Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Kautokeino, un coltello insanguinato
Kautokeino, un coltello insanguinato
Kautokeino, un coltello insanguinato
E-book466 pagine7 ore

Kautokeino, un coltello insanguinato

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La macchina slitta sulla strada ghiacciata e colpisce violentemente una renna. Anna Magnusson si ferma, si infila un berretto di lana e prende il coltello dallo zaino nel bagagliaio. L'orologio segna le 01:30 di notte, e ci sono più di 30 gradi sotto zero lì, sulla strada tra Luleå e Pajala. Anna è cresciuta a Stoccolma e non ha mai pensato alle sue origini. Sua madre, che è una Sami, non ha mai spiegato il motivo per cui se n'è andata dal remoto villaggio di montagna nel nord della Norvegia. Ora Anna, che lavora come sostituto procuratore, è sulla strada per Kautokeino, in Lapponia, dopo diversi anni di assenza. La nonna l'ha chiamata e le ha chiesto di andare a difendere il cugino Nils Mattis, accusato di stupro. La famiglia è disperata: non può fare a meno del lavoro di Nils Mattis in montagna. Ma quando Anna legge l'inchiesta della polizia, si insospettisce. Come farà a restare imparziale? Per lei è difficile rispettare il codice silenzioso della famiglia, fatto anche di leggi non scritte. Chi c'è dietro le morti che si verificano mentre Anna è lì? Chi vuole sbarazzarsi di lei?
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2014
ISBN9788865641255
Kautokeino, un coltello insanguinato

Correlato a Kautokeino, un coltello insanguinato

Ebook correlati

Gialli per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Kautokeino, un coltello insanguinato

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Kautokeino, un coltello insanguinato - Lars Pettersson

    insanguinato

    Kautokeino, un coltello insanguinato

    LARS PETTERSSON

    Kautokeino, un coltello insanguinato

    © Lars Pettersson

    First published in 2012 by Ordfront with the Swedish title

    Kautokeino, en blodig kniv

    Traduzione dallo svedese di Stefania Forlani

    © 2014 Atmosphere libri

    www.atmospherelibri.it

    La macchina slitta sulla strada ghiacciata e colpisce violentemente una renna. Anna Magnusson si ferma, si infila un berretto di lana e prende il coltello dallo zaino nel bagagliaio. L'orologio segna le 01:30 di notte, e ci sono più di 30 gradi sotto zero lì, sulla strada tra Luleå e Pajala. Anna è cresciuta a Stoccolma e non ha mai pensato alle sue origini. Sua madre, che è una Sami, non ha mai spiegato il motivo per cui se n'è andata dal remoto villaggio di montagna nel nord della Norvegia. Ora Anna, che lavora come sostituto procuratore, è sulla strada per Kautokeino, in Lapponia, dopo diversi anni di assenza. La nonna l'ha chiamata e le ha chiesto di andare a difendere il cugino Nils Mattis, accusato di stupro. La famiglia è disperata: non può fare a meno del lavoro di Nils Mattis in montagna. Ma quando Anna legge l'inchiesta della polizia, si insospettisce. Come farà a restare imparziale? Per lei è difficile rispettare il codice silenzioso della famiglia, fatto anche di leggi non scritte. Chi c'è dietro le morti che si verificano mentre Anna è lì? Chi vuole sbarazzarsi di lei? L'autore descrive l'ambiente, la natura, il freddo e le condizioni di vita in modo così realistico e tangibile che si perde il respiro. La natura si fa invadente, soprattutto quando scrive come il freddo e i suoi effetti incidano sulla psiche e lo stile di vita. Un thriller emozionante che si svolge in Lapponia. Un romanzo sul diritto e la morale in una comunità di minoranza etnica, che evidenzia le contraddizioni tra le consuetudini e il moderno Stato di diritto.

    "Guovdageaidnu varra niibi/ Kautokeino un coltello insanguinato"

    Da uno jojk, canto tradizionale, nel quale i luoghi della Lapponia sono descritti tramite diversi oggetti.

    Jojk, una strana forza, affermatrice e liberatoria. Beffarda o sarcastica, di un’ironia provocante.

    Non ci aveva mai pensato prima d’allora. Non aveva mai avuto quella sensazione di giocosità. Quella leggerezza. Non aveva mai percepito il loro tono come quella sera.

    Quando non erano schiamazzi da ubriachi, erano rappresentazioni balbettanti e artefatte a uso dei turisti. Vecchie befane e anziani con i vestiti tradizionali, che sbirciavano nervosi il pubblico strizzando gli occhi, mentre cantavano interminabili narrazioni sulla natura e sui nipotini.

    Qui al pub gli jojk emergevano dal locale fumoso, si mischiavano con i resti sparpagliati della musica disco dell’altra sala, ondeggiavano come i rapidi riflessi della palla roteante sul soffitto. Brevi sprazzi di vita e luce, talmente rumorosi che si sarebbe potuto mettere in moto una sega elettrica senza che nessuno reagisse. All’improvviso lo jojk divenne gioia ed espressività di fronte a lui.

    Un senso di comunanza e una sorta di ribadita conferma di solidarietà. Non si era mai sentito così prima d’allora. Non aveva mai provato quelle sensazioni così chiaramente.

