di qualche illustre giornale.

    Probabilmente questo fiorente andazzo sarebbe potuto sfociare in qualcosa di molto più concreto, se organizzazioni come la LOSS o la LOM (Lega delle Micronazioni, un’organizzazione simile alla LOSS) fossero state amministrate degnamente. La spiacevole realtà ci dice invece che entrambe le organizzazioni riuscirono solo ad arrendersi a destini imbarazzanti. Questo vale in particolare per la LOSS. L’organizzazione che poteva e doveva essere il punto di forza del micronazionalismo, che avrebbe dovuto portare avanti in maniera seria e decisa le istanze dei suoi membri perse presto il mordente. Uno dei problemi più grandi della LOSS fu la democrazia. Anziché basare l’adesione dei membri su criteri selettivi, si optò per il voto dei membri stessi per stabilire se accettare o meno un’altra micronazione al suo interno. Questo causò l’infiltrazione di false micronazioni, che rovinarono gli intenti iniziali della LOSS. Tanto che, anziché portare avanti le istanze secessioniste e indipendentiste, si chiuse a riccio in una sorta di altra dimensione, preoccupandosi solo dei rapporti tra gli stati membri. Non solo, il sito ufficiale della LOSS non venne più aggiornato dal 2000. Questo semplicemente perché il segretario di allora (anziché scegliere persone competenti si optò per i turni, dando l’amministrazione del sito e dell’organizzazione ai rappresentanti delle varie micronazioni) perse la password. Come se non bastasse non fu questo l’elemento più triste e ridicolo della faccenda. Nessuno pensò bene né di recuperare la password, né di aprire un altro sito! Questo fino al 2009, quando venne aperto un nuovo sito per quello che ormai era un database di nazioni immaginarie. Negli anni precedenti la LOSS ha comunque continuato ad essere parzialmente attiva, attraverso una mailing list dove ormai non vi era più nessun segnale dell’originale spirito del micronazionalismo. Questo declino lo si può riscontrare semplicemente ricordando che uno dei proclami iniziali della lega era che la pace mondiale sarebbe stata possibile solo con una secessione globale, ovvero in un mondo con dieci miliardi di nazioni, mentre oggi si premunisce solamente di rendere possibile contatti incondizionati tra micronazioni.

    Pare che anche la LOM abbia subito lo stesso destino. Una magra figura per chi doveva essere il cavallo di battaglia di questo movimento. A LOSS e LOM si sono succedute diverse organizzazioni di micronazioni, che data la portata non vale neppure la pena citare.

    Parallelamente a quella delle micronazioni virtuali, è proseguita l'esperienza di quelle territoriali.

    SOVRANITÀ

    Il fine ultimo di ogni seria micronazione è l’ottenimento, o il riconoscimento, della propria sovranità.

    Negli anni si sono però sviluppate varie teorie su diversi tipi di sovranità. Quella più comune è senza dubbio la sovranità territoriale, ovvero il territorio sottoposto alla giurisdizione di una determinata entità che generalmente è uno stato. Si tratta dunque di quel territorio dove lo stato può far valere le proprie leggi. Senza il riconoscimento della propria sovranità una nazione non sarà mai realmente libera. Difatti solo la possibilità di far valere le proprie leggi sul proprio territorio ne garantisce l’indipendenza.

    Talvolta alcuni presunti micronazionalisti si spaventano solo a sentirne parlare. Molti fanno, pur non essendolo, i micronazionalisti finché l’ambito è quello virtuale, andando poi nel panico quando emergono gli aspetti concreti del micronazionalismo. Proprio tale circostanza permette di fare una netta distinzione tra chi crede seriamente in questo movimento e chi l’ha scambiato per un semplice hobby.

    Senza sovranità non esiste autodeterminazione e senza di essa non è possibile far valere appieno le proprie regole e tutelare la propria identità, perché si è sempre sottoposti alle leggi di un altro stato.