    Qualcuno fece cadere un vassoio di bicchieri nella sala disco. Una voce da ubriaco gridò qualcosa a qualcuno che non ascoltava. Una sedia cadde da qualche parte nel locale, un tavolo fu spostato e raschiò sul pavimento irregolare.

    Prese il suo bicchiere e attraversò il pub fino alla finestra. Non fece caso ai sussurri alle sue spalle, lasciò che la gente parlasse e lo indicasse. Se ne fregava, era una cosa passata. Era finita. Non ce la faceva a salutare o cercare con lo sguardo qualche faccia conosciuta.

    La pompa della birra non funzionava. La spina rantolante sibilava emettendo solo della schiuma bianca. Era quasi l’ora di chiusura. Tutti urlavano i loro ordini alla cameriera sudata che aveva una fila di bicchieri, mezzi pieni di schiuma, davanti a sé.

    Con aria infelice, tentava di ricavare un mezzo litro di birra da quei bicchieri. Chiamava rassegnata il buttafuori che stava cercando di attraversare il locale fumoso con un giratubi in mano.

    Fuori dalle finestrelle il vento di nord-est concentrava la sua forza proveniente dall’intero Altopiano del Finnmark e accumulava la neve fresca contro la parete dell’hotel e l’entrata del pub.

    Una macchina passò slittando nella neve fangosa e gettò un lampo di luce su una coppia appoggiata contro un container. L’uomo indossava dei pantaloni di pelle e la tunica tradizionale di Kautokeino a strisce multicolori, con il collo alto e la cintura piena d’oro. La donna indossava solamente un giubbino di pelle, stivali e una gonna molto corta. I suoi capelli biondi ondeggiavano nel vento.

    Al bagliore rapido dei fanali sembrava quasi che l’uomo piangesse. La donna rabbrividì e cercò di trascinarlo al riparo del container. Una Volvo Amazon bianca, probabilmente della fine degli anni Sessanta, sbandò facendo un testacoda nel parcheggio. Anche lui ne aveva una simile, un tempo.

    Questa aveva delle bandiere norvegesi sul paraurti anteriore. Magari tornava da qualche matrimonio. O da un compleanno. La donna con la mini fece un cenno al guidatore. Insieme aiutarono l’uomo con la tunica di Kautokeino a salire nel sedile posteriore. La donna s’infilò all’interno al suo fianco. La macchina proseguì slittando nella tempesta di neve, diretta verso la statale.

    Tirò le tendine polverose davanti alla finestra, coprendo la vista come per lasciar fuori, dietro la finestra sudicia, vento, neve, freddo, sconforto e disperazione. Voleva restarsene lì, al caldo, in quel pub rumoroso.

    Era così che andava. L’aveva dimenticato. Quattro anni sono lunghi, molte cose possono cambiare. Sia quelle portate con sé, sia quelle lasciate. Si diresse verso la sala disco.

    Non c’erano molte coppie sulla pista, la maggior parte era seduta ai tavoli. Un uomo ubriaco con gli occhiali da sole, la tunica tradizionale, i jeans e gli stivali da cowboy, era inginocchiato in mezzo alla pista con le mani alzate verso le luci tremolanti.

    Un anziano entrò dalla porta d’ingresso in un turbinio di fiocchi di neve, con una tuta da motoslitta e stivali di pelo. Un lazo arancio sulla spalla. In mano, il berretto di pelliccia di cane e i guanti. Un grosso coltello infilato nella cintura consumata. I capelli scuri e sudati erano arruffati. L’uomo si fermò davanti alla porta e si guardò cautamente intorno nel locale.

    Lui si ritrasse cercando di evitare lo sguardo dell’uomo, ma fu immediatamente beccato.

    «Ciao, sei qui, mi offri una…»

    «È finita, la pompa è rotta».

    «Dividiamo?»

    L’uomo fece un cenno verso la bottiglia che aveva in mano. Si tolse cerimoniosamente il lazo e aprì la cerniera della tuta, sfilò le braccia e lasciò penzolare la parte superiore dalla cintura. Appoggiò berretto, guanti e lazo sul pavimento, vicino alla porta.

    «Quindi, sei tornato?»

    Trovò un bicchiere vuoto su un tavolo. Le luci si accesero nella discoteca trasformando l’atmosfera intima in un triste pallore verde di luce fluorescente e in una sciattezza color nicotina.

    «È stata dura?»

    Lui non rispose, ma si mise a esaminare il bicchiere in quella nuova luce, prima di versarci dentro più di metà della bottiglia e passarlo all’uomo con la tuta da motoslitta.

    Gli avventori intorno a loro si alzarono lentamente dai sudici divani di tessuto vellutato. Per la maggior parte erano giovani che, nell’oscurità della discoteca, si ubriacavano apposta per avere il coraggio e la forza d’animo necessari a uscire nella tempesta di neve e nel buio silenzioso.

    L’uomo con la tuta estrasse le cartine per le sigarette e il tabacco da qualche segreta tasca impermeabile.

    «Rimarrai qui?»

    «Non lo so, non ho ancora deciso. Vedremo».

    Bevve dalla bottiglia e si guardò intorno nel locale malmesso. I mobili erano gli stessi. Stesse tendine. Stessa moquette macchiata. Persino la lanugine gialla in quella presa di ventilazione asmatica era probabilmente la stessa. Quattro anni possono anche essere pochi.

    Una ragazza pallida dalle braccia magre iniziò a raccogliere bottiglie e bicchieri. La gente nel locale si alzò e cominciò a dirigersi verso l’uscita.

    Lo jojk proveniente dal pub penetrò nella discoteca scrostata come una pianta rampicante. Una liana verde di forza vitale e presunzione, che sembrava prendere il suo nutrimento dalle sigarette fatte a mano, dal tabacco stantio e dalla birra sgasata.

    Un ragazzo ubriaco, con una giacca da motociclista a colori vivaci e due ragazze dai capelli biondi tinti dietro di sé, si fece avanti e chiese da accendere. Si rivolse verso l’uomo in tuta, ma per tutto il tempo la sua attenzione era diretta all’altro. Fece un tiro dalla sigaretta bitorzoluta e si girò, chiedendo come per caso: «Sei fuori, allora?»

    L’uomo con la tuta gli lanciò uno sguardo d’avvertimento.

    «Vattene!»

    Il tizio non gli diede retta, ma guardò le ragazze al bancone del bar. Quelle annuirono con aria d’incoraggiamento.

    «Sei stato tu, no?»

    «Vattene, moccioso del cazzo!»

    L’uomo con la tuta da motoslitta si elevò nella sua altezza, non troppo imponente, ma il ragazzo fece comunque un passo indietro, spaventato dalla violenza dei movimenti dell’altro. Si voltò e tornò al gruppo di ragazzi che si erano raccolti vicino al bancone.

    «Stai calmo, Ovla, non fa niente, posso rispondere per me stesso».

    Lui era rimasto seduto con la bottiglia di birra in mano, sembrava tranquillo e composto. Era come se fosse preparato a una cosa del genere. Preparato alle domande. A quell’insidiosa caduta nel tono di voce normale. Ne aveva avuto di tempo per prepararsi. Quattro anni. Guardò il gruppo che si era raccolto vicino al bancone. Sussurri. Cazzate.

    Tutto d’un colpo si sentì molto stanco e si pentì di essere andato lì quella sera. Avrebbe potuto aspettare qualche settimana. Lasciare che la voce girasse in paese prima di farsi rivedere tra la gente.

    Chi se ne fregava. Ormai era troppo tardi. Fece risedere l’uomo con la tuta, Ovla, e diede le spalle al ragazzo con la giacca della Lynx che, sogghignando, era ritornato da quelli che lo aspettavano al bancone. Gli altri ragazzi si raccolsero intorno a lui pieni di attesa.

    La cameriera si fece largo con l’ennesimo vassoio di bottiglie vuote e bicchieri sporchi. Cercava invano di attirare l’attenzione del buttafuori. Ma lui era occupato a distribuire cappotti e non guardava nella sua direzione.

    Con aria rassegnata s’infilò dietro il bancone tenendo in equilibrio il vassoio stracarico.

    «Fregatene di quelli, sai com’è. Alla salute!»

    Ovla rise e alzò il bicchiere, ma i suoi occhi erano seri e lui manteneva il controllo su ciò che succedeva alle spalle dell’altro.

    Il ragazzo aveva aperto la giacca pesante da motociclista. I capelli biondi erano scompigliati e lui era rosso in viso per l’eccitazione e per la troppa birra. Spinto dai cenni d’incoraggiamento e dai commenti dei suoi amici, ritornò dai due uomini. Gli appoggiò la mano sulla spalla.

    «Sei stato tu a ucciderlo, eh?»

    Ovla cercò di alzarsi, ma lo sguardo dell’uomo all’altro lato del tavolo lo fermò.

    «Adesso che sei fuori, puoi dire com’è andata, no?»

    Lui non girò la sedia, fece solo un piccolo movimento verso sinistra, in modo che il ragazzo perdesse l’equilibrio, poi si alzò velocemente a destra, si girò e, con la bottiglia in mano, gli diede due colpi secchi.

    Il primo arrivò alla radice del naso. L’altro colpì la guancia e la spalla, e il ragazzo si ribaltò sulla sedia e il tavolino basso da cocktail. Nel locale scese il silenzio.

    I mormorii dal pub si dispersero tra le pareti grigie.

    Lui appoggiò la bottiglia sul tavolo e si diresse verso l’uscita senza guardarsi intorno.

    *

    C’era una foto di noi due sulla bacheca sopra la scrivania di mia madre, tra post-it illeggibili, orari scolastici e biglietti di auguri natalizi dimenticati. Non credevo di averla mai vista prima, ma quando il giorno dopo il funerale portai via le cose di mia madre, trovai la foto sotto un vecchio calendario con l’orario delle sue lezioni.

    Il colore era sbiadito per il sole. In un angolo era quasi del tutto sbiancato. Ma forse poteva essere il negativo rovinato dalla luce.

    Nils Mattis indossava una logora tunica da lavoro. Aveva una cintura con dei coltelli e un antiquato lazo intrecciato sulla spalla. Io avevo un parka bianco e guardavo in camera con aria dubbiosa.

    Mi ricordo di quella giacca. Quella primavera andava di moda tra le ragazze della mia scuola, l’Ängskolan di Sundbyberg. La mia aveva una fodera a quadretti rossi e verdi e un odore d’impermeabilizzante, stranamente forte. Un odore che impregnava il maglione di lana e gli altri vestiti che indossavo. Dopo quella primavera non usai mai più quella giacca tranne quando eravamo su dai nonni. Magari è ancora appesa nel capanno lassù al villaggio estivo.