    Attualmente il diritto internazionale riconosce quasi esclusivamente la sovranità territoriale, con alcune eccezioni relative all’extra-territorialità. Le micronazioni più famose rivendicano, coerentemente, la sovranità su un territorio fisico. Rivendicazioni di questo genere possono essere molto variegate sotto diversi aspetti. Le prime della lista sono quelle micronazioni che semplicemente rivendicano il territorio su cui sono situate. Questo genere di micronazioni è sicuramente quello che più si avvicina sotto ogni aspetto alle nazioni «ufficiali», ovvero quelle nazioni con stato riconosciute in ambito internazionale, ma anche e soprattutto a quelle nazioni senza stato come il Kurdistan e via dicendo. Ancora più simile a quest’ultimo caso sono i così detti governi in esilio. Generalmente questi non vengono, giustamente, considerati micronazioni in quanto spesso rappresentano popolazioni molto ampie e territori molto vasti. Qualcuno potrebbe mai affibbiare il termine micronazione al Governo in esilio del Tibet? Nel caso in cui un governo in esilio rappresenti o rivendichi l’esistenza di un’entità con le peculiarità già descritte nei capitoli precedenti, allora esso può rientrare nell’ambito micronazionalista.

    Come detto, le più conosciute micronazioni che rivendicano una sovranità territoriale sono quelle che ambiscono al riconoscimento della sovranità sul territorio in cui esse sono situate. Ad esempio, l’antico Principato di Seborga rivendica la sovranità sulla città di Seborga, dove i seborghini stessi risiedono, contesa con la Repubblica Italiana. Il Gay & Lesbian Kingdom of the Coral Sea Islands, rivendicava la sovranità su alcuni isolotti dove esso era stato stabilito. Il Principato di Hutt River è sorto sulla proprietà di un contadino, in territorio australiano e su di essa ha sancito la propria sovranità. Queste entità tuttavia hanno un territorio, seppur piccolo, di dimensioni discrete... paragonabili a quelli dei territori di stati come San Marino, Principato di Monaco e Città del Vaticano.

    Esempi diversi sono costituiti dalla Repubblica di Molossia o dal Principato di Vikesland. Queste micronazioni non rivendicano un’isola, una città o ampi terreni agricoli. Ma semplicemente la proprietà del loro fondatore, che spesso è rappresentata esclusivamente dalla casa o dal cortile dello stesso. Ancora più estremi sono casi in cui ad essere rivendicata è la sovranità su una stanza come nel caso del Regno di Lovely o addirittura l’interno di un’opera d’arte, come il curiosissimo caso di Kugelmugel. Questo diminuisce di fatto le loro chance di riconoscimento. Considerando ad esempio Seborga è possibile constatare che:

    - ha un territorio corrispondente ad un intero paese;

    - ha un’antica storia alle spalle;

    - è un’anomalia storica, che si rifà a documenti che dimostrano come non sia mai stata annessa né al Regno d’Italia né alla Repubblica Italiana;

    - ha la stragrande maggioranza dei cittadini autodeterminatisi votando con un plebiscito la costituzione del principato.

    Agli occhi degli osservatori internazionali tutto ciò è ben diverso da una manciata di persone capeggiate da un autoproclamato presidente o re che dichiara indipendente la propria casa.

    Tuttavia il diritto internazionale fa riferimento alla Convenzione di Montevideo, in cui uno stato viene considerato tale se possiede le seguenti caratteristiche:

    1) una popolazione permanente;

    2) un territorio definito;

    3) un governo;

    4) la capacità di intrattenere rapporti con altri stati.

    Nello stesso documento si afferma inoltre che l’esistenza di uno stato è indipendente dal riconoscimento di altri stati.

    Quasi tutte le micronazioni territoriali, quindi, potrebbero rientrare nella definizione della Convenzione di Montevideo e, di conseguenza, nessuno potrebbe mettere in dubbio l’esistenza dei loro stati.