    Nils Mattis non può avere più di undici o dodici anni, nella foto, ma sembra più grande. È basso e robusto. Ha le spalle larghe.

    Siamo un po’ distanti l’uno dall’altra. Nils Mattis guarda giù, per terra, si difende dallo sguardo del fotografo. Il berretto di lana è tirato ben bene sulle orecchie. Dietro di noi si vedono un pezzo dell’affumicatoio del nonno, una pila di pelli di renna su una slitta rotta, un telone piegato e un cane che dorme. Credo che si chiamasse Zeppo.

    Stavamo andando in montagna.

    Dopo che mio padre ebbe scattato la foto, con la sua consueta cerimoniosità, Nils Mattis aveva fischiato al cane, sollevato lo zaino e si era avviato davanti a me sul sentiero che portava alla torbiera.

    Sono quasi sicura che questa sia l’unica foto di Nils Mattis che abbia mai visto. È stata scattata più di vent’anni fa.

    Avevo riordinato le carte lasciate da mia madre e messo gli oggetti della sua scrivania in alcune scatole di cartone comprate all’Ikea. Probabilmente anche la foto era in una di quelle.

    Dopo la telefonata della nonna, andai in soffitta a cercare di recuperarla.

    La soffitta era fredda e polverosa e la luce saltava ogni cinque minuti. Ma rimasi lo stesso seduta al gelo a sfogliare le carte.

    Non ci avevo mai pensato prima, ma non era rimasto niente, da nessuna parte, del mondo che lei aveva lasciato. Nemmeno una riga. Nessun documento ufficiale o privato. Nessuna pagella di scuola o foto di classe. Nessuna lettera della nonna o di qualcun altro.

    Quando abitavamo a Sundbyberg c’era stata una foto della confermazione sulla parete del salotto. Dopo il funerale avevo chiesto a mio padre, ma non era riuscito a ricordare dov’era finita. Pensava che la mamma l’avesse tirata giù in qualche momento.

    Era come se la sua vita fosse cominciata quando si era trasferita giù in Svezia e aveva iniziato a studiare per diventare insegnante. Perché aveva eliminato così accuratamente tutte le tracce dei suoi primi ventitré anni?

    Presi la foto di Nils Mattis e me la portai in casa.

    Dovevo avere quattordici anni quell’estate. Cercai di fare il conto, ma non riuscii a ricordare di quando fosse. Non ricordavo niente di lui, tranne che era timido e goffo, in un certo qual modo imprevedibile. Che aspetto avrebbe avuto ora?

    La nonna era sembrata agitata parlando di lui al telefono. Laconica, aveva cercato le parole in quella lingua per lei inusuale, e comunque aveva un tono di voce implorante che non le riconoscevo. Ma forse era solo perché non era abituata a parlare al telefono. O magari pensava al costo della telefonata internazionale.

    Mi scaldai le mani con la tazza del tè, guardando la foto e iniziando a pentirmi di aver promesso di andare lassù. Mi sembrava di non avere il controllo della situazione. Di non avere idea di cosa si aspettassero da me.

    Ma la voce debole della nonna, al telefono, mi aveva fatto rispondere, senza pensare troppo a quello in cui mi sarei cacciata.

    «Sì, certo che posso venire. Va bene. Posso prendere qualche giorno di ferie».

    «È urgente» aveva detto lei. «Dobbiamo sistemare subito questa cosa, così non succede come l’altra volta».

    Avevo promesso di partire appena possibile. Di cosa fosse successo prima non avevo idea. Avrei chiesto una volta sul posto.

    Il giorno dopo pioveva, una pioggia di febbraio, pesante e inconsolabile. Un vento freddo carico di fuliggine e fumo sparpagliava i rifiuti sulla banchina della stazione di Flemingsberg, dove i gabbiani avevano appena rovistato in un cestino dell’immondizia. Il treno ad alta velocità diretto a sud passò creando una corrente gelida mentre mi affrettavo verso la scala mobile.

    «Anna, Anna!»

    Kerstin mi aveva raggiunto sulla scala. Era la segretaria del tribunale e mi era stata d’aiuto quando avevo cominciato a lavorare lì come assistente del procuratore, quasi un anno prima. Estrassi dalla cartella la foto di me e Nils Mattis e gliela porsi.

    «Forse qualcuno degli uscieri può farne una copia migliore?»

    Kerstin guardò la foto mentre percorrevamo in fretta la passerella dirigendoci verso la facciata lucente del tribunale di Södertörn.

    L’aria era secca nell’aula del tribunale e c’era un forte odore di detersivo che mi faceva colare il naso. Mentre il giudice Aronsson lentamente e legnosamente scandiva le considerazioni della corte e le delibere di rigetto delle accuse, arrivò Kerstin con l’ingrandimento della foto e la prenotazione del biglietto che le avevo chiesto di farmi.

    Arlanda-Luleå, 21.15. OK? aveva scritto sulla busta.

    La aprii e guardai la foto. I colori erano migliorati, ma nemmeno adesso ricavai qualche impressione da Nils Mattis. Non era solo il suo sguardo a essere sfuggente. Tutta la sua postura testimoniava la distanza da me e da mio padre, che stava scattando la foto. Sembrava che l’avessimo costretto a stare lì. Che gli stessimo rubando tempo da qualcosa che era molto più importante.