    Infatti, chi più chi meno, quelle micronazioni hanno una popolazione permanente. Sia essa costituita dalle centinaia di abitanti di Seborga, sia essa identificata in una sola famiglia. Hanno un territorio definito, che poi si tratti di un territorio vasto quanto una piccola città, un isolotto oppure una minuscola proprietà, sempre di territorio si tratta. Quasi tutte hanno un governo: raramente una micronazione è senza una guida. Il Principato di Seborga ha un suo governo guidato da un principe; il Principato di Hutt River ha anch’esso il suo principe; il Gay & Lesbian Kingdom of the Coral Sea Islands aveva posto a capo della monarchia costituzionale l’imperatore Dale Anderson, anche se in seguito sono sorti dei problemi ed il regno è mutato in tribù; Molossia e le altre micronazioni secondarie hanno il loro re o presidente. Hanno poi questi stati la capacità di intrattenere rapporti con altri stati? Seborga è famosa in tutto il mondo e pare abbia anche consolati sparsi qua e là. Il Principato di Hutt River è in pratica e legalmente indipendente proprio grazie alla capacità di relazionarsi con l’Australia e con le leggi del Commonwealth.

    Il vero problema, in realtà, risiede nel punto 2. Il territorio che spesso rivendicano le micronazioni è sotto la giurisdizione ufficiale di altri stati. Naturalmente questi altri stati non hanno alcun interesse a concedere la libertà a delle micronazioni, o meglio, a perdere il controllo di alcuni territori.

    Da qui l’esigenza degli aspiranti stati di puntare alla sovranità su territori liberi. Anche in questo caso le vie sono molteplici e possono essere così schematizzate:

    - territori non appartenenti a stati già esistenti e ufficiali;

    - territori artificiali;

    - territori extraterrestri;

    - spazio virtuale.

    Purtroppo gli stati ufficiali e l’ONU (a cui sarà dedicato un capitolo a parte) hanno pensato bene di impedirlo. Come? Facendo dei trattati, firmati da loro stessi. Hanno di fatto negato il diritto alla nascita di altri stati.

    Il Trattato Antartico del 1959 vieta infatti la nascita di stati in Antartide, anche sui ghiacci. La Convenzione del Diritto del Mare del 1982 nega la possibilità di avere sovranità in acque internazionali, quindi nega la possibilità di creare un nuovo stato su piattaforme artificiali situate in mare. Il Trattato Internazionale sullo Spazio del 1967 impedisce la nascita di nuovi stati su altri corpi celesti. Infine la stessa Convenzione di Montevideo, parlando di territorio, nega che uno stato possa essere extra-territoriale, categoria quest’ultima in cui vanno inclusi eventuali stati su spazi virtuali.

    È facile intuire come gli stati ufficiali e l’ONU abbiano di fatto chiuso le porte a nuovi aspiranti stati ed abbiano sancito la loro padronanza sulla terra, sul mare, sullo spazio e sul ghiaccio.

    Basandoci sul diritto internazionale, quindi, non restano molti spiragli alle micronazioni. Nonostante esse non abbiano mai firmato alcun trattato, l’ordine mondiale impone loro le sue decisioni. Si possono quindi individuare tre vie affinché le micronazioni, ma anche altre entità indipendentiste, possano raggiungere i loro scopi. La prima via può essere rappresentata dal tentativo di riformare il diritto internazionale. Le speranze di riuscita sono sicuramente misere, in quanto anche ipotizzando che si riesca a portare certe proposte ai più alti livelli, queste verranno sempre annientate dai veti degli stati ufficiali, in particolare di quelli che abitudinariamente cercano di mantenere il controllo anche oltre i loro confini, influenzando anche altri governi e stati. La seconda via consta nell’uso della forza: certamente però metodi come il terrorismo non sono né eticamente accettabili né utili. Oltre a colpire anche innocenti, e con tale termine si intende indicare esclusivamente chi non si oppone alla libertà delle genti, causa un alone negativo intorno a entità e movimenti e costringe alla clandestinità. Ben diverso è il caso in cui una nazione difenda con la forza il territorio che rivendica. In questo caso non si può che provare ammirazione. Il Principato di Sealand che, come riconosciuto in seguito da un tribunale britannico, legittimamente respinge a cannonate un tentativo di invasione della marina inglese non può che riscaldare i cuori degli indipendentisti e dei libertari. Inoltre buona parte degli stati che oggi hanno maggiore rilevanza sono nati proprio con l’uso della forza: gli Stati Uniti hanno combattuto contro gli inglesi; la Repubblica Popolare Cinese è sorta dopo aver messo in fuga i nazionalisti; il Regno d’Italia (oggi Repubblica Italiana) è nato con una guerra di conquista verso altri stati della penisola. Certamente, a primo impatto, l’idea che una micronazione possa fronteggiare uno stato sembra una follia e ci si aspetterebbe come ovvia conclusione il totale annientamento della prima. Ma la storia ci insegna che non bisogna affatto dare le cose per scontate e che spesso l’eroica resistenza contro invasori o occupanti può non solo dare gloria ai combattenti, ma anche portare risultati positivi... finanche la vittoria!

    Abbiamo già citato la sconfitta del Regno Unito contro il Principato di Sealand, sì, perché a seguito delle cannonate la marina inglese si ritirò. Ma possiamo citare altri esempi, più drammatici. L’eroica resistenza degli indiani americani ad esempio. A Little Big Horn la coalizione di Lakota, Cheyenne e Araphao inflisse la più grande sconfitta militare della storia a niente poco di meno che all’esercito degli Stati Uniti d’America. Lo stesso che circa 30 anni dopo, con la sola entrata nel conflitto, avrebbe portato alla fine della Prima Guerra Mondiale. Anche altre nazioni indiane americane hanno tenuto, per anni, a bada chi voleva sottometterli. Tra i casi più interessanti e famosi si possono citare gli Apache di Geronimo e i Nez Percé di Capo Giuseppe. Purtroppo non vi è stato un lieto fine per questi patrioti, ma ci sono esempi (sempre nello stesso contesto) che oltre all’onore hanno apportato risultati più concreti. Pochi sanno che l’ultima guerra indiana terminò ufficialmente nel 1935, anno in cui i Seminole si videro di fatto riconosciuta la loro vittoria. Nonostante numerose battaglie, stermini e deportazioni, un intrepido gruppo di Seminole (con alcuni ex schiavi neri) si è barricato per decenni in alcune paludi californiane, riuscendo a non farsi mai sopraffare dagli assalti statunitensi. Tanto che in epoca più moderna, nel 1935 appunto, questa guerra finì e quella terra restò in mano a questi valorosi resistenti che evitarono così di farsi deportare come successo purtroppo a molti altri loro fratelli. Altro esempio di forze impari ed allo stesso tempo di grande atto di coraggio e in un certo senso di trionfo, può essere rappresentato dalla rivolta del ghetto di Varsavia. Gli ebrei sfiniti dalla fame e dall’oppressione, anziché andare incontro al destino loro riservato dai nazisti, combatterono mettendo incredibilmente in difficoltà l’esercito tedesco. Lo stesso che aveva annesso e conquistato in un tempo irrisorio, mezza Europa. Alla fine riuscirono anche ad organizzare una fuga dal ghetto. Ancora più sorprendenti sono le rivolte e le fughe dai lager tedeschi (ad esempio da Sobibor), se pensiamo in quali condizioni potevano essere i prigionieri.

    Questi sono sicuramente casi estremi e, nel secondo esempio, apparentemente poco affini alla tematica micronazionalista. Ma l’intento è quello di far capire che il risultato di uno scontro non è così scontato come si può esser portati a credere. A volte Davide riesce ancora a sconfiggere Golia.