    «Ci vai?» sussurrò Kerstin sedendosi accanto a me al tavolo del pubblico ministero.

    Guardò la foto. Indicò me e il mio parka.

    «Sembri molto piccola. Quanti anni avevi?»

    «Tredici, forse quattordici».

    Il giudice Aronsson fece una pausa a effetto nel suo resoconto senza fine e ci guardò con aria di disapprovazione. Cercai di fargli un sorriso di traverso ma lui non fece una piega, e si schiarì la voce diverse volte prima di riprendere quell’interminabile cantilena.

    L’accusa sarebbe stata respinta, lo sapevo già. Il procuratore capo Börjesson mi aveva spiegato che non sarebbe valsa la pena di ricorrere in appello. L’investigazione, su cui avevo costruito la mia accusa, era stata troppo negligente e mal circostanziata. Un’udienza in corte d’appello avrebbe sbriciolato le accuse come fanno i bambini con la casetta di marzapane a Natale.

    Era un semplice caso di frode. L’imputato aveva venduto quote di un immobile industriale del Comune, che doveva essere trasformato in appartamenti di lusso. Era una truffa in cui dipendenti comunali e speculatori avevano cercato di mettere le mani su una fabbrica in disuso. La sua responsabilità era chiara. L’imputato era colpevole. Non c’erano dubbi a riguardo. Ma la polizia aveva dimenticato di procurarsi delle prove certe e aveva tralasciato delle testimonianze.

    Aronsson arrivò finalmente all’accusa rigettata, io misi la foto nella mia cartella e iniziai a raccogliere i miei fascicoli.

    Uscendo dall’aula l’accusato si fermò alla mia scrivania.

    «Mia cara, è stata proprio una cosa stupida. Ti sei resa ridicola e hai sprecato i soldi pubblici. Non lo capisci?»

    Il suo avvocato da cinquemila corone l’ora si sistemò il completo di Hugo Boss, mi strinse la mano con un sorriso ironico, e i due truffatori uscirono ridendo, verso la pioggia grigia e la libertà.

    «Quanto starai via?»

    Kerstin mi aspettava sulla porta del corridoio.

    «Non so, ma ho ancora dieci giorni di ferie da utilizzare».

    «È un tuo parente, eh, quello nella foto?»

    «Sì, un cugino. Nils Mattis… Tutti hanno un secondo nome lassù. Non lo conosco. Non lo vedo da vent’anni. È stata mia nonna a telefonarmi e chiedermi se potevo andare là».

    Entrammo nell’ufficio di Kerstin e lei cercò il mio turno di servizio sul computer.

    «Quanto hai detto che starai via?»

    «Una settimana, forse dieci giorni. Non c’era una riunione mercoledì?»

    «Me ne occupo io. Però hai il processo venerdì mattina».

    «Cerca di spostarlo».

    «Farà freddo là, adesso, eh? E sarà buio, saranno corte le giornate in questo periodo dell’anno, no?»

    Guardò fuori dalle alte finestre, come per accertarsi che fosse ancora chiaro, giù ai binari dove era appena passato il treno pendolari da Södertälje. Aveva smesso di piovere, ma le nuvole erano plumbee e stavano sospese grevi sopra gli alberi del liceo dall’altro lato della scarpata ferroviaria.

    «Non sarà certo un problema».

    «Lavoravi là, prima, vero?»

    «Sì, ho fatto il praticantato e i primi anni presso il tribunale di Gällivare».

    «Hai visto le previsioni del tempo?»

    Scossi la testa e lei si strinse addosso la giacca del completo grigio, per sottolineare quanto fosse lontano quel luogo, quanto apparisse freddo e buio e remoto guardandolo da qui, dall’orizzonte di Stoccolma.

    «Quando sei andata da quelle parti l’ultima volta?»

    «Saranno quasi dieci anni».

    «Ho controllato le informazioni meteorologiche, c’erano 32 gradi sotto zero questa mattina. Sii prudente. Promettimelo».

    *

    Successe tutto troppo in fretta. Così in fretta da cogliermi di sorpresa.

    Solo un baluginio. Un bagliore, un riflesso lungo un secondo contro il buio e la neve bianca. Feci appena in tempo a rendermene conto. Solo un’ombra scura contro la neve bianca sul ciglio della strada.

    Poi successe tutto più in fretta di quanto ci si possa immaginare.

    Il parafango colpì la renna con violenza e il corpo grigio fu sbalzato sul cofano e contro il parabrezza. Gli zoccoli e le zampe anteriori colpirono il tetto della macchina prima che l’animale rotolasse di nuovo sul cofano e scivolasse lentamente giù, davanti alla macchina.

    Quando finalmente riuscii a fermare l’auto, l’animale era scomparso. Solo una macchia di sangue sul parabrezza e un ciuffo di spessi peli grigi incastrati sotto il tergicristallo. C’erano alcuni graffi e ammaccature sul cofano, ma non riuscivo a vedere la renna da nessuna parte.

    Spensi il motore. Nel silenzio si sentivano i cocci del fanale rotto che cadevano tintinnando sulla strada ghiacciata.

    Rimasi seduta così per alcuni secondi, guardando nel buio. Il cono di luce del fanale intatto penetrava nel buio, bianco di fronte a me. I cristalli di neve vibravano nella luce gialla. La torbiera sembrava sterminata. I contorni disordinati dei pini si fondevano con il cielo. L’aurora boreale disegnava un enorme arco verde su quel paesaggio deserto.

    Quando lasciai la presa sul volante, le mani si misero a tremare incontrollate.

    Uscii dall’auto riscaldata e il freddo mi fece lacrimare gli occhi. Il naso e la bocca mi si congelarono.

    La renna, un cucciolo di un anno con delle corna sottili e ramificate, giaceva incastrata sotto la ruota anteriore destra. Aveva le zampe posteriori rotte, ma era viva. Scuoteva la testa e il suo sguardo vagava terrorizzato nella luce dei fanali. Una zampa anteriore colpì il paraurti. Aveva un taglio sulla spalla ma non si vedeva sangue nella ferita bianca aperta. Forse perché faceva troppo freddo?

    C’erano 31 gradi sotto zero all’aeroporto di Kallax, qui erano sicuramente 35 ed era l’una e mezzo di notte passata. Venti, forse trenta chilometri da Korpilombolo. Settanta da Pajala.

    Potevano volerci ore prima che un’altra macchina passasse di qui a quest’ora della notte.

    Le scarpe erano troppo leggere. Il freddo della strada mi faceva tremare le gambe, mi risaliva tutto il corpo. Mi addormentava i nervi, mi bloccava le articolazioni. Rendeva i miei movimenti goffi e rigidi.

    Rientrai in macchina e mi misi il berretto di lana. Con fatica aprii il bagagliaio: il coltello era nella tasca esterna dello zaino.

    Il freddo era umido e pungente, le mani s’incollavano alla struttura dello zaino e alla maniglia del bagagliaio. Era un comune coltello Mora, vecchio, l’avevo ereditato da mia madre. Aveva una guaina di cartone pressato e un manico di legno rosso, piccolo e consumato. La lama era un po’ arrugginita ed io passai cautamente il pollice sul filo. Era freddo e non aveva sensibilità, ma il coltello sembrava affilato. Quel tanto che bastava.

    La renna sussultò quando mi vide alla luce dei fanali. Diede dei colpi con la testa e batté la zampa anteriore contro il davanti della macchina.

    Io girai intorno all’auto per evitare di guardarla negli occhi. Mi accovacciai e cercai di accarezzarla sulla testa per tranquillizzarla.

    «Miesse, miesse, siivos miesse».

    Non sapevo cosa significasse. Dovevo averlo sentito dire qualche volta alla mamma o alla nonna e si era fissato nel mio subconscio, da qualche parte.

    La renna dava dei colpi con la testa, inquieta, ed io cercai di prenderla intorno alla gola con il braccio sinistro. La testa si scostò, le sue corna sottili mi grattarono la guancia e vidi il terrore negli occhi neri sotto le lunghe ciglia.

    Cercai di tenere ferma la testa, ma era troppo lontana. Non osai avvicinarmi di più per avere una presa sicura sulla gola.

    La renna lottava per liberarsi, grugniva tremando di paura, il vapore del suo respiro ansimante si trasformava in cristalli di neve fluttuanti che brillavano alla luce dei fanali.

    Non l’avevo mai fatto prima d’allora. Ma avevo visto mio nonno e mio zio farlo innumerevoli volte.

    «Miesse, miesse».

    M’inginocchiai e tenni ferma la testa nell’incavo del braccio. Con le dita dell’altra mano tastai le ossa del cranio. Trovai il piccolo avvallamento dietro la base ossea delle corna, cercai le prime vertebre. Cercavo di trovare il punto giusto.

    L’animale sotto di me, caldo e fumante, tese tutti i muscoli per liberarsi. Il corpo magro si serrò in uno spasimo. Le zampe posteriori rotte non obbedivano ai movimenti. Quella anteriore mi colpì il braccio.

    Non so dove trovai la forza.

    Improvvisamente fu tutto chiaro. Strinsi la presa sulla nuca del cucciolo, piegai la gamba sinistra e mi gettai sulla renna spaventata con tutto il peso del mio corpo.

    Il sangue del graffio sulla guancia mi colò sulle mani mentre giravo la testa dell’animale disperato contro la strada ghiacciata. Puntai il coltello sulla nuca con la mano sinistra e lo spinsi nella colonna vertebrale con la mano destra. Dovetti colpirlo diverse volte prima che la lama penetrasse nella spina dorsale. La feci ruotare in modo da sentire che si muoveva tra la cartilagine e le vertebre.

    L’animale sobbalzò, si tese e collassò. I muscoli del collo si rilassarono. La testa cadde pesantemente sulle mie gambe.

    Rimasi lì seduta sopra il cadavere fino a quando iniziarono gli spasmi post-mortem. Respiravo affannata e avevo un sapore di sangue in bocca.

    Col corpo rigido e le mani brucianti dal freddo, mi alzai dal cucciolo di renna morto e rientrai in macchina. Rovistai nella cartella per estrarre il cellulare.

    Accesi la luce interna e guardai il mio viso agitato nello specchietto retrovisore brinato mentre digitavo il 112.

    Da una ferita appena sotto l’occhio mi usciva del sangue.