    Nonostante questo secondo metodo sia affascinante e racchiuda in sé elementi importanti e possibilità di ottenere risultati concreti, spesso risulta essere, giustamente, solo la carta della disperazione. Anche se non è intenzione dell’autore criticare chi sceglie di lottare con le proprie forze, purché non si scelga di colpire gli innocenti, prima di giungere a tale scelta è possibile e più accessibile percorrere la via del terzo metodo.

    Come affermato in precedenza le speranze di riformare l’ordine mondiale e le sue leggi imposte sono, ad essere ottimisti, misere in particolare se a farsene portavoce sono una manciata di persone rappresentanti di micronazioni che a livello internazionale non hanno la benché minima considerazione. Il diritto internazionale, l’ONU e vari documenti e trattati hanno però una sorta di falla nel sistema che talvolta può trasformarsi in appiglio per la libertà ed il riconoscimento di una nuova nazione.

    Questi è la Dichiarazione dell’Autodeterminazione dei Popoli, che è alla base del terzo metodo, l’unico che consente di percorrere il cammino micronazionalista, o in generale indipendentista, pacificamente. Almeno a livello teorico. Purtroppo, nella realtà dei fatti, questa è una strada sì percorribile ma molto tortuosa. Innanzitutto è necessario rientrare nella definizione di popolo o di nazione. Quindi deve esistere un’identità. Le micronazioni quindi devono sviluppare una loro cultura caratteristica, che possa distinguerle da altre nazionalità, quindi una loro etnia. Ad esempio una lingua, una cultura ed usi comuni agli appartenenti a quell’entità.

    Acquisita un’identità propria, una micronazione può essere riconosciuta come nazione o popolo. Questa affermazione può suscitare critiche, tra cui quella riferita all’idea secondo la quale un popolo si forma in centinaia d’anni oppure quella che sostiene che un’identità non possa nascere «artificialmente» o in ambiti lontani da quelli legati al territorio.

    Ma l’identità non è per forza legata a ideali quali «sangue e terra». Anzi. L’identità è strettamente legata al sentimento di appartenenza. Appartenenza ad una nazione, ad una comunità. Sentirsi parte di un popolo.

    Non è nascere a Bilbao che fa di un uomo un basco. Non è avere il sangue di più generazioni di baschi a fare di un uomo un basco. Se poi quell’uomo si riconosce nelle istituzioni spagnole, parla esclusivamente la lingua franca e lascia nel dimenticatoio il suo vero idioma e la sua cultura e non gli importa nulla dell’autodeterminazione della sua nazione allora quell’uomo non è basco, è spagnolo.

    Se una persona, nata anche nell’altro capo del mondo, impara la lingua basca, si riconosce negli usi e nelle tradizioni basche e sente di appartenere a questo popolo, è un basco? Sicuramente più del personaggio descritto nell’esempio precedente.

    Nell’esempio di alcune micronazioni, in particolar modo quelle extra-territoriali e quelle territoriali di recente formazione, si ha il caso in cui persone con identità ed interessi comuni decidono di aggregarsi costituendo una comunità; nel tempo gli elementi comunitari si affinano dando luogo ad un’identità sempre più unica e caratteristica cosicché semplici individui associati divengono un popolo. Cosa distingue dunque questo popolo da uno più conosciuto? Perché un popolo con una storia millenaria dovrebbe avere maggiori diritti e considerazione rispetto ad uno di recente nascita? I popoli non sono stati creati da un dio, né sono nati già formati. Si sono costituiti col tempo, con l’aggregazione di individui. Solo la storia, gli eventi, le loro scelte e volontà hanno dato loro un’identità. Ma queste considerazioni vengono ignorate e gran parte delle persone deride i piccoli e giovani popoli, così tutte le istituzioni tendono a discriminarli.

    Le micronazioni quindi dovrebbero lavorare prima di tutto su questo aspetto, promuovendo aspetti culturali ed identitari, rimarcando senza timore alcuno il fatto che sono vere e proprie nazioni, costituite da veri e propri popoli dotati di un’identità e di una cultura propria. Solo affermati questi concetti e l’attaccamento alla nazione da parte dei suoi aderenti, sarà possibile, per una micronazione, percorrere la strada del riconoscimento della propria identità e quindi ambire al richiamo al Principio di Autodeterminazione dei Popoli, la strada più pacifica che possa condurre alla sovranità territoriale.

    Mentre per quelle entità sorte su un preciso territorio il cammino da percorrere è già tracciato e lo stesso di può dire delle nazioni che rivendicano un preciso territorio, resta il problema di quelle micronazioni che ambiscono alla territorialità ma che sono prive di un luogo fisico o che ufficialmente non ne rivendicano uno.

    In questo caso alcune di esse, come Nova Roma, si affidano alla benevolenza di quegli stati che vorranno concedere loro un territorio in cui stabilire la loro nazione. Difficilmente però questo può verificarsi, a meno che i donatori non abbiano interesse nel farlo. Ma questa non è assolutamente una possibilità irrealistica, poiché una piccola nazione alleata ad un grande stato può portare diversi vantaggi anche a quest’ultimo. Tale utilità si potrebbe palesare, ad esempio, in seno ad organizzazioni come l’ONU. Al giorno d’oggi potenze economiche come la Cina comprano letteralmente stati del terzo mondo che possano poi sostenere le loro posizioni. La Repubblica Popolare Cinese ha riversato numerosi capitali in Africa con questo preciso scopo. Ricordiamo che, solitamente (anche se, come vedremo poi, non è esattamente il caso dell’incoerente ONU), il voto di un piccolo stato è equivalente a quello di qualsiasi altro. Altri interessi possono derivare dal fatto che una piccola nazione posizionata in zone strategiche può fruttare vantaggi relativi alla geopolitica e ancora, avere un piccolo stato con leggi particolari può offrire escamotage che consentano ad altri stati di aggirare le loro stesse leggi o magari regolamenti di organizzazioni a cui hanno aderito ma che hanno legittimità esclusivamente sul loro territorio e non su quello dei micro-alleati.

    Quest’ultimo elemento può avvicinare alla causa anche personalità con alle spalle interessi economici, perché il microstato può divenire, ad esempio, un paradiso fiscale o comunque un’enclave dove sarebbe liberamente consentito commerciare o creare prodotti vietati altrove. Se questi ragionamenti possono apparire spregiudicati, folli o utopici, ancora una volta è possibile comprendere il loro realismo basandoci sulla storia. Quando mezza Europa stava soccombendo alla Germania nazista, una piccola (anche se non certo micro) nazione come la Svizzera rimaneva libera ed indipendente, perché in essa veniva vista una certa utilità. Che poi in questo caso rientrino utilità non certo apprezzabili come la questione dell’oro degli ebrei deportati è un’altra tematica e non si intende certo condividere né promuovere complicità inaccettabili di questo genere. L’invasione del Belgio dimostra come la neutralità c’entri ben poco con il caso svizzero della Seconda Guerra Mondiale. Una certa parziale libertà l’ebbe anche il Principato di Monaco: mentre altri stati furono disfatti, spartiti e annessi, il piccolo principato continuò a sopravvivere. Ancora oggi il principato mantiene la sua indipendenza e nessuno osa metterla in dubbio.

    L’alternativa alla speranza di concessioni territoriali, è l’acquisto di un territorio. O, in alcuni casi, la sua stessa creazione.