    La centrale SOS mi mise in collegamento con la polizia di Luleå. Era a più di centocinquanta chilometri di distanza, ma era il posto più vicino con un presidio notturno.

    «Sono l’assistente procuratore Anna Magnusson, del tribunale di Södertörn. Volevo comunicare che ho investito una renna sulla strada per Pajala. Venti o trenta chilometri a sud di Korpilombolo».

    «È morta?»

    «L’ho uccisa io».

    «L’automobile ha subito dei danni?»

    Non chiese se io ero ferita. Era alla macchina che pensava. Aprii la portiera e sputai sangue sulla strada.

    «Niente di grave».

    «Sei diretta a Pajala?»

    «Proseguirò oltre il confine finlandese. Devo essere a Kautokeino domani».

    «Puoi rimuovere le orecchie?»

    «Non c’è nessuno alla stazione di polizia di Pajala a quest’ora?»

    «Basta che tu tagli le orecchie e le metta in un sacchetto, poi appendile alla maniglia della porta del benzinaio OK quando passi da Pajala».

    Si sarebbe occupato lui dei dettagli. Mi asciugai il viso con una salvietta inumidita che trovai nel cassetto del cruscotto e per un attimo cercai il coltello, prima di ricordarmi che l’avevo appoggiato di fronte a me sul cofano.

    Il freddo faceva fumare il corpo della renna. Calpestai una massa marrone, vomitata dall’animale morto, e mi asciugai le scarpe nella neve compatta sul ciglio della strada.

    Quando tagliai via le orecchie, mi scivolò il coltello e mi ferii leggermente la mano.

    Guardai il taglio. Non sanguinava. Il gelo mi tendeva la pelle. Era solo un segnetto bianco nel punto tra pollice e indice.

    Avvolsi la sciarpa intorno alla ferita e cercai di fare retromarcia dal mucchio di neve solida. Il corpo della renna era incastrato sotto la parte anteriore dell’auto. Dovetti scendere, sdraiarmi sulla superficie irregolare della strada e, facendo leva, staccare le zampe rotte che si erano incastrate tra il montante e l’ammortizzatore.

    Quando feci per risalire, dopo aver spostato la renna morta sul ciglio, persi completamente le forze. Dovetti inginocchiarmi vicino alla portiera e vomitare.

    Riuscii a malapena a rientrare in macchina.

    Rimasi seduta almeno dieci minuti, con la testa appoggiata al volante, prima di riuscire ad andarmene. Le orecchie rimasero là, sul ciglio della strada.

    Quello che mi spaventò, in quell’occasione, proprio quella notte seduta nella macchina gelida, furono le mie sensazioni mentre uccidevo. Il modo in cui avevo risvegliato un qualche strano mostro nascosto da qualche parte nel mio corpo. Il modo in cui i gesti, l’istinto e l’adrenalina avevano agito in sinergia fuori dal mio controllo. Non avevo mai provato niente di simile.

    La cosa più spaventosa, quella che mi sconvolse maggiormente, fu che non era stata una sensazione spiacevole. Al contrario. Avevo rigirato il coltello con un senso di gratificazione. Avevo percepito le cartilagini e le vertebre che si frantumavano come una conferma del fatto che stavo agendo nel modo corretto. Che avevo trovato il punto giusto nella spina dorsale dell’animale.

    Dopo che ebbi letto attentamente due volte i documenti dell’indagine, erano quasi le otto di sera. C’erano le dichiarazioni di un solo testimone. Era come se fossero finite tra i documenti per caso. Il testimone era stato denunciato per percosse quella stessa sera, per aver buttato a terra un giovane durante una rissa al pub. Durante l’interrogatorio aveva menzionato casualmente di aver notato Nils Mattis un po’ prima.

    Mi alzai dalla scrivania, rimasi in piedi un attimo e guardai giù nella piazza deserta. C’era qualche finestra illuminata nel palazzo comunale, il tubo fluorescente rotto sopra il bancomat lampeggiava avvilito. Fuori dall’ufficio postale abbandonato c’era un’auto ricoperta di neve. Giù al fiume il fanale di una motoslitta brillava tremolante come una stella infelice. Scomparve a velocità vertiginosa sotto il ponte lasciando dietro di sé una nuvola di neve scintillante nell’ondeggiante luce gialla dei lampioni.

    La lampadina fuori dall’obitorio della chiesa era accesa. Qualcuno che aspettava il suo turno, lo scioglimento del ghiaccio e una giornata adatta per la sepoltura.

    «Hai finito,vedo».

    L’agente di polizia era giovane e indossava un misto tra uniforme e abiti civili. Giacca dell’uniforme e pantaloni con il fregio, maglione di pile e stivali pesanti.

    Scrollò la neve dal berretto e mise timidamente un cartone della pizza sulla scrivania, come se non sapesse se fosse la scelta adatta.

    «Ho pensato che avessi fame. Possiamo dividercela. Prima però la scaldo un po’… nel microonde. Durante la strada si è raffreddata».

    Scomparve verso qualcuna delle stanze interne della stazione di polizia deserta.

    Ero arrivata a Kautokeino nella mattinata. Il cielo era stato limpido e aveva fatto freddo fino a Kolari, sulla sponda finlandese del fiume Muonio.

    Alcune decine di chilometri a nord del fiume la temperatura era improvvisamente salita e mi ero ritrovata in una tempesta di neve, come un muro bianco sulla strada che era diventata come una pista, difficile da percorrere. Col mio unico anabbagliante non ero mai sicura che non ci fossero altre renne per la strada. Per cento chilometri non vidi nemmeno una macchina. Solo luci esterne di case immerse nel bosco, in lontananza.

    Nei pressi di Muonio incontrai un camion di legname che sollevò una nuvola di neve e mi fece quasi finire fuori strada. Mi fermai a una stazione di servizio abbandonata e cercai di dormire qualche ora con il motore acceso e il riscaldamento al massimo.

    Quando mi svegliai, ero bagnata di sudore e i finestrini erano umidi di condensa. Era ancora buio fuori, ma mentre cercavo di grattar via la neve ghiacciata dal parabrezza passarono alcune auto.

    Non avevano ancora pulito le strade dal lato norvegese del confine e dovetti aspettare un paio d’ore alla dogana di Kivilompolo prima che lo spazzaneve norvegese arrivasse sollevando una coda di scintille gialle con la lama. Il guidatore saltò il suo caffè mattutino, si diresse deciso verso il confine e tornò verso Kautokeino senza nemmeno una pausa.

    Era più sicuro se lo seguivo, disse, in modo da non rimanere bloccata da qualche parte sulla statale deserta. Non pensava che ci fossero molte auto in giro a quell’ora. Non con quel tempo.

    La neve giaceva in strisce bianche davanti alla macchina ed io cercavo di stare a distanza tale dallo spazzaneve da avere la miglior visibilità possibile. Ma vedevo soltanto un turbinio di neve. Solo la luce gialla lampeggiante dello spazzaneve mi forniva un indizio di dove fosse la strada.

    Alle nove circa del mattino arrivammo a Kautokeino. Non mi preoccupai di mettermi in contatto con i miei parenti, mi limitai ad andare all’hotel, prendere una camera e rannicchiarmi nel lettino, al gelo, addormentandomi all’istante.

    Quando mi svegliai, erano le tre del pomeriggio. La flebile luce azzurra che avevo intravisto prima di infilarmi a letto era scomparsa. La tempesta di neve era cessata, ma il vento continuava. Mentre ero nella sala ristorante vuota, umida e fredda dell’hotel, a guardar fuori sulle file di lampioni gialli ondeggianti, decisi di non telefonare alla nonna. Poteva aspettare fino all’indomani.

    Certo, avevo detto che avrei cercato di arrivare quel giorno, ma nessuno si sarebbe sorpreso se fossi arrivata quello successivo. In un certo qual modo sentivo di aver bisogno di un po’ di tempo per abituarmi a quell’ambiente senza dover tenere in conto gli obblighi sociali.

    Dopo tre tazze di un caffè leggero con latte, presi la macchina e mi diressi alla stazione di polizia.

    Sulla scala rischiai quasi di cadere, spinta dall’impiegata che stava correndo a giocare le schedine. Potevo aspettare dentro, sarebbe tornata subito.

    Il Samvirkelaget aveva cambiato nome in Coop-Prix e ora aveva delle porte a vetro con la fotocellula. Il vento aveva staccato il cartello con le offerte del giorno che ora sbatacchiava rassegnato contro l’angolo dell’edificio.

    L’impiegata tornò dopo qualche minuto. Il capo della polizia era via, per un viaggio di lavoro. Già, era ancora Evald Eliassen il capo della polizia lì in paese.

    «Non ci si libera di lui così facilmente».

    Rise un po’ dubbiosa e nello stesso tempo mi guardò con aria indagatrice per vedere come reagivo al suo commento scherzoso.

    Comunque ora Eliassen era ad Alta a un qualche incontro riguardante l’organizzazione della polizia nel Finnmark, ma sarebbe tornato venerdì. Però avrei potuto parlare con un poliziotto che era la persona giusta per me, l’agente Kristiansen.

    «È fuori in garage».

    Tutte le stanze dell’ufficio erano illuminate, ma non vidi nessuno. Nella stanza d’angolo, che doveva essere quella del capo, visto che era la più ampia e aveva una grossa cartina del distretto di polizia, c’era un ricevitore radio che crepitava. Non avevo idea di quanti poliziotti lavorassero qui. Ma, a giudicare dalle apparenze, doveva essere uno dei più estesi distretti di polizia al mondo. Un’enorme estensione di montagne e tundra intorno a una piccola località con sì e no tremila abitanti. Sulla scrivania di Eliassen c’erano alcuni raccoglitori ad anelli e una scatola di cartucce. Sul davanzale della finestra penzolava una piantina moribonda di una specie indefinita.

    Proseguii lungo il corridoio.

    «C’è qualcuno?»

    Nessuno rispose, solo la ricetrasmittente che crepitava sulla scrivania del capo. In fondo al corridoio c’era una porta antincendio. Doveva essere quella del garage.

    All’interno, la macellazione era in corso. Un ragazzo con i capelli biondi e un maglione di lana norvegese e un sami più anziano con la tuta penzolante dalla cintura erano al lavoro insieme. Sul rimorchio della motoslitta c’era una renna a pezzi, appena scuoiata.

    Quando entrai, il più vecchio dei due gettò la spalla in una grossa cassetta di plastica.

    Le pelli violacee di due animali appena scuoiati erano appoggiate sul cofano

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1