    Il primo esempio presenta casi ufficiali e riconosciuti, come il Liechtenstein. Questo piccolo stato ha infatti origine tra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo quando il principe Johann Adam del Liechtenstein acquistò il Dominio di Schellenberg e la Contea di Vaduz. Pochi anni dopo questo territorio acquisì lo status di Principato e nel 1806 divenne ufficialmente uno stato sovrano. Nonostante per diversi decenni la piccola nazione abbia avuto imponenti difficoltà finanziarie, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha saputo rialzare la china, introducendo innovazioni come il segreto sui conti bancari ed il basso livello di tassazione. Addirittura, nel 1926, il Principato del Liechtenstein concesse a sua volta un territorio con annessa sovranità ad un’azienda, la Globocapital Company Inc. In tempi più recenti, nel 2009, l’allora presidente delle Maldive, Mohamed Nasheed, ha istituito un fondo per acquistare un nuovo territorio dove trasferire il suo stato. Il progressivo innalzamento del livello del mare, che già aveva costretto i maldiviani ad abbandonare venti delle duecento isole abitate, secondo le previsioni dovrebbe, tra il 2030 e il 2050, sommergere tutti gli atolli facenti parte della repubblica. Da qui la necessità di trovare una nuova terra dove trasferire l’intera nazione, acquistando dunque un territorio da altri stati e stabilirvi la Repubblica delle Maldive.

    La possibilità, invece, di creare un proprio territorio è, come abbiamo visto, ostacolata da alcuni trattati internazionali. Tuttavia non si può che convenire sul fatto che non sia corretto, e non dovrebbe neppure essere possibile, che qualcuno possa subire gli effetti di un trattato a cui non ha liberamente aderito e che gli effetti debbano subirli esclusivamente quegli stati che l’hanno accettato e sottoscritto. In genere il ricorso alla costruzione di un nuovo territorio è un’eventualità che si concretizza con la creazione di piattaforme artificiali in acque internazionali. Questo si è verificato in numerosi casi, ma due sono quelli con maggiore notorietà: il Principato di Minerva e la Repubblica dell’Isola delle Rose (il Principato di Sealand non rientra in questo raggruppamento, in quanto stabilito su una piattaforma pre-esistente). Anche attualmente alcune micronazioni espongono simili progetti, chiedendo soldi ai loro aderenti o a simpatizzanti per poter costruire piattaforme artificiali su cui instaurare il proprio stato. Talvolta, purtroppo, dietro a micronazioni di questo genere si nascondono truffe. Da notare come sia Isola delle Rose sia Minerva abbiano subito un’ingiustizia inspiegabile, dato che la nascita e la morte di entrambe le nazioni, avvenute in entrambe le circostanze con l’intervento militare di altri stati e mancato riconoscimento delle stesse e dei loro diritti, sono state antecedenti alla Convenzione del Diritto del Mare del 1982.

    Infine c’è una possibilità piuttosto remota, ovvero l’occupazione di nuove terre emerse. Qualcosa di simile, anche se non proprio analoga, è avvenuta nel 1967 in occasione della nascita della Cherokee Nation. In realtà in quel caso si verificò che un uragano ebbe come conseguenza la sparizione di una lingua di terra che univa un isolotto sul fiume Rio Grande al territorio degli Stati Uniti d’America. Un uomo, texano ma con sangue cherokee, approdò sull’isola e ne proclamò l’indipendenza. Trovandosi questa al confine tra Messico e Texas, il signor Williams (questo era il nome del protagonista di questa storia) sfruttò una vecchia legge messicana che decretava il diritto degli indiani di ottenere il possesso di territori di confine, nel caso in cui li avessero occupati. Pare che Williams si cimentò in imponenti spese e in ricatti (minacciò di vendere parte della terra a 300.000 Cherokee che una volta naturalizzatisi messicani avrebbero potuto avere un cospicuo peso elettorale in suo favore) per cercare, invano, di veder riconosciuta la sovranità della propria nazione.

    Altri casi come la rivendicazione della sovranità su Antartide, altri corpi celesti ed altri territori liberi sono incluse nel caso delle rivendicazioni territoriali, con la differenza che in tale situazione anziché con singoli stati le proprie battaglie dovranno essere condotte contro l’ONU o la comunità internazionale ed i suoi trattati.

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